E’ legittima la delibera che prevede l’installazione di dissuasori di parcheggio nel cortile

E’ quanto ha statuito la recente Cass.civ. sez. VI ord. 3 febbraio 2022 n. 3440.

La Corte di legittimità ha respinto il ricorso di un condomino che lamentava l’illegittimità della delibera che aveva stabilito di installare dei dissuasori di parcheggio per impedire tale uso del cortile comune, vietato dal regolamento, osservando che :” la sentenza impugnata ha rilevato che, in base al  regolamento condominiale di natura contrattale, e secondo  l’interpretazione offertane dal Tribunale e condivisa dal giudice di  appello, risultava inibito l’utilizzo della piazzetta comune a scopo di parcheggio, dovendosi quindi escludere che la sua destinazione  (a prescindere dall’utilizzo in fatto che possa esserne avvenuto  per alcuni periodi, in contrasto con il vincolo scaturente dal regolamento) fosse quella di sosta e parcheggio dei veicoli.

A tal fine va quindi richiamato il principio secondo cui (Cass. n.  20712/2017) in tema di condominio negli edifici, le innovazioni di  cui all’art. 1120 c.c. si distinguono dalle modificazioni disciplinate  dall’art. 1102 c.c., sia dal punto di vista oggettivo, che da quello  soggettivo: sotto il profilo oggettivo, le prime consistono in opere  di trasformazione, che incidono sull’essenza della cosa comune,  alterandone l’originaria funzione e destinazione, mentre le  seconde si inquadrano nelle facoltà riconosciute al condomino, con i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c., per ottenere la  migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa; per  quanto concerne, poi, l’aspetto soggettivo, nelle innovazioni  rileva l’interesse collettivo di una maggioranza qualificata,  espresso con una deliberazione dell’assemblea, elemento che  invece difetta nelle modificazioni, che non si confrontano con un  interesse generale, bensì con quello del singolo condomino, al cui  perseguimento sono rivolte ( Cass. n. 18052/2012).
Inoltre, è stato altresì ribadito che (Cass. n. 12805/2019) nel  condominio sono vietate le innovazioni che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso e al godimento anche di un  solo condomino, comportandone una sensibile menomazione dell’utilità, secondo l’originaria costituzione della comunione, ma che l’indagine volta a stabilire se, in concreto, un’innovazione determini una sensibile menomazione dell’utilità che il condomino ritraeva dalla parte comune, secondo l’originaria costituzione della comunione, ovvero se la stessa, recando utilità ai restanti condomini, comporti soltanto per uno o alcuni di loro un pregiudizio limitato, che non sia tale da superare i limiti della tollerabilità, è demandata al giudice del merito, il cui  apprezzamento sfugge al sindacato di legittimità, se non nei limiti di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c..
La necessità di dare puntuale attuazione al vincolo derivante dal regolamento di condominio ed assicurare, quindi, proprio quella destinazione che era stata assegnata alla piazzetta condominiale, consente di escludere che le opere approvate possano rientrare nella nozione di innovazione (peraltro non potendosi riscontrare l’esistenza di un diritto del singolo condomino a trarre utilità sotto forma di parcheggio dal bene comune, suscettibile di essere menomato dalla collocazione dei cubi di cemento), avendo altresì la sentenza dato atto che le installazioni non alterano il decoro del bene né impediscono il pur limitato uso della piazzetta come consentito dal regolamento, avendo riscontrato in concreto la permanente possibilità di accesso di veicoli per l’attività di carico e scarico.
La conclusione secondo cui deve escludersi che possa  concretamente ritenersi approvata un’innovazione, dà anche  contezza dell’impossibilità di invocare la disciplina in tema di innovazioni voluttuarie, potendosi in ogni caso rilevare come in concreto il giudice, sottolineando l’esigenza a mezzo delle installazioni di dare effettiva attuazione al limite dettato dal regolamento di condominio, abbia implicitamente disatteso la tesi del carattere voluttuario delle opere in esame”

© massimo ginesi 8 febbraio 2022

 

 

 

la sostituzione della caldaia non è innovazione

E’ quanto afferma, in linea con la giurisprudenza di legittimità, la Corte di Appello di Genova con sentenza 12 luglio 2021 n. 796, osservando che si tratta di semplice manutenzione straordinaria volta al ripristino della funzionalità dell’impianto. Anche la sostituzione con caldaia più performante sotto il profilo energetico non deve essere intesa quale innovazione.

La giurisprudenza ha sostenuto che “la sostituzione della caldaia termica (bruciatore), se quella esistente è obsoleta o guasta, deve considerarsi atto di straordinaria manutenzione, in quanto diretto semplicemente a ripristinare la funzionalità dell’impianto e non a creare una modificazione sostanziale o funzionale della cosa comune (l’impianto di riscaldamento).

Deve essere ricondotta invece alle modifiche migliorative dell’impianto, e non alle innovazioni dello stesso, la sostituzione della caldaia termica, ancora funzionante, se ha lo scopo di consentire l’utilizzazione di una fonte di energia più redditizia e meno inquinante (Cass. 238/00).

Si è, poi, aggiunto che “Rientra dunque nei poteri dell’assemblea quello di disciplinare beni e servizi comuni, al fine della migliore e più razionale utilizzazione, anche quando la sistemazione più funzionale del servizio comporta la dismissione o il trasferimento di tali beni. L’assemblea con deliberazione a maggioranza ha quindi il potere di modificare sostituire o eventualmente sopprimere un servizio anche laddove esso sia istituito e disciplinato dal regolamento condominiale se rimane nei limiti della disciplina delle modalità di svolgimento e quindi non incida sui diritti dei singoli condomini…” (Cass. 144/12)”

© massimo ginesi 28 settembre 2021 

 

il cappotto termico non è innovazione gravosa e voluttuaria ex art 1121 c.c.

E’ quanto afferma, con ampia motivazione, una recente ordinanza della Suprema Corte (Cass.civ. sez. II  20 aprile 2021 n. 10371 rel. Scarpa), decisione  che contiene diversi altri interessanti argomenti  interpretativi che si rifanno a principi ormai  noti e consolidati e che, tuttavia, è sempre utile approfondire  nella chiara esposizione di questo provvedimento, con particolare riguardo alla natura costitutiva della delibera di approvazione della spesa  (relativamente all’obbligazione del singolo condomino) e alla natura del credito vantato dal fornitore nei confronti del Condominio.

