pareti frontistanti…

un paese davvero bizzarro quello in cui la Suprema Corte (Cass.civ. sez. II  1 ottobre 2019 n. 24471) deve ancora dirimere  controversie spendendo pagine a spiegare cosa debba intendersi per pareti frontistanti, pervenendo ‘all’imprevedibile’ risultato che tali debbano intendersi – ai fini delle distanze – quelle che hanno almeno un punto in cui sono una di fronte all’altra, senza che abbia rilievo l’angolo relativo delle pareti che si fronteggiano.

“Il D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 prescrive la distanza minima tra parete e parete finestrata.

È pacifico che l’art. 9 è applicabile anche nel caso in cui una sola delle due pareti fronteggiantesi sia finestrata (Cass., S.U., n. 1486/1997; n. 1984/1999) e indipendentemente dalla circostanza che tale parete sia quella del muovo edificio o dell’edificio preesistente (Cass. n. 13547/2011), o che si trovi alla medesima altezza o diversa altezza rispetto all’altro (Cass. n. 8383/1999).

Finalità della norma è la salvaguardia dell’interesse pubblico-sanitario a mantenere una determinata intercapedine fra gli edifici che si fronteggiano quando uno dei due abbia una parete finestrata (Cass. n. 20574/1997).

La “antistanza” va intesa come circoscritta alle porzioni di pareti che si fronteggiano in senso orizzontale. Nel caso in cui i due edifici siano contrapposti solo per un tratto (perché dotati di una diversa estensione orizzontale o verticale, o perché sfalsati uno rispetto all’altro, il giudice che accerti la violazione delle distanze deve disporre la demolizione “fino al punto in cui i fabbricati si fronteggiano” (Cass. n. 4639/1997).

La Suprema Corte ha osservato che, ai fini del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, due fabbricati, per essere antistanti, non devono essere necessariamente paralleli, ma possono fronteggiarsi con andamento obliquo, purché “fra le facciate dei due edifici sussista almeno un segmento di esse tale che l’avanzamento di una o di entrambe le facciate medesime porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento” (Cass. n. 4175/2001).

Non danno luogo a pareti antistanti gli edifici posti ad angolo retto, nè quello in cui sono opposti gli spigoli a potersi toccare se prolungati idealmente uno verso l’altro. Poiché lo scopo del limite imposto dall’art. 873 c.c. è quello di impedire intercapedini nocive, “la norma non trova applicazione quando i fabbricati non si fronteggiano, ma sono disposti ad angolo retto in modo da non avere parti tra loro contrapposte” (Cass. n. 4639/1997). Le distanze fra edifici non si misurano perciò in modo radiale, come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare (Cass. n. 9649/2016).

Con riferimento all’analoga materia di “pareti frontistanti” vigente in materia antisismica “la giurisprudenza di questa corte ha avuto modo di affermare che la disposizione contenuta nella L. n. 1684 del 1962, art. 6, n. 4 – a norma della quale l’area posta tra edifici e sottratta al pubblico transito deve avere la larghezza minima di sei metri misurata tra i muri frontali – attiene a tutte le ipotesi in cui i muri perimetrali di costruzioni finitime si trovino in posizione antagonista, idonea a provocare, in caso di crollo di uno degli edifici, danni a quello finitimo: pertanto la presenza nei detti muri perimetrali di spigoli o angoli non esula dalla sfera di applicazione della detta norma, in quanto ogni angolo o spigolo è formato da due linee che, sul piano costruttivo, costituiscono vere e proprie “fronti”, le quali, a loro volta, realizzano rispetto all’opposta costruzione, quella posizione antagonista la cui potenzialità viene eliminata o attenuata dal rispetto della distanza minima. Ha, però, soggiunto che tale principio trova applicazione nel caso in cui le due rette che si dipartano dall’angolo secondo le direttrici dei lati di questo vadano ad intersecare il perimetro della costruzione che si vuole opposta, mentre, qualora tali linee non attraversino idealmente il corpo dell’edificio vicino, non v’è antagonismo tra le costruzioni, nè sussiste quella frontalità che la norma in oggetto prevede come presupposto dell’osservanza della distanza di sei metri a scopo di prevenzione antisismica tra i segmenti perimetrali degli edifici” (Cass. n. 14606/2007).

