decreto ingiuntivo non opposto e principio del giudicato esterno discedente: in tema di spese di riscaldamento condominiali.

La mancata opposizione a decreto ingiuntivo e il suo divenire definitivo, con effetto di cosa giudicata, comporta che non possa più essere oggetto di successivo giudizio quanto poteva e doveva essere dedotto in quella sede.

Il principio, in materia condominiale, è ribadito da Cass.Civ. sez. VI 22 gennaio 2018 n. 1502 rel. Scarpa: “È fondato anche il secondo motivo di ricorso, non avendo il Tribunale di Verbania preso in esame l’eccezione di giudicato esterno formulata dal Condominio di (omissis) con riferimento ai decreti ingiuntivi n. 256/14 e n. 363/15.

Il ricorrente aveva posto in evidenza come tali decreti ingiuntivi fossero stati richiesti dal medesimo Condominio per ottenere dal M. il pagamento di spese ordinarie comprensive delle spese di riscaldamento.

Il Tribunale avrebbe pertanto dovuto verificare se i decreti ingiuntivi non opposti avessero dato luogo alla formazione tra le parti di un giudicato involgente altresì la ragione e la misura dell’obbligazione del condomino M. di concorrere alle spese di uso del riscaldamento centrale, nonché l’inesistenza di fatti impeditivi o estintivi, non dedotti ma deducibili nel giudizio di opposizione, quali quelli atti a prospettare l’insussistenza, totale o parziale, del credito azionato in sede monitoria sul presupposto dell’esonero da tali spese del condomino che abbia distaccato le diramazioni della sua unità immobiliare dall’impianto comune.

Ove quei decreti recassero l’accertamento della sussistenza dell’obbligo di M.L. di contribuire alle spese d’uso del riscaldamento centralizzato, la situazione ivi accertata non potrebbe in radice formare oggetto di valutazione diversa nel presente giudizio, permanendo immutati gli elementi di fatto e di diritto preesistenti.

Occorre infatti considerare come il giudice, nell’indagine volta ad accertare l’oggetto ed i limiti del giudicato esterno discendente da un decreto ingiuntivo non opposto, debba dare rilievo non unicamente al contenuto precettivo del provvedimento monitorio pronunziato, quand’anche agli elementi di fatto ed alle ragioni di diritto su cui era fondata la domanda di ingiunzione.

Questa Corte ha sostenuto, del resto, che il giudice che emette il decreto ingiuntivo, accogliendo le ragioni del ricorrente, ne fa propri i motivi, per cui il riferimento a questi – portati a conoscenza dell’ingiunto mediante la notificazione sia del ricorso che del decreto, prevista dal secondo comma dell’art. 643 c.p.c. – è sufficiente ad integrare per relationem la motivazione del provvedimento, necessaria ai sensi del combinato disposto degli artt. 641, comma 1, e 135, comma 2, dello stesso codice di rito (Cass. Sez. L, 16/06/1987 n. 5310; Cass. Sez. 5, 20/08/2004, n. 16455).

Ne consegue che il giudicato sostanziale conseguente alla mancata opposizione di un decreto ingiuntivo si estende pure alla causa petendi indicata a sostegno del credito azionato, abbracciando i fatti costitutivi esposti nel ricorso per ingiunzione come l’inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi del rapporto e del credito precedenti al medesimo ricorso e non dedotti con l’opposizione, mentre non si estende soltanto ai fatti successivi al giudicato, ovvero a quelli che comportino un mutamento del petitum e della causa petendi articolati in seno alla domanda accolta.

Ove si tratti di decreto ingiuntivo per le rate maturate di un’obbligazione periodica, l’autorità del giudicato impedisce il riesame e la deduzione di questioni tendenti ad una nuova decisione di quelle già risolte con provvedimento definitivo, il quale, pertanto, esplica la propria efficacia anche nel tempo successivo alla sua emanazione, con l’unico limite di una sopravvenienza, di fatto o di diritto, che muti il contenuto materiale del rapporto o ne modifichi il regolamento (cfr. Cass. Sez. 2, 2016, 06/06/2016, n. 11572; Cass. Sez. L, 23/07/2015, n. 15493; Cass. Sez. 3, 11/05/2010, n. 11360).”