La controversia nasce con l’impugnazione di “due deliberazioni assembleari del 10 aprile 2012 e del 2 agosto 2012, con cui erano state ripartite fra i condomini le spese straordinarie sostenute per la coibentazione dell’immobile condominiale (accollando agli attori l’importo pari ad €  13.648.42), all’accertamento dell’avvenuto pagamento ad opera di terzi e dell’indebita pretesa di contribuzione da parte del condominio, nonché alla restituzione di quanto già corrisposto a seguito di intimazione di decreto ingiuntivo”, impugnative respinte in primo e secondo grado dal Tribunale e dalla Corte di Appello di Trento.

Osserva il Giudice di legittimità che “ Si ha riguardo, per quanto accertato in fatto, ad un intervento di miglioramento dell’efficienza energetica del fabbricato condominiale consistente nella realizzazione di un isolamento termico delle superfici che interessano l’involucro dell’edificio (cosiddetto “cappotto termico”), nonché nella esecuzione delle collegate opere accessorie e di ripristino della facciata, intervento variamente agevolato normativamente anche sotto il profilo fiscale (si vedano indicativamente l’art. 1120, comma 2, n. 2, c.c., come inserito dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220, e da ultimo l’art. 119, d.l. 19 maggio 2020, n. 34, come sostituito dalla legge di conversione 17 luglio 2020, n. 77 e poi modificato dal d.l. 14 agosto 2020, n. 104, convertito dalla legge 13 ottobre 2020, n. 126).

Parimenti è accertato in fatto che l’intervento di coibentazione era stato approvato con deliberazione approvata dall’assemblea del Condominio B. il 20 giugno 2011, mentre poi le delibere del 10 aprile 2012 e del 2 agosto 2012, impugnate ex art. 1137 nel presente giudizio, avevano provveduto alla ripartizione delle spese per l’innovazione precedentemente deliberata.”

SULLA NATURA DELL’INTERVENTO DI COIBENTAZIONE – a tal proposito la Cassazione rileva che “si intendono innovazioni voluttuarie, per le quali è consentito al singolo condomino, ai sensi dell’art. 1121 c.c., di sottrarsi alla relativa spesa, quelle nuove opere che incidono sull’entità sostanziale o sulla destinazione della cosa comune che sono tuttavia prive di oggettiva utilità, mentre sono innovazioni gravose quelle caratterizzate da una notevole onerosità rispetto alle particolari condizioni e all’importanza dell’edificio, e ciò sulla base di un accertamento di fatto devoluto al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua (Cass. Sez. 2, 18/01/1984, n. 428; Cass. Sez. 2, 23/04/1981, n. 2408).

In particolare, le innovazioni voluttuarie, consentite dal primo comma e vietate dal secondo comma dell’art. 1121 c.c., a seconda che consistano, o meno, in opere suscettibili di utilizzazione separata, sono quelle che, per la loro natura, estensione e modalità di realizzazione, esorbitino apprezzabilmente dai limiti della conservazione, del ripristino o del miglior godimento della cosa comune, per entrare nel campo del mero abbellimento e/o del superfluo (Cass. Sez. 2, 08/06/1995, n. 6496).

L’inapplicabilità della disciplina di cui all’art. 1121 c.c., nel caso in esame, discende altresì dall’essenziale considerazione che tale norma postula che il condomino che non voglia partecipare alle spese per una innovazione gravosa o voluttuaria, approfittando della eccezionale causa di esonero dalla obbligatorietà per tutti i partecipanti supposta dall’art. 1137, comma 1, c.c., manifesti il suo dissenso in assemblea o con la tempestiva impugnazione della deliberazione (Cass. Sez. 2, 17/04/1969, n. 1215 ), mentre la delibera del 20 giugno 2011 che approvò il preventivo dell’impresa appaltatrice fu approvata all’unanimità e non fu impugnata.

D’altro canto, la realizzazione di un “cappotto termico” sulle superfici esterne dell’edificio condominiale, in quanto volta a migliorare l’efficienza energetica dello stesso, non dà luogo ad opera che possa ritenersi suscettibile di utilizzazionseparata, agli effetti dell’art. 1121, comma 1, c.c., né, una volta eseguita, configura una cosa che è destinata a servire i condomini in misura diversa, oppure solo una parte dell’intero fabbricato, sicché le relative spese possano intendersi da ripartire in proporzione dell’uso o da porre a carico del solo gruppo dei condomini che ne trae utilità.

Gli artt. 1120 e 1121, da una parte, e 1123, dall’altra, riguardano fattispecie diverse: le prime due norme regolano il momento dell’approvazione collegiale delle opere di trasformazione che incidono sull’essenza della cosa comune, individuando i presupposti e i limiti del potere assembleare, mentre l’art. 1123 c.c. regola la ripartizione delle spese necessarie, oltre che per la conservazione ed il godimento delle parti comuni e per la prestazione dei servizi di interesse comune, anche proprio per le innovazioni validamente deliberate dalla maggioranza. Se l’innovazione che l’assemblea intende approvare è destinata a servire solo una parte dell’edificio condominiale, e perciò la relativa spesa deve far carico esclusivamente al gruppo di condomini che ne trae utilità, lo stesso computo delle maggioranze indicate dall’art. 1120 c.c. deve operarsi con riferimento ai soli condomini interessati, ossia a quelli facenti parte di detto gruppo (cfr. Cass. Sez. 2, 08/06/1995, n. 6496).

il  “cappotto termico” da realizzare sulle facciate dell’edificio condominiale, al fine di migliorarne l’efficienza energetica, non è opera destinata all’utilità o al servizio esclusivo dei condomini titolari di unità immobiliare site nella parte non interrata del fabbricato, come sostengono i ricorrenti (proprietari di locali interrati serviti da autonomo ingresso).

Le opere, gli impianti o manufatti che, come il “cappotto” sovrapposto sui muri esterni dell’edificio, sono finalizzati alla coibentazione del fabbricato in funzione di protezione dagli agenti termici, vanno ricompresi tra quelli destinati al vantaggio comune e goduti dall’intera collettività condominiale (art. 1117, n. 3, c.c.), inclusi i proprietari dei locali terranei, e non sono perciò riconducibili fra quelle parti suscettibili di destinazione al servizio dei condomini in misura diversa, ovvero al godimento di alcuni condomini e non di altri, di cui all’art. 1123, commi 2 e 3, c.c. Ne consegue che, ove la realizzazione del cappotto termico sia deliberata dall’assemblea, trova applicazione l’art. 1123, comma 1, c.c., per il quale le spese sono sostenute da tutti i condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno (arg. da Cass. Sez. 2, 25/09/2018, n. 22720; Cass. Sez. 2, 15/02/2008, n. 3854; Cass. Sez. 2, 04/05/1999, n. 4403; Cass. Sez. 2, 17/03/1999, n. 2395; Cass. Sez. 2, 23/12/1992, n. 13655).”