È stato anche chiarito che “il D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, n. 2, non impone di rispettare in ogni caso una distanza minima dal confine, ma va interpretato, in applicazione del principio di prevenzione, nel senso che tra una parete finestrata e l’edificio antistante va mantenuta la distanza di mt. 10, con obbligo del prevenuto di arretrare la propria costruzione fino ad una distanza di mt. 5 dal confine, se il preveniente, nel realizzare tale parete finestrata, abbia a sua volta osservato una distanza di almeno mt. 5 dal confine. Ove, invece, il preveniente abbia posto una parete finestrata ad una distanza inferiore a detto limite, il vicino non sarà tenuto ad arretrare la propria costruzione fino alla distanza di mt. 10 dalla parete stessa, ma potrà imporre al preveniente di chiudere le aperture e costruire (con parete non finestrata) rispettando la metà della distanza legale dal confine, ed eventualmente procedere all’interpello di cui all’art. 875 c.c., comma 2, qualora ne ricorrano i presupposti” (Cass. n. 4848/2019; n. 3340/2002).


Il principio affermato dal Consiglio di Stato (sent. n. 7731/2010), utilizzato dalla corte d’appello quale criterio guida nella valutazione della fattispecie, vuole dire che la distanza deve computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non solo alle parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quelle principali e prescindendo dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela. Ma tale principio, così come gli analoghi principi della giurisprudenza di legittimità, implica pur sempre che “sussista almeno un segmento di esse tale che l’avanzamento di una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento” (Cass. n. 4715/2001).

Al contrario la corte di merito, dopo avere descritto la posizione dei fabbricati, ha ravvisato la violazione della norma senza verificare se, in dipendenza della edificazione Faer in aderenza fino al colpo del muro cieco del preesistente edificio destinato a laboratorio, vi fosse una effettiva e attuale posizione di frontalità fra due facciate, nel senso che facendo avanzare idealmente in linea retta una facciata verso il fabbricato vicino, le due facciate si sarebbero incontrate almeno in un punto (Cass. n. 2548/1972; n. 3480/1972; n. 9649/2016).”

© massimo ginesi 3 ottobre 2019 

distanze legali: l’ente locale può incrementare l’entità ma non il metodo di misura.

Lo afferma, condivisibilmente, Cass.civ. sez. II  sent. 16 aprile 2019 n. 10580: “Il giudice d’appello ha osservato che “oggetto di censura è unicamente la modalità radiale di misurazione” cui sono quindi limitati “l’esame e la decisione del gravame”, che, in forza del richiamo operato dagli artt. 872 e 873 c.c., i regolamenti edilizi e i piani regolatori generali hanno valore di legge e possono sempre stabilire una distanza maggiore, il che può indifferentemente avvenire sia in virtù della espressa indicazione di una maggiore misura dello spazio che come effetto di una particolare misurazione da essi imposta, così che conclude il giudice – è legittimo il metodo radiale stabilito dall’art. 18, delle norme di attuazione del piano regolatore del Comune di (…) e bene ha fatto il giudice di primo grado ha ritenere violata la distanza minima.

L’iter argomentativo del giudice si pone in contrasto con il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui “le distanze tra edifici non si misurano in modo radiale come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare; anzitutto lo scopo del limite imposto dall’art. 873 c.c., è quello di impedire la formazione di intercapedini nocive, sicché la norma cennata non trova giustificazione se non nel caso che i due fabbricati, sorgenti da bande opposte rispetto alla linea di confine, si fronteggino, anche in minima parte, nel senso che, supponendo di farle avanzare verso il confine in linea retta, si incontrino almeno in un punto” (così Cass. 2548/1972, più di recente cfr. Cass. 9649/2016).

Ai Comuni, pertanto, è sì consentito, ai sensi dell’art. 873 c.p.c., stabilire negli strumenti urbanistici distanze maggiori, ma non alterare il metodo di calcolo lineare.”