LA sentenza affronta anche altro tema ormai più che consolidato, ribadendo principi ferrei e condivisibili in ordine all’ambito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, nel quale non si potranno far valere vizi della  delibera posta a fondamento della richiesta monitoria, non tempestivamente impugnata, salvo che gli stessi risultino tutt’ora idonei ad incidere sulla sua efficacia (ed esempio la nullità della stessa): “Occorre peraltro ribadire che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo concernente il pagamento di contributi per spese, il condominio soddisfa l’onere probatorio su esso gravante con la produzione del verbale dell’assemblea condominiale in cui sono state approvate le spese, nonché dei relativi documenti (Cass. Sez. 2, 29 agosto 1994, n. 7569).

Il Tribunale di Verbania non si è uniformato al costante orientamento di questa Corte, secondo il quale, nello stesso giudizio di opposizione, il condomino opponente non può far valere questioni attinenti alla validità della delibera condominiale di approvazione dello stato di ripartizione (nella specie, per aver l’assemblea posto a carico anche del condomino che si era distaccato dall’impianto di riscaldamento centralizzato le spese di gestione dello stesso), ma solo questioni riguardanti l’efficacia di quest’ultima.

Per quanto detto, tale delibera costituisce, infatti, titolo sufficiente del credito del condominio e legittima non soltanto la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condominio a pagare le somme nel processo oppositorio a cognizione piena ed esauriente, il cui ambito è, dunque, ristretto alla verifica della (perdurante) esistenza della deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del relativo onere (Cass. Sez. U., 18 dicembre 2009, n. 26629; Cass. Sez. 2, 23/02/2017, n. 4672).

Il giudice deve quindi accogliere l’opposizione solo qualora la delibera condominiale (nella specie, quelle approvate dal Condominio di (omissis) nelle assemblee dell’ottobre 2009, del marzo e del maggio 2010) abbia perduto la sua efficacia, per esserne stata l’esecuzione sospesa dal giudice dell’impugnazione, ex art. 1137, comma 2, c.c., o per avere questi, con sentenza sopravvenuta alla decisione di merito nel giudizio di opposizione ancorché non passata in giudicato, annullato la deliberazione (Cass. Sez. 2, 14/11/2012, n. 19938).

La dedotta mancata comunicazione delle delibere assembleari di approvazione e ripartizione delle spese ai condomini assenti ex art. 1137 c.c. al condomino M. , in quanto vicenda del tutto estranea al procedimento formativo della volontà collegiale, può essere ragione che abbia impedito il decorso del termine di impugnazione stabilito da detta norma, ma non comunque motivo di invalidità da introdurre per la prima volta nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione dei relativi oneri, ai sensi dell’art. 63 disp. att. c.c. (cfr. Cass. Sez. 6 – 2, 11/08/2017, n. 20069; Cass. Sez. 2, 22/05/1974, n. 1507).

Né il condomino M. potrebbe lamentare l’annullabilità delle deliberazioni poste a fondamento dell’ingiunzione di pagamento per non essere stato proprio convocato a quelle riunioni, trattandosi di vizio invocabile comunque con l’impugnazione ex art. 1137 c.c., e non di doglianza che possa formare oggetto di eccezione nel giudizio di opposizione (Cass. Sez. 2, 07/11/2016, n. 22573; Cass. Sez. 2, 01/08/2006, n. 17486). ” 

© massimo ginesi 25 gennaio 2018

impugnazione di delibera assembleare: l’appello contro la sentenza sempre con citazione.

Ormai da tempo la giurisprudenza ha chiarito che l’impugnativa di delibera assembleare va introdotta con citazione (e non con ricorso): l’appello segue lo stesso rito, anche laddove il giudizio di primo grado sia  stato introdotto con ricorso.

In ogni caso, ai fini del rispetto del termine per l’impugnazione, quale che sia il sistema adottato, vale la notifica all’appellato e non il deposito del ricorso nella cancelleria del giudice di appello.

Il principio è ribadito da Cass.Civ. II sez. 14 dicembre 2017 n. 30044.