SULA NATURA COSTITUTIVA DELLA DELIBERA CHE APPROVA LA SPESA E DICHIARATIVA DI QUELLA CHE LA RIPARTISCE – “La dottrina ravvisa un duplice oggetto della deliberazione assembleare che approvi un intervento di ristrutturazione delle parti comuni: 1) l’approvazione della spesa, che significa che l’assemblea ha riconosciuto la necessità di quella spesa in quella misura; 2) la ripartizione della spesa tra i condomini, con riguardo alla quale la misura del contributo dipende dal valore della proprietà di ciascuno o dall’uso che ciascuno può fare della cosa

Se, allora, l’approvazione assembleare dell’intervento, ove si tratti di innovazioni o di lavori di manutenzione straordinaria, ha valore costitutivo della obbligazione di contribuzione alle relative spese, la ripartizione, che indica il contributo di ciascuno, ha valore puramente dichiarativo, in quanto serve solo ad esprimere in precisi termini aritmetici un già preesistente rapporto di valore, secondo i criteri di calcolo stabiliti dalla legge (o da un’eventuale convenzione) (arg. da Cass. Sez. U, 09/08/2010, n. 18477; Cass. Sez. 2, 03/12/1999, n. 13505; Cass. Sez. 2, 15/03/1994, n. 2452; Cass. Sez. U, 05/05/1980, n. 2928).

SULL’OBBLIGAZIONE DEL CONDOMINO E DEL CONDOMINIO – Il sesto motivo di ricorso trascura l’oggettiva diversità del fondamento dell’obbligazione dei condomini ricorrenti di contribuire alle spese condominiali derivanti dall’innovazione approvata dall’assemblea del Condominio Beta (obbligazione di cui, in realtà, si discute in questo giudizio) con l’obbligazione che invece lega il medesimo Condominio all’impresa Postai esecutrice dei lavori, invocando la fattispecie e gli effetti dell’adempimento del terzo ex art. 1180 c.c. sul presupposto che gli altri condomini avevano provveduto al pagamento del corrispettivo in favore dell’appaltatrice.

 Secondo consolidata interpretazione giurisprudenziale (si veda indicativamente Cass. Sez. U, 08/04/2008, n. 9148), il credito che il terzo creditore, in forza di contratto concluso dall’amministratore nell’ambito delle sue attribuzioni, può far valere anche direttamente nei confronti del singolo condomino, in proporzione della rispettiva quota millesimale, è cosa giuridicamente diversa (seppur economicamente coincidente) rispetto al credito per la riscossione dei contributi condominiali che può far valere l’amministratore di condominio.

Il primo credito ha, invero, natura di prestazione sinallagmatica e trova causa nel rapporto contrattuale col terzo approvato dall’assemblea e concluso daLL’amministratore in rappresentanza di tutti i partecipanti al condominio. L’obbligo di pagamento degli oneri condominiali da parte del singolo partecipante ha, per contro, causa immediata nella disciplina del condominio, e cioè nelle norme di cui agli artt. 1118 e 1123 ss. c.c., che fondano il regime di contribuzione alle spese per le cose comuni.

Questa Corte ha già affermato che l’obbligo del singolo partecipante di pagare al condominio le spese dovute e le vicende debitorie del condominio verso i suoi appaltatori o fornitori rimangono del tutto indipendenti, tant’è che il condomino non può ritardare il pagamento delle rate di spesa in attesa dell’evolvere delle relazioni contrattuali tra condominio e soggetti creditori di quest’ultimo, né può utilmente opporre all’amministratore che il pagamento sia stato da lui effettuato direttamente al terzo, in quanto, si è detto, ciò altererebbe la gestione complessiva del condominio: sicché il singolo deve sempre e comunque pagare all’amministratore, salva l’insorgenza, in sede di bilancio consuntivo, di un credito da rimborso per gli avanzi di cassa residuati (Cass. Sez. 2, 29/01/2013, n. 2049).

E’ stato anche detto che, ponendosi il condominio, nei confronti dei terzi, come “soggetto di gestione” dei diritti e degli obblighi dei singoli condomini attinenti alle parti comuni, l’amministratore di esso assume la qualità di necessario rappresentante della collettività dei condomini, e ciò sia nella fase di assunzione degli obblighi verso i terzi per la conservazione delle cose comuni, sia, all’interno della medesima collettività condominiale, in quanto unico referente dei pagamenti ad essi relativi; con la conclusione che il pagamento diretto eseguito dal singolo partecipante a mani del creditore del condominio non sarebbe comunque idoneo ad estinguere il debito “pro quota” dello stesso relativo ai contributi ex art. 1123 c.c. (Cass. Sez. – 2, 17/02/2014, n. 3636).

Appare dunque evidente in giurisprudenza la diversità tra le attribuzioni dell’assemblea a ripartire le spese e dell’amministratore a riscuotere i contributi condominiali (artt. 1135, 1130 n. 3 c.c. e 63, comma 1, disp. att. c.c.), e la pretesa di pagamento del corrispettivo contrattuale spettante al terzo creditore verso il singolo condomino sul presupposto della riferibilità diretta dei debiti condominiali ai singoli membri del gruppo…

E’, cioè, cosa estranea a quella oggetto della presente lite la qualificazione della pretesa spettante semmai al condomino, il quale abbia versato al terzo creditore anche la parte dovuta dai morosi e voglia poi ottenere da costoro il rimborso di quanto da loro (su questo cfr. Cass. Sez. 2, del 20/05/2019, n. 13505).”

