interpretazione del regolamento contrattuale: la delibera del condominio non vincola il giudice.

Qualora nel condominio sia in vigore un regolamento di natura contrattuale,, il giudice è tenuto ad interpretarlo secondo le ordinarie regole ermeneutica in tema di contratti e non potrà limitarsi a recepire la lettura che di tali norme sia stata data in sede di successive delibere condominiali.

Nella fattispecie il regolamento vietava innovazioni lesive del decoro e il Condominio aveva  ritenuto conforme alla clausola un intervento di recupero del sottotetto effettuato da un condomino.

La Corte di legittimità ( Cass.civ. sez. II  ord. 27 maggio 2020 n. 9957), nel ribadire nozioni ormai consolidate in tema di decoro, rileva che il giudice di merito era tenuto a valutare se quell’intervento fosse effettivamente in contrasto con la clausola regolamentare, non potendo limitarsi a prendere atto del consenso espresso dalla maggioranza assembleare.

“Questa Corte ha affermato, con orientamento consolidato al quale il collegio intende dare continuità, che costituisce innovazione lesiva del decoro architettonico del fabbricato condominiale, come tale vietata, non solo quella che ne alteri le linee architettoniche, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio (Cassazione civile sez. II, 28/06/2018, n. 17102).
L’alterazione di tale decoro è integrata, quindi, da qualunque intervento che alteri in modo visibile e significativo la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono all’edificio una sua propria specifica identità (Cass. 1076/05 e Cass. 14455/09).

Ne consegue che, attesa la sostanziale identità della domanda basata sulla lesione del decoro architettonico o sull’art. 8 del regolamento condominiale, sia in relazione all’art. 1120 c.c., il motivo dedotto non è decisivo perché basato sui medesimi presupposti fattuali.

Con il secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa interpretazione dell’art. 1362 c.c., in relazione al regolamento condominiale ed agli artt. 1120, 1137, 1138, 1350, 1372 e 2909 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., commi 2 e 3, per avere la corte distrettuale interpretato il regolamento condominiale, facendo riferimento alla volontà dei condomini manifestata nella Delib. 25 febbraio 2003, con la quale i medesimi nulla obiettavano in ordine al progetto di modifica delle parti comuni; la corte di merito non avrebbe tenuto conto che, trattandosi di regolamento di natura contrattuale, non avrebbe potuto essere modificato a semplice maggioranza, ma con il consenso unanime dei condomini, in quando incidente sul decoro architettonico. Contestava, inoltre, che si fosse formato il giudicato per assenza di opposizione alla citata Delib. condominiale in quanto l’oggetto della Delib. era limitato al riconoscimento della legittimità degli interventi purché conformi al regolamento condominiale.

Il motivo è fondato sotto diversi profili.
È incontestato che il regolamento del Condominio (omissis) abbia natura contrattuale e che la domanda dal medesimo proposta fosse diretta alla declaratoria di illegittimità dei lavori eseguiti dai convenuti, consistenti nel recupero, ai fini abitativi, del sottotetto, perché lesivi del decoro architettonico.
Nell’interpretare il regolamento contrattuale, il giudice deve utilizzare i canoni ermeneutici previsti dal codice civile e quindi leggere le clausole complessivamente e non limitarsi alla singola disposizione (art. 1363 c.c.) e cercare di ricostruire la volontà e l’intenzione delle parti contraenti (art. 1362 c.c. (Cassazione civile sez. VI, 03/05/2018, n. 10478).

L’art. 1362 c.c., allorché nel comma 1, prescrive all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto ma, al contrario, intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile (Cassazione civile sez. II, 22/08/2019, n. 21576).