© massimo ginesi 18 aprile 2019

cassazione: anche un pilastro è “costruzione” ai fini delle distanze

la Corte di legittimità (Cass.Civ. sez. II ord. 23 ottobre 2018, n. 26846) ritorna sul tema delle distanze fra costruzioni e ribadisce il proprio orientamento su tale ultimo concetto: anche un singolo pilastro che sporge sul lastrico deve ritenersi manufatto idoneo per il computo delle distanze.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v’è ragione di discostarsi, la nozione di costruzione, agli effetti dell’art. 873 cod. civ., è unica e non può subire deroghe da parte delle norme secondarie neppure al limitato fine del computo delle distanze legali, in quanto il rinvio contenuto ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una distanza maggiore (Cass. 144/2016; Cass. 19530/2005; Cass. 1556/2005).

A tali effetti, deve ritenersi “costruzione” qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità ed immobilizzazione rispetto al suolo (Cass. 22127/2009; Cass. 400/2005).
Non sono computabili nelle distanze le sole sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria di limitata entità, mentre rientrano nel concetto civilistico di “costruzione” le parti dell’edificio, inclusi, come nella specie, gli sporti sorretti da pilastri e i corpi avanzati che seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato (Cass. 4322/1989; Cass. 5795/1979; Cass. 1566/1972; Cass. 452/1970)

La Corte distrettuale doveva quindi tener conto dei pilastri che, elevandosi dal suolo, formano – di regola – parte integrante della facciata del fabbricato (Cass. 2838/1969; Cass. 1393/1968), del piano di calpestio e del piovente del tetto, e calcolare le distanze dai punti della loro massima sporgenza, benché le norme locali contemplassero un diverso criterio di misurazione, il quale, essendo tuttavia in contrasto con la norma primaria (art. 873 c.c.), andava disapplicato.”

© massimo ginesi 25 ottobre 2018

modalità di calcolo delle distanze fra edifici: la cassazione fa chiarezza

Cass. civ. sez. II 2 ottobre 2018 n. 23856 detta, richiamando precedenti e consolidati orientamenti, i criteri di calcolo delle distanze fra edifici, affermando con chiarezza che:

a) la nozione di edificio fa estesa a qualunque corpo solido stabilmente infisso al suolo

b) le distanze si calcolano fra manufatti indipendentemente dalla circostanza che gli stessi si fronteggino o si pongano su fondi a dislivello, ossia va calcolata in senso assoluto fra i due piani ideali su cui si collocano i bordi più vicini di ciascun edificio

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, ai fini dell’osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dagli artt. 873 e seguenti cod. civ. e delle norme dei regolamenti locali integrativi della disciplina codicistica, la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio, ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato avente i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente, e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell’opera stessa (tra le varie, Sez. 2, Sentenza n. 15972 del 20/07/2011 Rv. 618711; Sez. 2, Sentenza n. 27399 del 29/12/2014 non massimata; Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 5753 del 12/03/2014 Rv. 630205; Sez. 2, Sentenza n. 7706 del 2016 non massimata; v. anche Sez. 2, Sentenza n. 23189 del 17/12/2012 Rv. 624754, soprattutto in motivazione; v. altresì Cass. nn. 3199/02, 12045/00, 45/00, 5116/98, 1509/98 5956/96, 11948/93 e 5670/91).

E ancora, le norme dei regolamenti edilizi che stabiliscono le distanze tra le costruzioni, e di esse dal confine, sono volte non solo ad evitare la formazione di intercapedini nocive tra edifici frontistanti, ma anche a tutelare l’assetto urbanistico di una data zona e la densità edificatoria in relazione all’ambiente, sicché, ai fini del rispetto di tali norme, rileva la distanza in sé, a prescindere dal fatto che le costruzioni si fronteggino e dall’esistenza di un dislivello tra i fondi su cui esse insistono (Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 3854 del 18/02/2014 Rv. 629629; Sez. 2, Sentenza n. 19350 del 04/10/2005 Rv. 584412).