Il ricorso al giudice di legittimità viene proposto contro una sentenza della Corte di Appello di Napoli: “Con sentenza n. 2684 dei 19/27.6.2013 la corte d’appello di Napoli dichiarava inammissibile il gravame, siccome tardivamente proposto, e condannava gli appellanti alle spese.
Evidenziava la corte che il gravame era stato notificato in data 10.2.2009, ben oltre la scadenza – coincidente con l’1.12.2008 – del termine lungo ex art. 327 cod. proc. civ..
Evidenziava altresì che nessun rilievo rivestiva la circostanza che il ricorso, con cui l’impugnazione era stata spiegata, era stato depositato in data 1.12.2008; che invero l’appello era da proporre con citazione, sicché la tempestività del gravame era da riscontrare “in base alla data di notifica dell’atto di citazione e non alla data di deposito dell’atto di gravame nella cancelleria del giudice ad quem” (così sentenza d’appello, pag. 3).”

La Cassazione richiama, con ampio excursus, principi che ormai dovrebbero essere noti a qualunque operatore del diritto:” Il ricorso va respinto. Alla data – 1.12.2008 – di deposito del ricorso recante l’atto di gravame avverso la sentenza n. 2225/2007 del tribunale di Nola l’indirizzo giurisprudenziale enunciato in via assolutamente prioritaria da questa Corte di legittimità era ben chiaro e si esprimeva nel senso che l’appello avverso la sentenza che abbia pronunciato sull’impugnazione di una delibera dell’assemblea condominiale, in assenza di previsioni di legge “ad hoc”, va proposto – secondo la regola generale contenuta nell’art. 342 cod. proc. civ. – con citazione;

cosicché la tempestività dell’appello va verificata in base alla data di notifica dell’atto e non alla data di deposito dell’atto di gravame nella cancelleria del giudice “ad quem” (cfr. Cass. 8.4.2009, n. 8536; Cass. 25.2.2009, n. 4498, secondo cui, nei procedimenti nei quali l’appello, in base al principio di cui all’art. 342 cod. proc. civ., va proposto con citazione, ai fini della “vocatio in ius”, vale la regola della conoscenza dell’atto da parte del destinatario; cosicché se, erroneamente, l’impugnazione, anziché con citazione, venga proposta con ricorso, per stabilirne la tempestività occorre avere riguardo non alla data di deposito di quest’ultimo, ma alla data in cui lo stesso risulta notificato alla controparte unitamente al provvedimento del giudice di fissazione dell’udienza; Cass. 11.9.2008, n. 23412, secondo cui, qualora l’appello a sentenza pronunciata in esito ad un giudizio celebrato con rito ordinario (nella specie, impugnazione prevista dall’art. 99 della legge 16.3.1942, n. 267) venga proposto con la forma prescritta per l’appello alle sentenze pronunciate in esito a giudizio camerale, il deposito del ricorso, pur se tempestivo, non è idoneo alla costituzione di un valido rapporto processuale, il quale richiede che l’atto recettizio di impugnazione venga portato a conoscenza della parte entro il termine perentorio stabilito dall’art. 325 cod. proc. civ., nella forma legale della notificazione e nel luogo indicato dall’art. 330 cod. proc. civ., sicché l’eventuale sanatoria di tale atto nullo è ammissibile soltanto a condizione che non si sia verificata “medio tempore” alcuna decadenza – quale, appunto, quella conseguente all’inosservanza del termine perentorio entro il quale deve avvenire la ricezione dell’atto – che abbia determinato il passaggio in giudicato della sentenza e, quindi, l’inammissibilità dell’appello; Cass. 11.4.2006, n. 8440, secondo cui in tema di condominio, l’impugnazione della delibera dell’assemblea può avvenire indifferentemente con ricorso o con atto di citazione, ma in quest’ultima ipotesi, ai fini del rispetto del termine di cui all’art. 1137 cod. civ., occorre tenere conto della data di notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, anziché di quella del successivo deposito in cancelleria, che avviene al momento dell’iscrizione a ruolo della causa).

In questo quadro non si delineano i margini dell’”overruling”.

Viepiù giacché l’insegnamento, di segno contrario, espresso da questa Corte con la pronuncia n. 18117 del 26.7.2013 (secondo cui in tema di impugnazione delle deliberazioni assembleari del condominio, qualora il giudizio di primo grado sia stato introdotto con ricorso, anziché con citazione, può essere introdotto con ricorso anche il giudizio di appello, e, in questo caso, il rispetto del termine di gravame è assicurato già dal deposito del ricorso in cancelleria, a prescindere dalla sua successiva notificazione) non solo è evidentemente minoritario, ma risulta “contraddetto” dal successivo arresto n. 23692 del 6.11.2014 di questo stesso Giudice del diritto (secondo cui l’appello avverso la sentenza che abbia pronunciato sull’impugnazione di una deliberazione dell’assemblea di condominio, ai sensi dell’art. 1137 cod. civ., va proposto, in assenza di specifiche previsioni di legge, mediante citazione in conformità alla regola generale di cui all’art. 342 cod. proc. civ., sicché la tempestività del gravame va verificata in base alla data di notifica dell’atto e non a quella di deposito dello stesso nella cancelleria del giudice “ad quem”) esattamente conforme al prioritario indirizzo ricostruttivo già consolidatosi in precedenza e comunque consolidato alla data dell’1.12.2008 (nel medesimo senso cfr. ulteriormente Cass. (ord.) 5.4.2017, n. 8839).