La corte di merito ha interpretato l’art. 8 del regolamento contrattuale e, in particolare della volontà delle parti, non sulla base dei citati criteri ermeneutici, ovvero tenendo conto del dato letterale e delle altre clausole contrattuali, ma sulla base del comportamento successivo, costituito dal contenuto della Delib. 22 maggio 2003, nella quale il condominio nulla obiettava in relazione al progetto di realizzazione del recupero dell’abitabilità dei sottotetti, secondo il progetto presentato.
Tale deliberazione , che non risulta essere stata adottata all’unanimità, non poteva costituire l’unico parametro interpretativo per l’individuazione della volontà dei condomini espressa nel regolamento contrattuale, nè era idonea a modificarlo perché attinente ad innovazioni incidenti sul decoro architettonico.
In tale ipotesi, infatti, esula dai poteri istituzionali dell’assemblea dei condomini la facoltà di deliberare o consentire opere lesive del decoro dello edificio condominiale, alla stregua dell’art. 1138 c.c., comma 4 (Cassazione civile sez. VI, 18/11/2019, n. 29924).
Ne consegue che l’interpretazione del regolamento contrattuale, erroneamente basato, sulla Delib. Condominiale 22 maggio 2003, non poteva avere autorità di giudicato.”

© massimo ginesi 3 giugno 2020

niente ristorante se il regolamento consente solo attività di commercio.

Ove il regolamento di condominio, di natura contrattuale, vieti attività diverse da quella di commercio, deve ritenersi non consentirà l’apertura di un ristorante, poiché tale attività non è riconducibile alla generale categoria della attività di commercio.

L’interpretazione della norma regolamentare è attività rimessa al giudice di merito, che dovrà procedervi secondo le norme generali in tema di contratti, al fine di appurare l’effettiva volontà delle parti.

E’ quanto statuito da una recente sentenza di legittimità (Cass.Civ. sez. II 4 aprile 2019 n. 9402 rel. Scarpa): “l’interpretazione delle clausole di un regolamento condominiale contrattuale, contenenti il divieto di destinare gli immobili a determinati usi (al fine di tutelare l’interesse generale al decoro, alla tranquillità ed all’abitabilità dell’intero edificio, nonché ad incrementare il valore di scambio delle singole unità immobiliari) è sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, ovvero per l’omesso esame di fatto storico ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Cass. Sez. 2, 30/06/2011, n. 14460; Cass. Sez. 2, 31/07/2009, n. 17893; Cass. Sez. 2, 23/01/2007, n. 1406; Cass. Sez. 2, 14/07/2000, n. 9355; Cass. Sez. 2, 02/06/1999, n. 5393; più di recente, non massimate, Cass. Sez. 6-2, 14/05/2018, n. 11609; Cass. Sez. 6-2, 21/06/2018, n. 16384).

La condivisa esigenza di chiarezza e di univocità che devono rivelare i divieti ed i limiti regolamentari di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva, coerente con la loro natura di servitù reciproche, comporta che il contenuto e la portata di detti divieti e limiti vengano determinati fondandosi in primo luogo sulle espressioni letterali usate. L’art. 1362 c.c., del resto, allorché nel primo comma prescrive all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto, anzi intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile (Cass. Sez. 3, 27/07/2001, n. 10290).

In particolare, l’interpretazione di una clausola del regolamento di condominio, contenente il divieto di destinare i negozi ad uso diverso da “commercio regolarmente autorizzato dalle autorità competenti”, secondo cui collide con lo stesso divieto l’esercizio dell’attività di ristorazione, non risulta né contrastante con il significato lessicale delle espressioni adoperate nel testo negoziale, né confliggente con l’intenzione comune dei condomini ricostruita dai giudici del merito, né contraria a logica o incongrua, rimanendo comunque sottratta al sindacato di legittimità l’interpretazione degli atti di autonomia privata quando il ricorrente si limiti a criticare il risultato ermeneutico raggiunto dal giudice ed a lamentare che quella prescelta nella sentenza impugnata non sia l’unica interpretazione possibile, né la migliore in astratto.