© massimo ginesi 21 aprile 2021

 

costruzioni sopra l’ultimo piano dell’edificio: innovazione e sopraelevazione

Una ponderosa ordinanza della Suprema Corte (Cass.civ. sez. II  15 giugno 2020 n. 11490 rel. Scarpa) ripercorre – con dettagliata analisi e grande lucidità – la natura degli interventi che possono essere compiuti sulla parte sommitale  dell’edificio, evidenziando come possa trattarsi di innovazione ex art 1120 c.c. ove si intervenga su parti comuni in seguito a delibera assembleare, di intervento ex art 1102 c.c. ove il singolo intervenga in tali termini nell’ambito delle sue facoltà di godimento oppure di sopraelevazione, ove il singolo non modifichi   parti comuni, ma provveda alla edificazione di nuovi corpi di fabbrica nello spazio sovrastante l’edificio, sì che l’intervento si configura come facoltà riconosciuta ai sensi dell’art. 1127 c.c.

Il corretto inquadramento della fattispecie in fatto da parte del giudice di merito è essenziale, poiché ad ogni intervento – e alla conseguente norma applicabile –  conseguono differenti ampiezze delle facoltà e dei correlativi obblighi e limiti.

La pronuncia consente  di ripercorrere, con grande chiarezza e abbondanti richiami, gli orientamenti giurisprudenziali in tema di facoltà di maggior godimento, di innovazioni vietate e – soprattutto – di soprelevazione, concetto cui la più recente giurisprudenza di legittimità ha attribuito  dimensioni decisamente più ampie del significato letterale del termine.

Interessante anche l’aspetto della legittimazione e della successione nel diritto controverso di una delle parti.

E’ provvedimento che richiede integrale lettura, apparendo riduttivo pubblicarne semplicemente stralci.

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© massimo ginesi 16 giugno 2020 

 

Foto di StockSnap da Pixabay

modifica e innovazione: la linea di discrimine.

 

Cass.Civ. sez.VI ord. 10 aprile 2019 n. 10077 ribadisce principi consolidati in tema di innovazioni, esaminando l’ipotesi di trasformazione dell’area verde esterna in parcheggio, in una vicenda che, ragione temporis, vede ancora l’applicazione della normativa anteriore al 2012.

la pronuncia, tuttavia, salve le ipotesi oggi espressamente riconducibile all’art. 1117 tre cod.civ., contiene principi ancora del tutto attuali.

Ed invero “In tema di condominio negli edifici, la distinzione tra modifica ed innovazione si ricollega all’entità e qualità dell’incidenza della nuova opera sulla consistenza e sulla destinazione della cosa comune, nel senso che per innovazione in senso tecnico-giuridico deve intendersi non qualsiasi mutamento o modificazione della cosa comune, ma solamente quella modificazione materiale che ne alteri l’entità sostanziale o ne muti la destinazione originaria, mentre le modificazioni che mirano a potenziare o a rendere più comodo il godimento della cosa comune e ne lasciano immutate la consistenza e la destinazione, in modo da non turbare i concorrenti interessi dei condomini, non possono definirsi innovazioni nel senso suddetto” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11936 del 23/10/1999, Rv.530743; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5101 del 20/08/1986, Rv.447737; cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15460 del 05/11/2002, Rv.558221).

La Corte territoriale dà atto, in motivazione, che con la prima deliberazione del 10.8.2009 l’assemblea condominiale aveva deliberato di adibire a parcheggio l’area sino ad allora destinata a giardino e, a tal fine, l’esecuzione di lavori “quali rimozione dei muretti, abbattimento delle piante di epitosfero, livellamento del suolo delle parti interessate ai lavori e spostamento dei lampioncini” (cfr. pag.3 della sentenza impugnata).
Dette opere non costituiscono semplici modifiche alla cosa comune finalizzate a sopperire alla sua eventuale insufficienza strutturale ovvero a migliorarne l’utilizzazione da parte dei condomini, bensì vere e proprie innovazioni, in quanto mediante le stesse viene ad essere modificata la concreta destinazione della cosa.

In argomento, questa Corte ha affermato – a titolo esemplificativo -che la ristrutturazione dell’impianto fognario, vecchio di oltre cinquant’anni e bisognoso di interventi strutturali, non costituisce innovazione, trattandosi di opera necessaria alla conservazione ed al godimento della cosa comune (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16639 del 27/07/2007, Rv.599342). O ancora, che la bonifica di un terreno compiuta da uno dei comproprietari, non alterandone la destinazione economica ed essendo diretta al miglioramento del bene o a renderne più agevole la fruizione senza pregiudicare il diritto di godimento degli altri comproprietari, non integra gli estremi di un atto innovativo (Cass. Sez. 6-2, Ordinanza n. 5729 del 23/03/2015, Rv.634993).

Il tratto caratterizzante dell’intervento di ristrutturazione o miglioria che non costituisce innovazione in senso tecnico-giuridico va pertanto individuato nella conservazione della precedente destinazione concreta della cosa sulla quale esso incide.

Costituisce invece innovazione qualsiasi intervento modificativo eseguito sulle parti comuni di un edificio o su impianti o cose comuni che ne alteri l’entità materiale operandone la trasformazione, ovvero ne modifichi la destinazione di fatto, nel senso che detti beni, a seguito delle opere eseguite su di essi, presentino caratteristiche oggettive, abbiano una consistenza materiale o comunque siano utilizzati per fini diversi da quelli precedenti all’intervento, di guisa che le opere predette precludono la concreta utilizzazione della cosa comune in modo conforme alla sua naturale e precedente fruibilità (in tal senso, cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8622 del 29/08/1998, Rv.518497).

Detti principi, che meritano di essere ribaditi, consentono di affermare che la trasformazione del giardino comune, realizzata mediante abbattimento dei muretti e delle essenze verdi, livellamento del suolo e spostamento dei punti di illuminazione, in funzione della nuova destinazione dell’area a parcheggio, costituisce innovazione, che come tale dev’essere assoggettata al regime previsto dall’art. 1120 c.c., commi 1 e 2, nel testo in vigore anteriormente all’entrata in vigore della L. 11 dicembre 2012, n. 220, applicabile ratione temporis alla fattispecie.”

© Massimo Ginesi 12 aprile 2019

l’istituto dell’accessione ex art 936 cod.civ. non si applica al condominio: difetta l’altruità del suolo.