Al cospetto del riferito “stato” dell’elaborazione giurisprudenziale ben avrebbero potuto e dovuto i ricorrenti alla data dell’1.12.2008 (allorché ebbero a depositare nella cancelleria della corte d’appello di Napoli il ricorso recante atto di gravame avverso la sentenza di prime cure del tribunale di Nola) aver piena cognizione dell’indirizzo giurisprudenziale del tutto prioritario e su tale scorta proporre l’atto di gravame nella forma “dovuta”, cioè mediante atto di citazione, o quanto meno notificare il ricorso entro l’1.12.2008.”

© massimo ginesi 21 dicembre 2017

 

impugnativa di delibera e legittimazione processuale: se l’amministratore non agisce, non è consentito farlo ai singoli condomini.

La suprema corte (Cass.Civ. II sez. 12 dicembre 2017 n. 29748 rel. Scarpa) conferma un orientamento ormai consolidato: per le controversie attinenti alla gestione comune sussiste legittimazione esclusiva dell’amministratore, dovendosi esclude la concorrente facoltà del singolo condomino.

La vicenda trae origine, nel merito, dalla impugnativa di una delibera assembleare che, a detta dei condomini che hanno fatto ricorso al giudice, ripartiva erroneamente alcune spese. La Corte di Appello di Cagliari, in riforma della sentenza di primo grado, aveva annullato la delibera, con pronuncia resa nei conforti del condominio in persona dell’amministratore: avverso detta sentenza alcuni condomini propongono ricorso per cassazione.

Osserva la corte che: “Per consolidato orientamento di questa Corte, spetta in via esclusiva all’amministratore del condominio la legittimazione passiva a resistere nei giudizi promossi dai condomini per l’annullamento delle delibere assembleari, ove queste non attengono a diritti sulle cose comuni (Cass. Sez. 2, 20/04/2005, n. 8286; Cass. Sez. 2, 14/12/1999, n. 14037; Cass. Sez. 2, 19/11/1992, n. 12379).

Nella specie, si tratta di impugnativa di deliberazione dell’assemblea condominiale relativa alla ripartizione di spese per un servizio comune. L’impugnativa è fondata sull’assunta violazione dei criteri di suddivisione stabiliti dalla legge, ed è quindi volta ad ottenere una pronuncia di invalidità della deliberazione assembleare, per il cui accertamento sono legittimati, dal lato attivo, ciascun condomino, e, passivamente, come accennato, soltanto l’amministratore del condominio, senza necessità di partecipazione al giudizio dei singoli condomini (Cass. Sez. 2, 15/04/1994, n. 3542).

La legittimazione passiva esclusiva dell’amministratore del condominio nei giudizi relativi alla ripartizione delle spese per le cose ed i servizi collettivi promossi dal condomino dissenziente dalla relativa deliberazione assembleare discende dal fatto che la controversia ha per oggetto un interesse comune dei condomini, ancorché in opposizione all’interesse particolare di uno di essi (Cass. Sez. 2, 11/08/1990, n. 8198).

Da ciò consegue che, nelle controversie concernenti impugnativa ex art. 1137 c.c. delle deliberazioni dell’assemblea relative alla ripartizione delle spese per le cose e per i servizi comuni, nelle quali è unico legittimato passivo l’amministratore di condominio, non è ammissibile il gravame avanzato dal singolo condomino avverso la sentenza che abbia visto soccombente il condominio.

Il potere di impugnazione del singolo condomino va, infatti, riconosciuto nelle controversie aventi ad oggetto azioni reali, incidenti sul diritto pro quota o esclusivo di ciascun condomino, o anche nelle azioni personali, ma se incidenti in maniera immediata e diretta sui diritti di ciascun partecipante.