E’ invero plausibile concludere, come inteso dalla Corte di Roma, che esuli dalla mera attività di commercio (la quale si risolve nella semplice intermediazione e distribuzione dei prodotti, di per sé consentita dalla disposizione regolamentare) l’esercizio di un’attività di ristorazione, in quanto comunque o connotata dalla trasformazione delle materie prime alimentari a fini di commercializzazione di un bene direttamente utilizzabile per il consumo con caratteristiche diverse da quelle del bene originario, e dunque volta alla creazione di un risultato economico nuovo, elemento questo distintivo delle imprese industriali ex art. 2195 c.c.; oppure consistente, in ogni caso, nella produzione di beni per la somministrazione di alimenti e bevande avvalendosi di laboratori di carattere artigianale.

Non rileva decisivamente opporre in questa sede l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità o dalla dottrina in ordine alla nozione normativa di commercio, ai fini della riconducibilità ad essa dell’attività di ristorazione, in quanto l’interpretazione delle disposizioni di legge (la cui erroneità è denunciabile per cassazione quale violazione o falsa applicazione di norme di diritto), regolata dall’art. 12 delle preleggi assegnando un valore prioritario al dato letterale ed individuando, quale ulteriore elemento, l’intenzione del legislatore, costituisce un’operazione ontologicamente distinta dall’interpretazione contrattuale in senso stretto, avendo questa ad oggetto la determinazione della volontà dei contraenti ed essendo perciò riservata al giudice del merito (la cui decisione resta censurabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole di ermeneutica o per vizi di motivazione).”

© Massimo Ginesi 9 aprile 2019

inagibilità dell’appartamento, esonero dalle spese di riscaldamento ed interpretazione del regolamento contrattuale.

Un caso peculiare impegna i giudici di legittimità, chiamati a verificare le modalità di interpretazione di un regolamento contrattuale alla luce del mancato utilizzo di una unità abitativa per un apprezzabile lasso di tempo.

Cass.Civ.  sez. VI 3 maggio 2018, n. 10478 richiama gli ordinari canoni di interpretazione del contratto per verificare l’effettiva portata di clausole regolamentari di natura convenzionale, mettendo in luce come la ratio delle clausole regolamentari debba essere intesa in ottica ampia e complessiva e non alla luce del significato circoscritto della singola disposizione.

Nel caso in esame il regolamento prevedeva due norme distinte: l’una che , in caso di temporanea inagibilità del bene individuale, prevedeva una riduzione delle spese del 50% e l’altra che, viceversa, impediva al singolo di sottrarsi alla contribuzione in caso di omessa costante  utilizzazione del bene (disposizione peraltro in linea con quanto disposto dall’art. 1118 cod.civ.)

Nel caso di specie accade che “C.G. impugnava davanti al Tribunale di Roma la delibera del 14.10.2010 del Condominio (omissis) con cui erano stati approvati il bilancio consuntivo del 2009 e il bilancio preventivo del 2010, relativamente alle spese di riscaldamento e ad altri oneri condominiali. Affermava che, a seguito di un incendio sviluppatosi nell’appartamento di sua proprietà in data 19.04.2005, il Comando dei VV.FF. aveva dichiarato l’appartamento inagibile sino al ripristino delle condizioni di sicurezza, sicché aveva diritto alla riduzione del 50% della quota inerente alle spese di riscaldamento, come previsto dall’art. 5 del regolamento condominiale”

Il Tribunale di Roma accoglie la domanda e  la Corte d’Appello capitolina respinge la successiva impugnazione del Condominio, che ricorre in cassazione.