Nel caso in esame, dalla stessa sentenza impugnata risulta che il basamento in calcestruzzo è distinto in due scomparti, sul quale sono stati installati, mediante piastre affogate nella base in calcestruzzo nove profilati in acciaio a doppia T dell’altezza di mt. 1,50 circa, imbullonati alle piastre stesse. Le pareti del manufatto sono formate da traversine ferroviarie di risulta, di materiale ligneo, incastrate nei profilati metallici.

Il fatto – pure evidenziato nella sentenza impugnata – che il basamento sia posizionato a 20 cm al di sotto del circostante piazzale del convenuto va però correlato all’intero manufatto e alla sua sporgenza dal suolo, al livello del fondo contiguo e al principio che solo l’opera completamente interrata è esonerata dal rispetto delle distanze. Logica conseguenza è che l’assenza di intercapedini dannose non può farsi discendere dalla collocazione del basamento in calcestruzzo, dovendosi invece valutare il manufatto nella sua interezza.
Tali elementi non risultano presi in debita considerazione dalla Corte d’Appello e pertanto si impone la cassazione della sentenza per nuovo esame da parte del giudice di rinvio che, sulla scorta dei citati principi, proceda ad accertare se l’opera denunziata sia o meno annoverabile nel concetto di costruzione ai sensi dell’art. 873 cc traendo poi le debite conseguenze in tema di rispetto delle distanze.”

copyright massimo ginesi 15 ottobre 2018

ciascun condomino può agire a tutela delle distanze rispetto al fabbricato condominiale.

Lo afferma, recependo un consolidato orientamento, Corte di Cassazione, sez. II Civile,  26 aprile 2017, n. 10304, rel. Giusti con una pronuncia in cui chiarisce anche che la cotruzione in aderenza no  è ammessa ove non sia espressamente prevista dai regolamenti locali.

La vicenda nasce come una delle classiche liti di vicinato:” PI.Io. , quale procuratrice speciale di PI.Ma.Lu., Z.A., M.G. , D.F.M. , D.F.B. e Pa.An. , premesso di essere proprietari degli appartamenti costituenti l’edificio di via (omissis), convenivano in giudizio davanti al Tribunale di Velletri, sezione distaccata di Anzio, P.E., per sentirlo condannare all’arretramento del terrazzo, costituente copertura dei locali sottostanti, realizzato a ridosso della parte condominiale in violazione della normativa in tema di distanze, oltre al risarcimento del danno.
Si costituiva il convenuto, resistendo e spiegando domanda di condanna degli attori al risarcimento dei danni per lite temeraria.”

Il Tribunale respingeva la domanda degli attori, condannati anche ex art. 96 c.p.c., pronuncia ribaltata in secondo grado dalla Corte di Appello di Roma, che condannava il convenuto all’arretramento della costruzione.

Giunto il giudizio in sede di legittimità, la Corte afferma, quanto alla legittimazione e alla inesistenza idi litisconsortio:

Ciascun condomino è legittimato a ricorrere per la violazione delle distanze fra costruzioni con riguardo all’edificio condominiale, senza che sia necessaria la integrazione del contraddittorio con la chiamata in causa degli altri condomini, trattandosi di azione a tutela del diritto di proprietà dalla quale nessun nocumento può derivare agli altri con titolari (Cass., Sez. II, 11 marzo 1992, n. 2940; Cass., Sez. II, 22 maggio 1995, n. 5612).”

Quanto alle costruzioni in aderenza: “La decisione impugnata è corretta, avendo fatta puntuale applicazione del condiviso principio di diritto, costantemente affermato da questa Corte (Cass., Sez. II, 9 settembre 1998, n. 8945; Cass., Sez. II, 12 settembre 2000, n. 12045), secondo cui, quando, come nel caso in esame, il piano particolareggiato esecutivo prescrive le distanze dal confine, non è consentita – salvo concreta, diversa previsione della norma regolamentare – la costruzione in aderenza, perché dette norme regolamentari sono integrative del codice civile per tutta la loro disciplina, tal che la norma di cui all’art. 873 cod. civ. cede alla norma regolamentare, che, prescrivendo l’osservanza, per le costruzioni, di una determinata distanza dal confine, implica il divieto di costruire in appoggio od in aderenza, in deroga alla disciplina del codice civile.”