E’ quanto ha stabilito Trib. Potenza 29/01/2019, n.100 con riferimento ad opere realizzate da alcuni condomini su suolo comune:

“In tema di realizzazione su parti comuni dell’edificio di opere da parte di alcuni dei comproprietari, non può trovare applicazione la norma dettata dall’articolo 936 c.c., che disciplina l’ipotesi di costruzione con materiali propri su suolo altrui ad opera di terzi. La disciplina applicabile deve essere individuata, invece, nell’articolo 1120 secondo comma c.c.(innovazioni), il quale, in tema di condominio di edifici, stabilisce che sono vietate le innovazioni che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino. In proposito, ciascun condomino leso nel godimento e nell’uso della cosa comune interessata dalla innovazione vietata posta in essere da un altro condomino è legittimato ad agire in giudizio nei confronti del condomino o dei condomini autori della immutazione vietata al fine di ottenere, previo riconoscimento del diritto concorrente vantato pro quota sulla res comune, la rimessione in pristino dello stato dei luoghi.”

Pronuncia che desta più di una perplessità non tanto nella esclusione della operatività dell’art. 936 c.c., con cui si può certamente concordare, quanto per il richiamo all’art. 1120 cod.civ., che riguarda interventi deliberati dalla assemblea mentre nel caso disp.att. cod.civ. epica l’iniziativa del singolo che abbia ad oggetto la cosa comune deve piuttosto ascritta alla disciplina dell’art. 1102 cod.civ.

© massimo ginesi 12 febbraio 2019 

l’uso più ampio del bene comune da parte del singolo

La Suprema Corte (Cass.Civ. sez.VI-2 15 gennaio 2019 n. 857 rel. Scarpa) ribadisce concetti noti e consolidati in tema di innovazioni, disciplinate dall’art. 1120 cod.civ. e maggior uso della cosa comune, disciplinato dall’art. 1102 cod.civ.

La pronuncia riguarda la trasformazione di un tetto da parte del condomino proprietario del vano sottostante, al fine di ricavare una ulteriore unità abitativa. In tal caso, sottolinea il giudice di legittimità, si deve aver riguardo ai parametri previsti dall’art. 1102 cod.civ. e si deve considerare lecito l’intervento ove per la modalità e l’estensione non pregiudichi in maniera significativa la funzione comune e non impedisca agli altri condomini di farne parimenti uso.

Appare interessante, anche con riguardo ala nota questione della realizzazione di terrazze a tasca, la riflessione che la corte compie in ordine alla possibilità degli altri condomini di farne identico più ampio uso, che deve essere di volta in volta opportunamente contestualizzata con riguardo alla specifica realtà.

L’intervento di ristrutturazione del tetto comune eseguito, nella specie, dai condomini D.D.M. e B.D. non è riconducibile alla nozione di innovazione ex art. 1120 c.c., ma a quello di modificazione ex art. 1102 c.c. Invero, secondo l’interpretazione di questa Corte, le innovazioni di cui all’art. 1120 c.c. si distinguono dalle modificazioni disciplinate dall’art. 1102 c.c., sia dal punto di vista oggettivo, che da quello soggettivo: sotto il profilo oggettivo, le prime consistono in opere di trasformazione, che incidono sull’essenza della cosa comune, alterandone l’originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà riconosciute al condomino, con i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c., per ottenere la migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa; per quanto concerne, poi, l’aspetto soggettivo, nelle innovazioni rileva l’interesse collettivo di una maggioranza qualificata, espresso con una deliberazione dell’assemblea, elemento che invece difetta nelle modificazioni, che non si confrontano con un interesse generale, bensì con quello del singolo condomino, al cui perseguimento sono rivolte (Cass. Sez. 2, 04/09/2017, n. 20712).
I precedenti giurisprudenziali, che i ricorrenti invocano, hanno affermato che il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, ma sempre che un tale intervento dia luogo a modifiche non significative della consistenza del bene, in rapporto alla sua estensione, e sia attuato con tecniche costruttive tali da non affievolire la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, quali la coibentazione termica e la protezione del piano di calpestio di una terrazza mediante idonei materiali (Cass. Sez. 2, 03/08/2012, n. 14107; si vedano anche Cass. Sez. 6 – 2, 04/02/2013, n. 2500; Cass. Sez. 6-2, 25/01/2018, n. 1850; Cass. Sez. 6-2, 21/02/2018, n. 4256). È evidente come l’accertamento circa la non significatività del taglio del tetto praticato per innestarvi la terrazza di uso esclusivo, nonché circa l’adeguatezza delle opere eseguite per salvaguardare la funzione di copertura e protezione dapprima svolta dal tetto, è riservato al giudice di merito e, come tale, non è censurabile in sede di legittimità per violazione dell’art. 1102 c.c., ma soltanto nei limiti di cui all’art. 360 c.c., comma 1, n. 5.
Non contraddicono insanabilmente l’orientamento giurisprudenziale appena richiamato e pronunce invece menzionate dai controricorrenti nella memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 2, ovvero, in particolare, Cass. Sez. 2, 15/11/2016, n. 23243, che si conformava a Cass. Sez. 2, 28/02/2013, n. 5039,affermando esse l’illegittimità dellecosiddette “altane” sul presupposto dell’accertamento in fatto di modifiche strutturali comportanti non una “modifica finalizzata al migliore godimento della cosa comune”, quanto “una diversa ed esclusiva utilizzazione di una parte della porzione comune del tetto con relativo impedimento agli altri condomini dell’inerente uso”, con correlata perdita per gli altri condomini delle “potenzialità di uso” del bene comune, definitivamente sottratto “ad ogni possibilità di futuro godimento da parte degli altri comproprietari”, giacché occupato “a beneficio esclusivo” del partecipante autore delle opere.”