Il giudice di legittimità osserva che “Il Condominio lamenta che la Corte d’appello abbia ritenuto l’inagibilità dell’appartamento temporanea e dipendente dall’incendio.
La Corte d’appello ha ritenuto la fattispecie inquadrabile nell’art. 5 del regolamento condominiale secondo cui “se un’unità rimanesse disabitata durante il periodo invernale per un periodo superiore a due mesi il condomino interessato potrà ottenere una riduzione del 50 % della quota a suo carico facendone richiesta con lettera raccomandata chiudendo i corpi radianti e facendolo constatare all’amministrazione o a un suo incaricato”.
Secondo il Condominio tale disposizione andava coordinata con l’art. 13 del regolamento, secondo cui “nessun condomino può sottrarsi al pagamento della quota parte di spese che gli compete, nemmeno mediante abbandono o rinunzia delle proprietà comuni”.
Parte ricorrente sostiene che secondo una valutazione alla luce del principio di buona fede contrattuale la persistente mancata riattivazione dell’impianto di riscaldamento aveva mutato l’iniziale temporaneità dell’inagibilità in inagibilità permanente, tale da integrare “abbandono… delle cose comuni” ai sensi dell’art. 13 del regolamento e non temporanea inagibilità ai sensi dell’art. 5 del medesimo atto.
Parte ricorrente sostiene, in definitiva, che le disposizioni del regolamento condominiale e, in particolare, l’art. 5 e l’art. 13 dovevano essere interpretate in modo sistematico alla stregua dei canoni di ermeneutica contrattuale ex artt. 1362 e 1363 c.c..

Con il secondo mezzo, il Condominio deduce la violazione degli artt. 281 sexies, 132 n. 4 e 277, comma 1, c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c..

La Corte d’appello avrebbe omesso di confrontarsi con la circostanza della inagibilità permanente per scelta del condomino, obliterando così la valutazione su tale specifico punto.

I due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro attinenza alla medesima problematica interpretativa del regolamento condominiale, sono fondati nei termini che seguono.

In tema di interpretazione del contratto, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, sicché le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 cod. civ. e dovendosi intendere per “senso letterale delle parole” tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (Cass. nn. 14460/2011;4670/09, 18180/07, 4176/07 e 28479/05).

Di qui l’erroneità dell’esegesi fissata esclusivamente su di una singola parola o frase, astratta dal resto della stessa o di altre clausole del contratto, cui pure deve applicarsi il medesimo canone interpretativo.

Nello specifico la sentenza impugnata ha adoperato in modo non conforme agli enunciati anzidetti i canoni ermeneutici dell’interpretazione complessiva della clausole (1363 c.c.) e dell’interpretazione secondo l’intenzione delle parti contraenti (art. 1362 c.c.).

L’interpretazione isolata dell’art. 5 del regolamento conduce a qualificare erroneamente il caso di specie come provvisoria sospensione dell’utilizzo dell’impianto di riscaldamento.

Dal complesso delle clausole contrattuali, artt. 5 e 13 del regolamento, raccordate tra loro, si evince chiaramente che lo scopo delle previsioni era nel senso di tutelare il singolo condomino in caso di temporaneo non utilizzo dell’impianto e, al contempo, salvaguardare le ragioni del Condominio da una eventuale mancata contribuzione alle spese condominiali per una scelta prolungata, si potrebbe dire “strutturale”, della proprietà quale l’abbandono o la rinuncia alla proprietà comune di un impianto.

In tale prospettiva, risulta operazione contraria alle regole di ermeneutica contrattuale sancite dagli artt. 1362 e 1363 c.c. ricondurre il caso in esame all’ambito di applicazione dell’art. 5 del regolamento condominiale, quando in base ai fatti accertati nei giudizi di merito, risultava all’evidenza integrata l’ipotesi contemplata dall’art. 13.

In tale operazione di qualificazione giuridica e esegesi sistematica occorreva tenere conto del fatto per cui la mancata riattivazione dell’impianto, perdurante nel tempo già per quattro anni al momento della delibera, alla stregua del principio di buona fede contrattuale, mutava l’iniziale situazione di temporaneità dell’inagibilità in inagibilità permanente.