Osserva ancora la Corte che la circostanza dirimente in ordine al divieto di costruire in aderenza è che il piano locale preveda una distanza minima dal confine: “Non viene in gioco nella specie il principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte, a composizione di contrasto, con la sentenza 19 maggio 2016, n. 10318, perché nella presente fattispecie il regolamento edilizio locale non si limita a stabilire un distacco minimo fra le costruzioni maggiore rispetto a quello contemplato dall’art. 873 cod. civ., ma prescrive proprio una distanza minima delle costruzioni dal confine.”

Sottolinea infine che tali norme sono inderogabili, come è ovvio, in via negoziale, rimanendo irrilevante che  sia stata comunque rilasciata concessione edilizia: “la Corte d’appello ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui, in tema di distanze legali nelle costruzioni, le prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei regolamenti edilizi comunali, essendo dettate a tutela dell’interesse generale a un prefigurato modello urbanistico, non tollerano deroghe convenzionali da parte dei privati, e tali deroghe, se concordate, sono invalide, né tale invalidità può venire meno per l’avvenuto rilascio di concessione edilizia, poiché il singolo atto non può consentire la violazione dei principi generali dettati, una volta per tutte, con gli indicati strumenti urbanistici (Cass., Sez. II, 23 aprile 2010, n. 9751).”

© massimo ginesi 2 maggio 2017

distanze fra costruzioni, giudizio amministrativo e diritti dei privati.

Una articolata e densa pronuncia della Suprema Corte (Corte di Cassazione, sez. II Civile,  16 marzo 2017,n. 6855) fa il punto sulla efficacia delle pronunce emesse dal Giudice amministrativo in ordine alla impugnazione di concessione edilizia nel successivo giudizio fra privati relativo alle distanze fra costruzioni, affrontando anche il problema del rispetto delle distanze fra corpi di fabbrica principali e accessori.

RAPPORTI FRA PRONUNCIA AMMINISTRATIVA E GIUDIZIO CIVILE  “Ed, invero partendo dall’ultima affermazione di parte ricorrente relativa all’efficacia vincolante della pronuncia del giudice amministrativo, e ricordato che si tratta di statuizione emessa in relazione all’impugnativa della concessione edilizia rilasciata in favore dei ricorrenti e concernente il fabbricato oggetto di causa, giova richiamare la giurisprudenza di questa Corte a mente della quale (cfr. Cass. n. 9869/2015) la pronuncia del giudice amministrativo, investito della domanda di annullamento della licenza, concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza dei diritti dei terzi), ha ad oggetto il controllo di legittimità dell’esercizio del potere da parte della P.A. ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico relativo al rapporto fra il privato e la P.A., sicché non ha efficacia di giudicato nelle controversie tra privati, proprietari di fabbricati vicini, aventi ad oggetto la lesione del diritto di proprietà determinata dalla violazione della normativa in tema di distanze legali, che è posta a tutela non solo di interessi generali ma anche della posizione soggettiva del privato.

Ed, invero trattasi di una piana applicazione del generale principio affermato da tempo per il quale (cfr. Cass. S.U. n. 13673/2014) le controversie tra proprietari di fabbricati vicini relative all’osservanza di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o rispetto ai confini appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, senza che rilevi l’avvenuto rilascio del titolo abilitativo all’attività costruttiva, la cui legittimità potrà essere valutata “incidenter tantum” dal giudice ordinario attraverso l’esercizio del potere di disapplicazione del provvedimento amministrativo, salvo che la domanda risarcitoria non sia diretta anche nei confronti della P.A. (nella specie, il Comune) per far valere l’illegittimità dell’attività provvedimentale, sussistendo in questo caso la giurisdizione del giudice amministrativo (in termini ex multis Cass. n. 13170/2001; Cass. S.U. n. 333/1999).