Nella specie, per quanto piuttosto accertato in fatto, si ha riguardo ad un intervento di trasformazione del tetto comune da tre e due falde, con inserimento di una struttura in acciaio e la realizzazione di una nuova unità abitativa al posto di una preesistente soffitta, la quale consentiva l’accesso comune al tetto tramite una botola. Essendo incontroversa la proprietà condominiale del tetto, l’accesso comune ad esso è stato inteso dalla Corte d’Appello come conforme alla destinazione tipica e normale del bene. L’illegittimità della modifica dello stato dei luoghi è stata però argomentata dai giudici di secondo grado non con riferimento alla mutata consistenza o funzione del tetto, ma quale effetto del provocato impedimento al passaggio attraverso la botola presente nella soffitta di proprietà esclusiva di D.D.M. e B.D. .
Questa Corte, con interpretazione che va qui ribadita, ha affermato che l’esistenza nell’appartamento di proprietà esclusiva sito all’ultimo piano dell’edificio condominiale di una botola sul soffitto per accedere al tetto comune, non conferisce a detto accesso, in mancanza dell’interclusione del fondo dominante, natura di servitù in favore dei condomini (cfr. Cass. Sez. 2, 04/11/2008, n. 26493). Era peraltro stata esclusa dal Tribunale, senza che sul punto venisse proposta impugnazione, l’esistenza di una servitù di passaggio costituita a titolo originario o coattivamente in favore della proprietà di D.D.S. e M.A. ed carico dell’appartamento di proprietà esclusiva di D.D.M. e B.D. .
In giurisprudenza si è altresì più volte chiarito come l’uso della cosa comune da parte di ciascun condomino è sottoposto, secondo il disposto dell’art. 1102 c.c., a due fondamentali limitazioni, consistenti nel divieto di alterare la destinazione della cosa comune e nell’obbligo di consentirne un uso paritetico agli altri condomini. Simmetricamente, la norma in parola, intesa, altresì, ad assicurare al singolo partecipante, quanto all’esercizio concreto del suo diritto, le maggiori possibilità di godimento della cosa, legittima quest’ultimo, entro i limiti ora ricordati, a servirsi di essa anche per fini esclusivamente propri, traendone ogni possibile utilità, non potendosi intendere la nozione di “uso paritetico” in termini di assoluta identità di utilizzazione della “res”, poiché una lettura in tal senso della norma “de qua”, in una dimensione spaziale o temporale, comporterebbe il sostanziale divieto, per ciascun condomino, di fare, della cosa comune, qualsiasi uso particolare a proprio vantaggio.

Ne consegue che qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non possano fare un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, dal momento che, in una materia in cui è prevista la massima espansione dell’uso, il limite al godimento di ciascuno dei condomini è dato dagli interessi altrui, i quali, pertanto, costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possano volere accrescere il pari uso cui hanno diritto (Cass. Sez. 2, 14/04/2015, n. 7466; Cass. Sez. 2, 30/05/2003, n. 8808; Cass. Sez. 2, 12/02/1998, n. 1499; Cass. Sez. 2, 05/12/1997, n. 12344; Cass. Sez. 2, 23/03/1995, n. 3368). Il più ampio uso del bene comune, da parte del singolo condomino, non configura, così, ex se una lesione o menomazione dei diritti degli altri partecipanti, ove, ad esempio, esso trovi giustificazione nella conformazione strutturale del fabbricato (cfr. Cass. Sez. 2, 09/06/1986, n. 3822).”

La Corte , dunque, cassa con rinvio poiché “È quindi necessario accertare non la legittimità delle opere attuate da D.D.M. e B.D. nell’unità immobiliare di loro proprietà esclusiva (non essendo più in discussione l’esigenza di dare tutela al passaggio realizzato nell’appartamento dei ricorrenti a beneficio della proprietà dei controricorrenti tramite la botola di accesso al tetto), quanto se le modifiche direttamente eseguite sul tetto dagli attuali ricorrenti valgono a mutare la destinazione del bene comune ed ad escluderne il pari uso da parte degli altri condomini, avendo comportato una definitiva sottrazione del tetto ad ogni possibilità di futura utilizzazione degli altri condomini o una compromissione della sua funzione di copertura e protezione delle sottostanti unità immobiliari.”

© massimo ginesi 22 gennaio 2019

l’installazione di ascensore a cura e spese del singolo condomino.

Una recente ordinanza della Corte di legittimità ( Cass. civ. Sez. II 5 dicembre 2018 n. 31462, rel. Criscuolo) ripercorre con chiarezza ed accuratezza principi noti e consolidati, secondo i quali è facoltà del singolo condomino utilizzare le parti comuni dell’edificio per l’installazione a propria cura e spese di un ascensore, fatti salvi i limiti delineati dall’art. 1102 c.c.

La Corte ritiene corrette le valutazioni dei giudici di primo e secondo grado, che avevano respinto le domande dei condomini contrari all’opera,  i quali avevano assunto che l’installazione ledesse il pari uso dei beni comuni.

Il Giudice di legittimità osserva che “ l’installazione di un ascensore, al fine dell’eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino su parte di un bene comune, deve considerarsi indispensabile ai fini dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell’art. 1102 cod. civ. (Sez. 2, Sentenza n. 14096 del 03/08/2012; conf. Sez. 2, Sentenza n. 10852 del 16/05/2014).

Trattasi di principio che è stato anche di recente ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte che (cfr. Cass. n. 7938/2017) ha confermato la regola secondo cui in tema di eliminazione delle barriere architettoniche, la I. n. 13 del 1989 costituisce espressione di un principio di solidarietà sociale e persegue finalità di carattere pubblicistico volte a favorire, nell’interesse generale, l’accessibilità agli edifici, sicché la sopraelevazione del preesistente impianto di ascensore ed il conseguente ampliamento della scala padronale non possono essere esclusi per una disposizione del regolamento condominiale che subordini l’esecuzione dell’opera all’autorizzazione del condominio, dovendo tributarsi ad una norma siffatta valore recessivo rispetto al compimento di lavori indispensabili per un’effettiva abitabilità dell’immobile, rendendosi, a tal fine, necessario solo verificare il rispetto dei limiti previsti dall’art. 1102 c.c., da intendersi, peraltro, alla luce del principio di solidarietà condominiale.

Negli stessi termini si veda anche Cass. n. 6129/2017, la cui massima recita che l’installazione di un ascensore su area comune, allo scopo di eliminare delle barriere architettoniche, rientra fra le opere di cui all’art. 27, comma 1, della l. n. 118 del 1971 ed all’art. 1, comma 1, del d.P.R. n. 384 del 1978, e, pertanto, costituisce un’innovazione che, ex art. 2, commi 1 e 2, della l. n. 13 del 1989, va approvata dall’assemblea con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, commi 2 e 3, c.c., ovvero, in caso di deliberazione contraria o omessa nel termine di tre mesi dalla richiesta scritta, che può essere installata, a proprie spese, dal portatore di handicap, con l’osservanza dei limiti previsti dagli artt. 1120 e 1121 c.c., secondo quanto prescritto dal comma 3 del citato art. 2; peraltro, la verifica della sussistenza di tali ultimi requisiti deve tenere conto del principio di solidarietà condominiale, che implica il contemperamento di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle barriere architettoniche, trattandosi di un diritto fondamentale che prescinde dall’effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici interessati e che conferisce comunque legittimità all’intervento innovativo, purché lo stesso sia idoneo, anche se non ad eliminare del tutto, quantomeno ad attenuare sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell’abitazione.