Il limite alla qualificabilità di una sospensione temporanea con pagamento ridotto ex art. 5 Reg., era da trarre dalla connessione con l’art. 13 che negava la facoltà di trasformare la transitorietà di utilizzo in condizione permanente di esonero totale dal pagamento, tale da integrare “abbandono… delle cose comuni”.

Significativamente il ricorso evidenzia che in citazione la richiesta principale del condomino era di esonero totale ex art. 13, circostanza che è verificabile perché emerge dalla sentenza del tribunale 10 ottobre 2013.

Il tutto trova conferma anche nel comportamento complessivo tenuto posteriormente dal condomino. Condotta rilevante ai sensi dell’art. 1362, comma 2, c.c..

A tal proposito, parte ricorrente deduce che già in appello aveva denunciato il fatto che dopo otto anni dal risarcimento assicurativo l’appartamento era ancora disusato per scelta, sicché se l’iniziale inagibilità non era imputabile al C. , non altrettanto poteva dirsi a seguito del risarcimento del danno che lo metteva nella condizione di ripristinare l’agibilità dell’appartamento.

Simile circostanza, acclarata nella sentenza di secondo grado, riscontra che già nel 2009 il comportamento di mancato ripristino dell’impianto equivaleva ad abbandono o rinunzia, con conseguente applicabilità dell’art. 13 del regolamento condominiale, nel cui perimetro ricade la fattispecie in esame.”

© massimo ginesi 7 maggio 2018 

mappe catastali, titolo e beni comuni ex art. 1117 cod.civ.

La Suprema Corte (Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 11 ottobre – 21 dicembre 2016, n. 26609) affronta  una interessante vicenda, che chiarisce la rilevanza delle planimetrie allegate agli atti di acquisto nella interpretazione della volontà delle parti nonché la funzione  di tali elaborati grafici nella individuazione dei beni comuni ai sensi dell’art. 1117 cod.civ.

I fatti “Il Comune di Sarzana è proprietario, per acquisto dall’originario costruttore, dell’intero fabbricato posto in via dei Mulini 42/D, in territorio comunale, ad eccezione di due appartamenti che il medesimo costruttore aveva trattenuto per sé e successivamente ha venduto, uno, ai signori A.C. e A.F. e, l’altro, ai signori P.B. e B.Z.. Nel porticato posto al piano terra del suddetto fabbricato il Comune ha realizzato delle unità abitative da destinare agli sfrattati. I condomini suddetti hanno chiesto al tribunale di La Spezia, per quanto qui ancora interessa, la condanna del Comune alla rimozione di tali unità abitative e alla riduzione in pristino dello stato dei luoghi, deducendo la natura condominiale del porticato in cui dette unità erano state realizzate.
La domanda dei condomini, disattesa in primo grado, è stata accolta dalla corte d’appello di Genova, la quale ha ritenuto che la presunzione di condominialità del porticato ex art. 1117 cc risultasse vinta dal tenore letterale del titolo di acquisto del comune, nel quale, nella descrizione del piano terreno dell’immobile trasferito, si dava atto della presenza di un portico (senza precisare che avesse natura condominiale), ma si faceva riferimento (“il tutto come meglio individuato”) ad una planimetria allegata all’atto, sottoscritta dalle parti e dal notaio rogante, in cui detto portico veniva definito come “portico condominiale scala B mq 144,85”. La corte genovese ha altresì argomentato che nella perizia dell’ufficio tecnico comunale allegata come documento H all’atto notarile, e ivi richiamata, si faceva riferimento ad una “superficie di uso comune coperta posto al piano terra mq 144” e che, ai fini della valutazione di congruità del prezzo, la determinazione convenzionale di tale superficie (definita appunto, si sottolinea nella sentenza gravata, di uso comune) risultava diminuita di due dodicesimi, in evidente correlazione alla circostanza che due dei dodici appartamenti del fabbricato non erano di proprietà comunale.