Mentre (secondo l’orientamento del tutto prevalente di questa Corte, che il collegio intende qui ribadire) non va consentita l’impugnazione individuale relativamente alle controversie aventi ad oggetto non i diritti su di un bene o un servizio comune, bensì la gestione di esso, intese, dunque, a soddisfare esigenze soltanto collettive della comunità condominiale, nelle quali non v’è correlazione immediata con l’interesse esclusivo d’uno o più condomini, quanto con un interesse direttamente plurimo e solo mediatamente individuale, giacché, nelle cause di quest’ultimo tipo, la legittimazione ad agire e, quindi, anche ad impugnare, spetta in via esclusiva all’amministratore, e la mancata impugnazione della sentenza da parte di quest’ultimo finisce per escludere la possibilità d’impugnazione da parte del singolo condomino (Cass. Sez. 2, 21/09/2011, n. 19223; Cass. Sez. 2, 04/05/2005, n. 9213; Cass. Sez. 2, 03/07/1998, n. 6480; Cass. Sez. 2, 12/03/1994, n. 2393).”

il ricorso è dunque dichiarato inammissibile.

© massimo ginesi 13 dicembre 2017

la nullità della delibera è rilevabile d’ufficio, anche in appello.

Lo afferma Cass.civ. sez. II 27 settembre 2017, n. 22678 Rel. Scarpa in relazione ad una vicenda nata in terra di Sardegna, in cui l’0assembela aveva autorizzato un condomino alla costruzione di una tettoia a copertura del suo posto auto, delibera impugnata da un condomino.

I fatti e il processo: “Nel giudizio di primo grado, svolto dinanzi al Tribunale di Cagliari, S.T. agiva nei confronti del Condominio (omissis) , affinché l’autorità giudiziaria adita accertasse la nullità della delibera condominiale, datata 10 marzo 1992, con la quale il Condominio aveva annullato la delibera adottata in data 22 aprile 1991, che lo autorizzava alla realizzazione di una tettoia (pergolato) nel cortile condominiale da utilizzare quale copertura del posto auto. Il giudice adito, con sentenza n. 1344 del 2008, nella resistenza del condominio che formulava domanda riconvenzionale al fine di ottenere la declaratoria di illegittimità della costruzione realizzata dal S. nonostante il dissenso espresso dall’assemblea, rigettava la domanda attorea e nel contempo accoglieva la domanda riconvenzionale del condominio.
Avverso la menzionata sentenza proponeva appello il medesimo S. che impugnava la decisione del giudice di prime cure sostenendo la tesi dell’illegittimità della condizione apposta alla delibera iniziale, ossia l’assenso dell’Istituto Autonomo per le case popolari, proprietario di oltre un terzo dell’edificio, e l’assenza di modifiche nella destinazione dell’area, la Corte di appello di Cagliari, con sentenza n. 307 del 2013, dichiarava inammissibile il gravame, stante la novità delle questioni dedotte con l’atto di appello.”

Il principio di diritto affermato dalla Cassazione: “La questione attinente la nullità della delibera condominiale derivante dalla illiceità della condizione apposta alla delibera del 1991, che subordinava l’autorizzazione alla realizzazione del pergolato al consenso dello I.A.C.P., non può ritenersi nuova ai sensi dell’art. 345 cod. proc. civ. e, quindi, inammissibile, per un duplice ordine di ragioni.

In primo luogo, perché l’allora appellante, oggi ricorrente, non ha “arricchito” con diversi profili la propria originaria domanda, ma si è difeso sulla “nuova” prospettazione adottata con la sentenza che aveva deciso il giudizio.

Deve dunque escludersi la novità della domanda, agli effetti dell’art. 345 c.p.c., risultando la stessa comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio con la citazione introduttiva, e tale, perciò, da non determinare la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, né l’allungamento dei tempi processuali (Cass. Sez. U, Sentenza n. 12310 del 15/06/2015).

Nello stesso senso si è di recente chiarito che: “Il divieto di proporre domande nuove in appello implica che è preclusa la facoltà di avanzare pretese che involgano la trasformazione obiettiva del contenuto intrinseco della domanda proposta in primo grado, ma non quella di prospettare rilievi che importino una diversa qualificazione giuridica del rapporto e l’applicazione di una norma di diritto non invocata in primo grado, tanto più quando la nuova ragione giuridica dedotta in sede di gravame derivi da una norma di legge che il giudice è tenuto ad applicare” (Sez. 2 -, n. 6854 del 2017).