L’eventuale accertamento della legittimità del titolo abilitativo della costruzione da parte del giudice amministrativo non preclude una diversa valutazione dell’illegittimità della condotta del privato nella controversia intentata da altro privato a tutela del diritto di proprietà, sicché la decisione gravata, avendo fatto puntuale applicazione dei suesposti principi non appare meritevole di censura.

LA NOZIONE DI FABBRICATO SOTTO IL PROFILO AMMINISTRATIVO E DI COSTRUZIONE SOTTO IL PROFILO CIVILISTICO – Quanto invece alla dedotta erronea applicazione delle previsioni di legge e regolamentari in materia di distanza, il tenore delle norme di cui allo strumento urbanistico locale non consente sulla base della loro formulazione letterale di ritenere che il loro ambito applicativo sia limitato alle sole costruzioni aventi carattere principale.

Il richiamo alla nozione di edifici di nuova costruzione ovvero di fabbricati, in assenza di una puntuale e specifica disciplina dettata per gli edifici aventi carattere cd. accessorio, come riconosciuto da parte degli stessi ricorrenti, non consente di optare per un’interpretazione che ne limiti l’applicazione ai soli edifici aventi carattere principale, posto che anche i manufatti di più contenute dimensioni, quali quelli per i quali si vorrebbe escludere la valutazione ai fini del rispetto delle distanze, appaiono evidentemente riconducibili alla nozione di costruzione di cui all’art. 873 c.c., trattandosi di manufatti stabilmente infissi al suolo che, per solidità, struttura e sporgenza dal terreno, possono creare quelle intercapedini dannose che la legge, stabilendo la distanza minima tra le costruzioni, intende evitare, rispondendo alla tradizionale nozione di costruzione quale recepita dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 5753/2014).

D’altronde proprio la carenza di una specifica disciplina, impone di ritenere come già affermato in passato che (cfr. da ultimo Cass. n. 144/2016) la nozione di costruzione, agli effetti dell’art. 873 c.c., è unica e non può subire deroghe da parte delle norme secondarie, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, in quanto il rinvio ivi contenuto ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una “distanza maggiore”.

Ne discende che, una volta ricondotti gli edifici accessori al novero delle costruzioni in senso civilistico e nell’accezione propria della disciplina in materia di distanze, le previsioni regolamentari che prevedono un distacco tra costruzioni risultano evidentemente applicabili anche a tali manufatti, e che, anche laddove lo strumento urbanistico locale avesse dettato una disciplina difforme, tale deroga dovrebbe reputarsi illegittima, non rientrando nel potere degli enti locali quello di dettare deroghe alla disciplina codicistica in materia di distanze, eccezione fatta per la previsione sopra richiamata, di porre delle distanze maggiori rispetto a quelle di legge.”

LE DISTANZE SI APPLICANO PER EDIFICI SU FONDI DI DIVERSI PROPRITARI E NON FRA EDIFICI POSTI SULLO STESSO FONDO –  Quanto al fabbricato cd. accessorio del C. , di cui non si denunzia la violazione delle norme dal confine, la sentenza ha ritenuto che lo stesso fosse posto in una zona del fondo per la quale le distanze dal confine dell’edificio principale erano ampiamente rispettate e che risultava pertanto in massima parte al di fuori dell’area di distacco quale imposta dallo strumento urbanistico.