A tali principi, come si ricava dalla sintesi della motivazione della sentenza d’appello risultano essersi conformati i giudici di seconde cure, il che consente di escludere che sussista la dedotta violazione delle norme di legge indicate nella rubrica del motivo.

Del resto, ove non debba procedersi ad una ripartizione di spesa tra tutti i condomini, per essere stata la spesa relativa alle innovazioni di cui si tratta, assunta interamente a proprio carico da un condomino, trova, comunque, applicazione la norma generale di cui all’art. 1102 cod. civ., che contempla anche le innovazioni, ed in forza della quale ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, a condizione che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini di farne uguale uso secondo il loro diritto, e, pertanto, può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa comune (Sez. 2, Sentenza n. 24006 del 27/12/2004; conf. Sez. 2, Sentenza n. 25872 del 21/12/2010), valutazione questa che è stata compiuta dal giudice di appello, che ha escluso che sussista una limitazione dell’altrui proprietà incompatibile con la realizzazione dell’opera.”

copyright massimo ginesi 12 dicembre 2018

 

trasformazione del giardino condominiale in parcheggio: i parametri indicati dalla Cassazione

La trasformazione di un’area verde in parcheggio può essere una semplice innovazione deliberata con le maggioranze previste dall’art. 1120 cod.civ.  (e non con quelle più significative previste dall’art,. 1117 ter cod.civ. ) e non è in senso assoluto vietata, poichè la sottrazione all’uso comune dell’area verde va valutata in rapporto alla entità della stessa e alla porzione interessata dal mutamento – che non può automaticamente ritenersi sussistente la violazione dei diritti dei condomini dissenzienti – così come non necessariamente l’intervento deve ritenersi lesivo del decoro dell’edificio.

Cass.Civ. sez. II ord. 29/08/2018),  n. 21342 affronta un tema complesso e spesso fonte di lite fra i condomini: “Nel 2003 R.A., proprietario dell’unità immobiliare int. 1 del complesso condominiale di (OMISSIS), convenne in giudizio il Condominio per la declaratoria di nullità, ovvero per l’annullamento della delibera assembleare del 26 giugno 2003, con cui era stato deciso – con il suo solo voto contrario – di adibire a parcheggio l’area condominiale circostante, ciò che comportava l’eliminazione di alberi da frutto e del vialetto che separava il frutteto dall’edificio condominiale, e l’allocazione del parcheggio proprio sotto il suo terrazzo. Secondo la prospettazione attorea, la delibera contrastava con l’art. 1120 c.c., sotto il profilo dell’alterazione del decoro architettonico dell’edificio condominiale, contravvenendo anche alla destinazione contrattuale a verde dell’area interessata, in violazione dell’art. 4 del regolamento condominiale, e risultando pregiudizievole per la salute.

Il Condominio eccepì l’inammissibilità della domanda, rilevò che precedente giudicato aveva escluso la lamentata violazione delle destinazioni d’uso contrattuale dell’area a verde, assumendo inoltre che il parcheggio offriva ai condomini la possibilità di un migliore utilizzo delle parti comuni e che era insussistente il paventato rischio di immissioni nocive.

Il Tribunale di Roma, respinta l’eccezione di inammissibilità, rigettò la domanda.

La Corte d’appello ha riformato la decisione e annullato la delibera condominiale del 26 giugno 2003.”

La Corte di legittimità traccia i confini di liceità dell’intervento, cassando la sentenza di secondo grado: “La Corte d’appello ha ritenuto che la delibera impugnata violi il disposto dell’art. 1120 c.c., comma 2, sotto il profilo della lesione al decoro architettonico dell’edificio condominiale sul rilievo che “è insostenibile la tesi secondo la quale la rimozione di un’area verde e la sua sostituzione con una adibita a parcheggio non deteriori l’aspetto complessivo”.

L’affermazione, in quanto non supportata dalla verifica del rapporto tra la dimensione complessiva della superficie destinata a verde e quella dell’area interessata dalla modifica oggetto della delibera condominiale, si rivela erronea.

Questa Corte ha più volte affermato che la delibera assembleare di destinazione a parcheggio di un’area di giardino condominiale, interessata solo in piccola parte da alberi di alto fusto e di ridotta estensione rispetto alla superficie complessiva, non dà luogo ad una innovazione vietata dall’art. 1120 c.c., non comportando tale destinazione alcun apprezzabile deterioramento del decoro architettonico, nè alcuna significativa menomazione del godimento e dell’uso del bene comune, ed anzi, da essa derivando una valorizzazione economica di ciascuna unità abitativa e una maggiore utilità per i condomini (ex plurimis, Cass 12/07/2011, n. 15319; Cass. 06/12/2016, n. 24960).

Conseguentemente priva di riscontro risulta anche la ritenuta menomazione del diritto del singolo condomino alla fruizione dell’area verde nella sua consistenza originaria, diritto che esiste se ed in quanto la trasformazione di parte dell’area verde in parcheggio risulti.

Il limite fissato dall’art. 1120 c.c., u.c., non si indentifica nel semplice disagio, ovvero nel minor godimento che l’innovazione procuri al singolo condomino rispetto a quella che, fino a quel momento, è stata la sua fruizione della cosa comune. La norma richiama infatti il concetto di inservibilità della cosa comune, concetto che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, implica la concreta inutilizzabilità della res communis secondo la sua naturale fruibilità (Cass. 12/07/2011, n. 15308).

E infine, si deve escludere che dal contratto di cessione del 1957 intervenuto tra l’ente cedente e la Cooperativa cessionaria sia derivato un vincolo di destinazione dell’area comune. Eventuali limiti restrittivi alla destinazione funzionale di un cortile (come di qualsiasi altra parte comune, ex art. 1117 c.c.) possono discendere da un regolamento condominiale approvato dall’assemblea a maggioranza, che ne determini le modalità di godimento (art. 1138 c.c., comma 1), oppure da una successiva deliberazione assembleare, adottata con le necessarie maggioranze, che innovi l’originaria destinazione, per soddisfare esigenze di interesse condominiale ovvero per finalità di miglioramento o di maggiore comodità o rendimento (Cass. 04/12/2013, n. 27233), o, ancora, ove si intenda restringere il godimento ad una soltanto delle possibili forme d’uso di cui il bene sia suscettibile, mediante una disciplina contrattuale vincolante per i comproprietari predisposta dall’unico originario proprietario dell’edificio ed accettata con i singoli atti di acquisto, ovvero approvata in assemblea con il consenso unanime di tutti i condomini (ex plurimis, Cass. 02/03/2017, n. 5336).”