La seconda ragione di fondatezza del ricorso risiede nel fatto che il ricorrente, con l’appello, ha prospettato un presunto ulteriore vizio di nullità della delibera condominiale, rispetto a quelli fatti valere con la domanda introduttiva del giudizio di primo grado.

In relazione ai motivi di nullità delle delibere condominiali deve richiamarsi l’orientamento di questa Corte secondo cui: “Alle deliberazioni prese dall’assemblea condominiale si applica il principio dettato in materia di contratti dall’art. 1421 cod. civ., secondo cui è attribuito al giudice il potere di rilevarne d’ufficio la nullità” Sez. 2, n. 12582 del 2015 (Rv. 635891).

Ne consegue che, anche in relazione alla nullità delle delibere condominiali, deve trovare applicazione il principio affermato in materia contrattuale, secondo cui: “La domanda di accertamento della nullità di un negozio proposta, per la prima volta, in appello è inammissibile ex art. 345, primo comma, cod. proc. civ., salva la possibilità per il giudice del gravame – obbligato comunque a rilevare di ufficio ogni possibile causa di nullità, ferma la sua necessaria indicazione alle parti ai sensi dell’art. 101, secondo comma, cod. proc. civ. – di convertirla ed esaminarla come eccezione di nullità legittimamente formulata dall’appellante, giusta il secondo comma del citato art. 345” Sez. U, n. 26243 del 2014 (Rv.633566).

Alla luce di quanto esposto la Corte d’Appello di Cagliari ha errato nel dichiarare domanda nuova quella esposta con il motivo di appello relativo alla dedotta nullità della delibera condominiale del 1992 per l’illiceità della condizione, motivo che, invece, andava esaminato nel merito.”

La sentenza è dunque cassata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Cagliari.

© massimo ginesi 2 ottobre 2017 

assegnazione posti auto: poteri dell’assemblea e negozio di accertamento.

La Suprema Corte (Cass.civ. sez. II  31 agosto 2017 n. 20612 rel. Scarpa) affronta un tema assai complesso e di grande rilievo pratico in tema di assegnazione dei posti auto e dei conseguenti poteri dell’assemblea.

La corte osserva, in sintesi, che

  • è potere dell’assemblea regolamentare gli spazi esterni a parcheggio ma che lo stesso organo non ha titolo ad incidere sui diritti dei singoli,
  • l’area cortilizia esterna si presume comune ex art. 1117 cod.civ. salvo che il contrario risulti dal titolo e che è onere che incombe a chi avanzi pretese  esclusive su quell’area provare il proprio diritto,
  • nel giudizio di impugnazione di delibera, che si assume abbia violato quei diritti, l’accertamento svolto sulla loro esistenza ha mero carattere incidentale e strumentale ed è inidoneo a formare giudicato sul punto, posto che legittimato passivo nella impugnazione è l’amministratore del condominio mentre la domanda di accertamento del proprio diritto deve essere svolta nel contraddittorio di tutti i condomini
  • il negozio di mero accertamento  è inidoneo – in assenza di titolo traslativo – a vincere la presunzione di condominialità del bene ex art. 1117 cod.civ. e – tanto meno – può riconoscersi natura di negozio di accertamento alla delibera adottata a maggioranza, poiché il negozio ricognitivo deve vedere l’accordo di tutti gli aventi titolo.
  • la sentenza passata in giudicato che abbia – in sede di impugnativa di delibera – statuito incidentalmente sulla estensione dei diritti dei singoli, al solo fine di accertare la nullità della deliberazione, è inidonea a fare stato sulla esistenza di quei diritti.
  • la mera indicazione contenuta nella tabella millesimale di un bene quale proprietà esclusiva di un condomino non costituisce titolo idoneo a vincere la presunzione di condominialità prevista dall’art. 1117 cod.civ.

Attesa la complessità dei temi e l’interesse e puntualità degli argomenti resi dalla suprema Corte, è comunque opportuno esaminare il testo della pronuncia  per esteso, almeno con riguardo ai punti salienti.