nel giudizio di legittimità il Giudice osserva che “come questa Corte ha avuto modo di chiarire (cfr. sent. n. 6764/03) le piante planimetriche allegate ai contratti aventi ad oggetto immobili fanno parte integrante della dichiarazione di volontà, quando ad esse i contraenti si siano riferiti nel descrivere il bene, e costituiscono mezzo fondamentale per l’interpretazione del negozio, salvo, poi, al giudice di merito, in caso di non coincidenza tra la descrizione dell’immobile fatta in contratto e la sua rappresentazione grafica contenuta nelle dette planimetrie, il compito di risolvere la quaestio voluntatis della maggiore o minore corrispondenza di tali documenti all’intento negoziale ricavato dall’esame complessivo del contratto. Nella specie la corte territoriale ha dato adeguatamente conto delle ragioni per le quali ha ritenuto – con accertamento di fatto sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto i profili del rispetto dei criteri legali di interpretazione e del difetto di motivazione (cfr. Cass. 12594/13) – che nell’atto di acquisto del Comune il portico per cui è causa sia stato considerato bene condominiale; nella sentenza gravata, infatti, si valorizza, per un verso, il rilievo che nel testo contrattuale si richiama espressamente, per la miglior identificazione del cespite compravenduto, la planimetria allegata all’atto (“il tutto meglio individuato con contorno di co/ore rosso nella planimetria, che, previa sottoscrizione delle parti con me notaio, si allega sub C”) e, per altro verso, il percorso argomentativo sviluppato nella perizia dell’ufficio tecnico comunale (pur essa richiamata nell’atto notarile ed al medesimo allegata) di stima della congruità del prezzo delle compravendita (nella quale, si evidenzia nella sentenza gravata, la superficie del porticato de quo risultava espressamente definita “di uso comune” e, ai fini della valutazione, veniva diminuita di due dodicesimi, pari al rapporto tra il numero delle unità immobiliari non vendute al Comune e il numero delle unità immobiliari costituenti il fabbricato).”

Di grande interesse anche la statuizione sul  momento qualificante per l’individuazione dei beni comuni. Tale natura e l’assetto dell’edificio condominiale assume connotazione irreversibile (se non con il consenso di tutti i partecipanti al condominio) con il primo atto di acquisto, che diviene dirimente e con riguardo al quale sono irrilevanti le successive attività dei singoli.

A tal proposito è opportuno approfondire il motivo di impugnazione addotto dai ricorrenti: “Col secondo motivo si deduce il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e di travisamento dei fatti di causa, con conseguente violazione dell’ articolo 1117 c.c., in cui la corte territoriale sarebbe incorsa non rilevando che la realizzazione degli alloggi del Comune risaliva ad epoca anteriore all’acquisto delle unità immobiliari degli altri condomini e che, quindi, al momento di tale acquisto la destinazione del portico all’uso comune era, secondo la prospettazione del ricorrente, già venuta meno

Il Giudice di legittimità sul punto è netto: ” Il motivo va disatteso.
Secondo il risalente insegnamento di questa Corte (cfr. Cass. 3867/86), al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione sancita dalla norma dell’art. 1117 cod. civ., con riguardo ai beni in essa indicati, occorre fare riferimento ali’ atto costitutivo del condominio, cioè al primo atto di trasferimento di una unità immobiliare dall’originario unico proprietario ad altro soggetto, indagando se da esso emerga o meno la volontà delle parti di riservare a uno dei condomini la proprietà di beni che, per ubicazione e struttura, siano potenzialmente destinati all’uso comune. Conseguentemente, quando, in occasione del primo atto di frazionamento della proprietà di un edificio, la destinazione obbiettiva di un bene potenzialmente comune non sia contrastata dal titolo (come, nella specie, accertato dal giudice territoriale con statuizione che ha resistito all’impugnativa proposta con il premo mezzo di ricorso), tale bene nasce di proprietà comune e la comunione sullo stesso non può più venire meno per effetto dell’ occupazione senza titolo da parte di un singolo condomino. Le circostanza che gli alloggi del Comune siano stati realizzati prima che gli altri condomini acquistassero le loro unità immobiliari risulta dunque ininfluente ai fini della decisione”

© massimo ginesi 27 dicembre 2016 

le limitazioni al diritto di proprietà devono essere espressamente indicate nel regolamento contrattuale

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la Cassazione ribadisce un concetto più volte espresso, applicandolo ad un caso peculiare.

