lite temeraria ex art. 96 comma III c.p.c.: un deterrente alle iniziative sconsiderate, ascrivibile al genus dei punitive damages

Con il termine punitive damages si identificano, negli ordinamenti anglosassoni, istituti volti a riconoscere al danneggiato da una condotta illecita un indennizzo; tale riconoscimento  prescinde dalla prova di un danno effettivo e ha natura sanzionatoria della condotta di mala fede tenuta dal responsabile.

In Italia sono spesso indicati con la locuzione “danni punitivi”, anche se appare più corretto indicarli con indennizzi punitivi (atteso il significato letterale del termine damages al plurale).

L’art. 96 comma III c.p.c., introdotto nel codice di rito dalla L. 18.6.2009 n. 69, è ascritto proprio a tale categoria, poichè consente al giudice, ogni volta che condanna alle spese di lite il soccombente, di condannarlo anche al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, condanna che prescinde dalla istanza di parte, dalla prova di un danno specifico subito dalla parte vittoriosa e della prova dell’elemento soggettivo, elementi invece richiesti dal comma I della norma.

Che tale fattispecie risulti ascrivibile all’istituto di origine anglosassone e abbia diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento è principio espresso già Cass.Civ. sez.un. 5 luglio 2017 n. 16601 (qui per una attenta disamina) .

La suprema corte ritorna sul tema (Cass.Civ. sez.III ord. 26 giugno 2018 n. 16801), ribadendo la funzione deterrente e sanzionatoria della norma, volta a scoraggiare iniziative giudiziali prive di costrutto.

© massimo ginesi 5 luglio 2018

mediazione, ancora condanne per mancata partecipazione

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Si va sempre più affermando nella giurisprudenza di merito una interpretazione  rigorosa ed estesa della mediazione quale strumento di risoluzione della controversia alternativa alla lite.

Accade così che i giudici  si spingano a ritenere la mancata comparizione delle parti equivalente ad un tentativo di mediazione non esperito, così come affermano di  ritenere  la mancata e ingiustificata partecipazione della parte  elemento qualificante della sua condotta procesuale, tanto da condurre alla condanna sia al pagamento della sanzione pari al contributo unificato in favore dell’Erario sia – ai sensi dell’art. art. 96 III comma c.p.c. – nei confronti della parte vittoriosa.

Lo ha deciso il Tribunale di Roma    con sentenza del 23 giugno 2016, che merita di essere letta per intero.

L’amministratore di condominio – a fronte di tale giurisprundenza – potrà dunque  rappresentare all’assemblea, chiamata a decidere ai sensi dell’art. 71 quater disp. att. cod.civ., l’opportunità  di partecipare comunque alla prima comparizione dinanzi al mediatore, onde non incorrere in conseguenze processuali che potrebbero essere assai spiacevoli, fatta  salva comunque  la possibilità di esporre in quella sede le ragioni per cui si ritiene inutile procedere oltre.

© massimo ginesi giugno 2016

 

lite temeraria, i diversi presupposti dell’art. 96 II e III comma c.p.c.

La Cassazione fa chiarezza sulla diversa natura e portata delle diverse previsioni contenute nell’art. 96 c.p.c., norma in materia di lite temeraria di recente modificata dal legislatore (che ha inteso ampliare i poteri del Giudice, con intenti plausibilmente disincentivanti nei conforti di iniziative giudiziali poco meditate).

LA Terza Sezione, con sentenza depositata ieri (Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 8 marzo – 16 giugno 2016, n. 12413 Presidente Amendola – Relatore Barreca) chiarisce che:

“- l’art. 96, comma terzo, cod. proc. civ. prevede una sanzione processuale che prescinde del tutto dall’esistenza di danni risarcibili. Pertanto, quando il Tribunale ha affermato di voler liquidare danni patrimoniali e non patrimoniali, non ha basato la decisione su questa norma;

– l’art. 96, comma terzo, cod. proc. civ. prescinde dall’istanza di parte, consentendo la condanna d’ufficio. Il Tribunale non ha affatto affermato di voler esercitare il potere officioso riconosciutogli dalla norma, ma si è riferito, come detto, alla domanda della parte attrice.
Ancora, il giudice d’appello ha sbagliato in diritto quando ha ritenuto che si possa prescindere dalla mala fede e dalla colpa grave e che l’art. 96, comma terzo, cod. proc. civ. possa trovare applicazione “in tutti i casi in cui tale condanna, anche al di fuori dei primi due commi, appaia ragionevole”, compresi i casi in cui “la condotta della parte soccombente sia caratterizzata da colpa semplice… ovvero laddove una parte abbia agito o resistito senza la normale prudenza”.
Così decidendo, il giudice ha disatteso l’orientamento di questa Corte espresso già con l’ordinanza n. 21570 del 30 novembre 2012, secondo cui “La condanna al pagamento della somma equitativamente determinata, ai sensi del terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ., aggiunto dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, presuppone l’accertamento della mala fede o colpa grave della parte soccombente, non solo perché la relativa previsione è inserita nella disciplina della responsabilità aggravata, ma anche perché agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela infondata non è condotta di per sé rimproverabile”. La necessaria ricorrenza dei presupposti della mala fede o della colpa grave è stata ritenuta altresì da Cass. S.U. n. 13899/13, nonché da Cass. n. 3003/14, n. 27534/14 e, da ultimo, ord. n. 3376/16… (omissis) Questa Corte di legittimità ha già avuto modo di affermare infatti che nel giudizio di appello incorre in colpa grave, giustificando la condanna ai sensi dell’art. 96, terzo comma, cod. proc. civ., la parte che abbia insistito colpevolmente in tesi giuridiche già reputate manifestamente infondate dal primo giudice ovvero in censure della sentenza impugnata la cui inconsistenza giuridica avrebbe potuto essere apprezzata dall’appellante in modo da evitare il gravame (così Cass. n. 24546/14, nonché n. 1115/16).”

© massimo ginesi giugno 2016