© massimo ginesi 8 ottobre 2018

quando l’ascensore lo installano solo alcuni condomini

Accade con frequenza che l’ascensore, originariamente non previsto dal costruttore dell’edificio condominiale, venga installato successivamente, su  iniziativa di alcuni condomini, che si fanno anche carico dei relativi costi.

La giurisprudenza si è ampiamente diffusa sui limiti di utilizzo della cosa comune, con particolare riguardo alla occupazione del vano scale e al necessario rispetto della statica e del decoro dell’edificio, con interpretazione che si rifà a criteri di favorevolezza, orientata dall’art. 42 Cost., norma cui si ispirano anche i precetti della L. 13/1989.

L’altro aspetto che, in tali vicende, è giunto con frequenza all’esame dei giudici è quello relativo ai diritti dei condomini che non hanno inizialmente partecipato alla installazione e ai criteri di riparto della spesa.

Cass.civ. sez. II  ord. 4 settembre 2017 n. 20713 rel. Scarpa delinea con chiarezza tali aspetti: l’installazione “ex novo” di un ascensore in un edificio in condominio (le cui spese, a differenza di quelle relative alla manutenzione e ricostruzione dell’ascensore già esistente, vanno ripartite non ai sensi dell’art. 1124 c.c., ma secondo l’art. 1123 c.c., ossia proporzionalmente al valore della proprietà di ciascun condomino: Cass. Sez. 2, 25/03/2004, n. 5975; Cass. Sez. 2, 17/02/2005, n. 3264) costituisce innovazione che può essere deliberata dall’assemblea condominiale con le maggioranze prescritte dall’art 1136 c.c., oppure direttamente realizzata con il consenso di tutti i condomini, così divenendo l’impianto di proprietà comune.

Trattandosi, tuttavia, di impianto suscettibile di utilizzazione separata, proprio quando l’innovazione, e cioè la modificazione materiale della cosa comune (nella specie, il vano scale) conseguente alla realizzazione dell’ascensore, non sia stata approvata in assemblea (lo stesso art. 1121 c.c., al comma 2, parla di maggioranza dei condomini che abbia “deliberata o accettata” l’innovazione), essa può essere attuata anche a cura e spese di uno o di taluni condomini soltanto (con i limiti di cui all’art1102 c.c.), salvo il diritto degli altri di partecipare in qualunque tempo ai vantaggi dell’innovazione, contribuendo nelle spese di esecuzione e di manutenzione dell’opera (Cass. Sez. 2, 18/08/1993, n. 8746; Cass. Sez. 2, 18/11/1971, n. 3314; Cass. Sez. 2, 13/03/1963, n. 614).

Dunque, l’ascensore, installato nell’edificio dopo la costruzione di quest’ultimo per iniziativa di parte dei condomini, non rientra nella proprietà comune di tutti i condomini, ma appartiene in proprietà a quelli di loro che l’abbiano impiantato a loro spese.

Ciò dà luogo nel condominio ad una particolare comunione parziale dei proprietari dell’ascensore, analoga alla situazione avuta a mente dall’art. 1123, comma 3, c.c., comunione che è distinta dal condominio stesso, fino a quando tutti i condomini non abbiano deciso di parteciparvi.

L’art. 1121, comma 3, c.c. fa, infatti, salva agli altri condomini la facoltà di partecipare successivamente all’innovazione, divenendo partecipi della comproprietà dell’opera, con l’obbligo di pagarne pro quota le spese impiegate per l’esecuzione, aggiornate al valore attuale.”

La vicenda ha origini in terra ligure e l’ordinanza del giudice di legittimità contiene anche una interessante delineazione del tema dell’interesse ad agire: gli originari attori avevano infatti chiesto al Tribunale di Genova e poi alla Corte di appello ligure di accertare il costo dell’impianto, e il giudice di merito aveva qualificato tale domanda come necessariamente funzionale anche all’esercizio del diritto previsto dall’art. 1121 cod.civ.

Afferma la Cassazione ” Come da questa Corte più volte affermato, poiché la tutela giurisdizionale è tutela di diritti, il processo, salvo casi eccezionali predeterminati per legge, può essere utilizzato solo come fondamento del diritto fatto valere in giudizio e non di per sé, per gli effetti possibili e futuri. Pertanto, non sono proponibili azioni autonome di mero accertamento di fatti giuridicamente rilevanti ma che rappresentino elementi frazionistici della fattispecie costitutiva di un diritto, la quale può formare oggetto di accertamento giudiziario solo nella funzione genetica del diritto azionato e quindi nella sua interezza (Cass. Sez. U, 20/12/2006, n. 27187).

L’interesse ad agire, che conferisce titolo per proporre in giudizio una domanda, a sensi dell’art. 100 c.p.c., inteso quale bisogno inevitabile di ricorrere al giudice per evitare una lesione attuale o parziale del proprio diritto, va quindi valutato sulla base della interpretazione e qualificazione dei rapporti e delle situazioni dedotte nel materiale assertivo fornito dalle parti in causa.

I ricorrenti ravvisano nei primi due motivi la carenza dell’interesse ad agire e poi l’ultrapetizione della sentenza, in quanto sostengono che fosse stata proposta dagli attori una domanda di mero accertamento del costo di installazione dell’ascensore, ed invece poi accolta dal giudice una domanda di partecipazione alla comproprietà dell’impianto mai proposta.

La Corte d’Appello, come dapprima il Tribunale, hanno invece interpretato e qualificato la domanda di accertamento dei costi e delle rispettive quote di contribuzione all’impianto (e quindi così valutati sia l’interesse ad agire che il limite di corrispondenza tra chiesto e pronunciato), per come già inizialmente formulata in citazione, o comunque per come poi esplicitata nel corso di giudizio, quale domanda di accertamento giudiziario di quei fatti nella loro funzione genetica del diritto potestativo di partecipare alla comproprietà dell’ascensore, contribuendo “pro quota” nelle spese di esecuzione.

Pur dando effettivamente atto di una ridefinizione della loro pretesa effettuata dagli attori nel corso del giudizio, la Corte d’Appello ha correttamente ritenuto che la domanda così modificata risultasse comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e che non si fosse determinata alcuna compromissione delle potenzialità difensive delle controparti. “

© massimo ginesi 7 settembre 2017