La Seconda Sezione civile con sentenza 21307 del 20 ottobre 2016 ha statuito che “Le limitazioni previste espressamente  possono reputarsi  operative essendo il silenzio sintomatico più che di una volontà di porre dei limiti piuttosto della necessità di preservare integre le facoltà tipiche del diritto di proprietà”

Il caso  riguardava un condominio in Napoli nel quale il regolamento contrattuale prevedeva la possibilità di usi commerciali per i piani terranei, nulla dicendo per quelli sovrastanti: i titolari di una pizzeria posta a livello strada avevano collegato all’esercizio commerciale una unità posta al primo piano, adibendola a sala di ristorazione.

Il condomino confinante aveva chiesto, senza successo, al Tribunale di dichiarare illegittimo l’uso per contrarietà al regolamento e per le immissioni intollerabili. La Corte di Appello aveva riformato la sentenza, ritenendo l’uso contrario al regolamento e non provate le immissioni rumorose.

La Suprema Corte ha cassato la sentenza di secondo grado, con rinvio ad altra sezione della stessa Corte di Appello.

La pronuncia merita lettura integrale per l’ampia disamina sui criteri interpretativi del regolamento contrattuale.

© massimo ginesi 21 ottobre 2016

come si interpretano le delibere?

Accade con una certa frequenza che dal verbale di assemblea sia difficoltoso comprendere la reale volontà espressa dall’organo collegiale oppure che qualche condomino ne contesti la portata.

La Cassazione, con sentenza  9 marzo – 1 giugno 2016, n. 11427, delinea ancora una volta i parametri interpretativi ai quali deve attenersi il Giudice chiamato a decidere su tale tipo di controversia.

La vicenda  in fatto è decisamente singolare: In una lontana assemblea del 2000  il condominio aveva incaricato un tecnico affinché redigesse un progetto di recinzione dell’area condominiale”

In forza della delibera  aveva ripartito l’area tra i vari condomini con muretti bassi divisori; pu asserendo gli attori che l’assembela  nulla aveva stabilito circa l’effettiva realizzazione dei lavori. Il Giudice di PAce di Apricena in primo grado e il Tribunale di Lucera in secondo grado hanno respinto la domanda, ritenendo che – sulla base della deposizione dell’allora amministratore del condominio –  per recinzione si potesse intendere anche la ripartizione delle aree condominiali antistanti i garage, e che la condizione per procedere alla recinzione era proprio quella di delimitare tali areee.

La suprema Corte ribalta il verdetto dei giudici di merito, chiarendo che : “In materia d’interpretazione delle delibere dell’assemblea condominiale la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che ove esprimano una volontà negoziale, queste devono essere interpretate secondo i canoni ermeneutici stabiliti dagli artt. 1362 e seguenti c.c., privilegiando, innanzitutto, l’elemento letterale, e quindi, nel caso in cui esso si appalesi insufficiente, gli altri criteri interpretativi sussidiari indicati dalla legge, tra cui quelli della valutazione del comportamento delle parti e della conservazione degli effetti dell’atto, che impone all’interprete di attribuire alle espressioni letterali usate un qualche effetto giuridicamente rilevante anziché nessun effetto o un significato meramente programmatico (Cass. n. 4501/06; in senso conforme, Cass. n. 2101/97).”

La pronuncia  riveste interesse anche nella parte in cui muove rilievi critici alle statuizioni di primo e secondo grado e quindi può essere utile leggerla per intero.

© massimo ginesi giugno 2016