Ritiene però la Corte che anche l’eventuale realizzazione in parte del manufatto in oggetto all’interno dell’area di distacco non possa determinare un esito diverso della controversia.
Ed, infatti la previsione di un’area di distacco mira essenzialmente ad assicurare il rispetto delle distanze tra fabbricati edificati su fondi finitimi ed appartenenti a diversi proprietari, non potendosi ravvisare l’illegittimità dal punto di vista privatistico, per costruzioni realizzate eventualmente a distanza inferiore a quella legale o regolamentare sul fondo di un unico proprietario (per un riferimento a tale regola si veda Cass. n. 1918/1973, a mente della quale il principio della prevenzione – in base al quale, fra due proprietari di fondi finitimi, colui che costruisce per primo può o edificare sul confine o a distanza dal confine non inferiore a quella legale oppure a distanza inferiore, costringendo il vicino, che costruisce per secondo, a ristabilire la distanza legale edificando dal confine a distanza maggiore della meta di quella prescritta, a meno che non voglia avanzare la propria fabbrica fino all’altrui costruzione, giovandosi dei rimedi offertigli dall’art. 875 cod. civ. – presuppone un rapporto intersoggettivo, opera tra proprietari di fondi finitimi e non è ipotizzabile come attributo della costruzione con caratteri di realità). D’altronde essendo la proprietà di entrambi i fabbricati, principale ed accessorio, in capo all’attore, i ricorrenti non sono legittimati a dolersi della violazione delle distanze tra le due opere.
Quanto invece alla pretesa violazione della previsione regolamentare che nega la possibilità di costruire nelle zone di distacco, la stessa si riverbera nei soli rapporti con la PA, e determina quindi l’illegittimità dell’opus dal punto di vista amministrativo, ma non incide sulla diversa disciplina in tema di distanze, e sulla possibilità anche per il titolare della costruzione illegittima dal punto di vista amministrativo di pretendere il rispetto delle distanze legali (cfr. Cass. n. 17339/2003; Cass. n. 10850/1998), essendo tale conclusione una piana applicazione del su riferito principio dell’autonomia tra profili pubblicistici dell’attività edificatoria e rapporti interprivatistici.

© massimo ginesi 20 marzo 2017 

solo l’esatta ricostruzione esonera dalle norme sulle distanze

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Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza n. 12527/16; depositata il 17 giugno, una sentenza che  ribadisce un principio consolidato. La Corte richiama “il reale insegnamento della giurisprudenza di legittimità, per cui si ha mera ricostruzione, ovvero l’esonero dalle norme vigenti in punto di distanze, “solo se l’intervento si traduca nell’esatto ripristino delle strutture precedenti, senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio e, in particolare, senza aumenti della volumetria né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro”, altrimenti versandosi nell’ipotesi di nuova costruzione, assoggettata alla normativa vigente”.

La Corte di Appello di Trento aveva ritenuto che il principio dovesse applicarsi solo ad eventuali ampliamenti che interessassero il lato  dell’edificio che prospetta su altri fabbricati, pervenendo ad una interpretazione che il Giudice di legittimità ritiene insostenibile; il giudice di secondo grado si era infatti spinto in una valutazione comparativa: la corte d’appello “ritiene imprescindibile la “disamina della ragion d’essere dei limiti posti dal legislatore alla proprietà in tema di rispetto delle distanze legali”; e quindi asserisce che sarebbe indiscusso che la ratio dell’articolo 873 c.c. “debba esser individuata nell’esigenza non certo della tutela della riservatezza, bensì della salubrità e sicurezza”; ma “se è così” si deve “verificare se rispetto al passato vi sia stata una modifica della sagoma dell’edificio confinante in larghezza ed in altezza, non già alla costruzione confinante astrattamente considerata nella sua unitaria realizzazione, ma solo alla parte di essa che concretamente fronteggia il fabbricato vicino”. E dunque, se l’edificio è stato ricostruito “alla medesima distanza senza ampliamenti della sagoma o dell’altezza rispetto al fabbricato prospiciente del vicino, va ritenuto irrilevante l’eventuale ampliamento e rifacimento realizzato su diversi fronti” come si sarebbe espressa questa Suprema Corte in un risalente arresto (n. 14543/2004). E poiché sia nella c.t.u. di primo grado che in quella d’appello si è “accertato che rispetto al confine ed alla casa degli attori non vi è stato alcun ampliamento della sagoma dell’edificio”, “la sentenza gravata deve essere confermata”.

Il giudizio di legittimità censura tale lettura in modo netto. Qualunque ampliamento dell’edificio comporta che si sia in presenza di nuova costruzione e non di mera ristrutturazione: “A parte che non è logicamente comprensibile come possa definirsi espletata “astrattamente” la considerazione dell’edificio nelle sue globali dimensioni, quel che rileva è, ovviamente, trattandosi di questioni di diritto, non il percorso motivazionale in sé (che suscita una certa perplessità anche laddove afferma di individuare la esclusiva ratio dell’articolo 873 c.c.), bensì il principio applicato. E la giurisprudenza di questa Suprema Corte, come già più sopra osservato, è ormai inequivoca nel senso che la ricostruzione dell’immobile non deve arrecare alcun novum esterno per consentirne l’edificazione ad una distanza difforme da quella stabilita dalla normativa vigente, avendo le stesse Sezioni Unite (nell’ordinanza n. 21578 del 19 ottobre 2011) affermato che, anche alla luce dell’articolo 31, primo comma, lettera d),l. 5 agosto 1978 n. 457, si ha “ristrutturazione” nel caso in cui gli interventi, poiché comportanti modifiche esclusivamente interne, abbiano lasciato inalterati i componenti essenziali dell’edificio, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali e la copertura; e si ha “ricostruzione” quando tali componenti essenziali dell’edificio preesistente siano venuti meno per evento naturale o volontaria demolizione e l’intervento consista nel loro esatto ripristino, senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio, e in particolare senza aumenti della volumetria; ma nel caso in cui tali aumenti sussistano, trattasi di “nuova costruzione”, come tale sottoposta alla normativa in tema di distanze vigente al momento dell’edificazione, così ribadendosi quanto insegnato da un ampio orientamento (Cass. sez.2, 26 ottobre 2000 n. 14128; Cass. sez.2, 6 ottobre 2005 n. 19469; Cass. sez.2, 27 aprile 2006 n. 9637; Cass. sez.2, 11 febbraio 2009 n. 3391; Cass. sez.2, 27 ottobre 2009 n. 22688) e anche da ultimo rimarcato (Cass. sez.2, 20 agosto 2015 n. 17043).
Non è pertanto sostenibile, in quanto confliggente con il suddetto insegnamento – contro il quale, d’altronde, la corte territoriale non adduce alcuna valida argomentazione ermeneutica se in grado inficiarlo -, che nel caso di specie, nel quale è indiscutibile, per quanto emerge dalle consulenze, che sia stato effettuato un ampliamento volumetrico, l’edificio sia svincolato dalla normativa vigente sulle distanze, non potendosi qualificarlo né ristrutturazione né ricostruzione, bensì nuova costruzione.”

© massimo ginesi giugno 2016

le Sezioni Unite sulle distanze fra edifici e il criterio della prevenzione

L’art. 873 cod.civ. prevede una disciplina della distanza fra costruzioni che consente a chi costruisce per primo di obbligare coloro che edificheranno in epoche successive a scegliere se costruire in aderenza oppure rispettare la distanza prevista dalla norma (o quella diversa stabilita dai regolamenti locali, avendo la norma codicistica carattere sussidiario).

Alcune sentenze hanno ritenuto che tale disciplina si applicasse solo all’ipotesi in cui il regolamento comunale imponesse anche una distanza minima dal confine, cosicché il contrasto è giunto alla Corte a sezioni unite affinché si pronunciasse sulla “applicabilità o meno del principio di prevenzione nell’ipotesi in cui le disposizioni di un regolamento edilizio locale prevedano esclusivamente una distanza tra fabbricati maggiore di quella codicistica, senza imporre altresì il rispetto di una distanza minima delle costruzioni dal confine”.

La Corte si è pronunciata con sentenza 19/05/2016, n. 10318 (il cui testo integrale  può essere letto qui   ) affermando che:

“Il principio della prevenzione si applica anche nell’ipotesi in cui il regolamento edilizio locale preveda una distanza tra fabbricati maggiore di quella ex art. 873 c.c. e tuttavia non imponga una distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che la portata integrativa della disposizione regolamentare si estende all’intero impianto codicistico, inclusivo del meccanismo della prevenzione, sicché il preveniente conserva la facoltà di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le costruzioni e il prevenuto la facoltà di costruire in appoggio o in aderenza ai sensi degli artt. 874, 875 e 877 c.c.”

© massimo ginesi giugno 2016