I fatti e il processo: “La Corte d’Appello di Roma ha respinto l’appello formulato da RB., A.P. A. e L. A. contro la sentenza n. 21405/2007 del Tribunale di Roma, la quale aveva rigettato l’impugnazione per nullità o annullabilità, dovuta ad eccesso di potere, della deliberazione assembleare del Condominio di via G. D. 7, Roma, del 27 ottobre 2004, che aveva deciso di “assegnare nei cortili una autovettura per condomino, senza assegnazione specifica in modo precario e senza recare pregiudizio e/o intralcio ai proprietari dei box, ponendo tutti i condomini in condizione di esercitare la facoltà concessa dandone esecuzione”. Gli attori avevano sostenuto che tale delibera ledesse il loro diritto di proprietà e di uso esclusivo delle rampe carrabili che conducevano ai box, diritto già accertato da precedenti sentenze del Tribunale e della Corte d’Appello di Roma, nonché riconosciuto da un’anteriore deliberazione dell’assemblea del Condominio di via G. D. 7, approvata il 5 dicembre 1990 da otto condomini, e perciò in assenza dei soli due proprietari dei box, e da qualificare come negozio di accertamento.”

I principi di diritto affermati dal giudice di legittimità:

DELIBERA E NEGOZIO DI ACCERTAMENTO –  “Questa Corte, invero, ha più volte ribadito che la delibera dell’assemblea condominiale che assegna i singoli posti auto ricavati nell’area cortiliva comune, senza però attribuire agli assegnatari il possesso esclusivo della porzione loro assegnata, è validamente approvata a maggioranza, non essendo all’uopo necessaria l’unanimità dei consensi, in quanto essa disciplina le modalità di uso del bene comune, e si limita a renderne più ordinato e razionale il godimento paritario (Cass. Sez. 2, 31/03/2015, n. 6573; Cass. Sez. 2, 19/07/2012, n. 12485; Cass. Sez. 2, 15/06/2012, n. 9877; Cass. Sez. 2, 22/01/2004, n. 1004).

Diversamente, peraltro, l’assemblea di condominio non può adottare delibere che, nel predeterminare ed assegnare le aree destinate a parcheggio delle automobili, incidano sui diritti individuali di proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, dovendosi tali delibere qualificare nulle (Cass. Sez. U, 07/03/2005, n. 4806).

Deve ulteriormente partirsi dalla premessa (ancora di recente ribadita dalla giurisprudenza di questa Corte: Cass. Sez. 6 – 2, 08/03/2017, n. 5831) che l’area esterna di un edificio condominiale, della quale manchi un’espressa riserva di proprietà nel titolo originario di costituzione del condominio e sia stato omesso qualsiasi riferimento nei singoli atti di trasferimento delle unità immobiliari, va ritenuta di presunta natura condominiale, ai sensi dell’art. 1117 c.c.

Sicchè, il condomino che impugni una deliberazione dell’assemblea, la quale abbia individuato ed assegnato gli spazi da adibire a parcheggio delle autovetture condominiali, deducendo che tale assegnazione abbia comportato un’indebita ingerenza in aree del cortile antistante il fabbricato di sua proprietà esclusiva, deve dimostrarne il relativo titolo costitutivo, in modo da superare la presunzione di attribuzione di cui all’art. 1117 c.c.

Poiché, però, la legittimazione passiva nelle cause promosse da uno dei condomini per impugnare le deliberazioni assembleari spetta all’amministratore del condominio (rientrando il compito di difendere la validità delle deliberazioni dell’assemblea dei condomini nel compito di eseguire le stesse, ex art. 1130, n. 1, c.c., per il cui espletamento nel successivo art. 1131 è riconosciuta all’aministratore la rappresentanza in giudizio del condominio), va sempre considerato che esula dai limiti della legittimazione passiva dell’amministratore medesimo una domanda che sia volta ad ottenere l’accertamento della proprietà esclusiva di un singolo su un bene altrimenti compreso fra le parti comuni ex art. 1117 c.c., imponendo una tale domanda il contraddittorio processuale di tutti i restanti condomini (cfr. da ultimo Cass. Sez. 6 – 2, 15/03/2017, n. 6649).

Ne consegue che, nel giudizio di impugnazione di deliberazione dell’assemblea, ai sensi dell’art. 1137 c.c., per il quale all’amministratore di condominio spetta la legittimazione passiva, l’eventuale allegazione della proprietà esclusiva di un bene, sul quale l’impugnata delibera abbia inciso, può essere oggetto di accertamento di carattere meramente incidentale, funzionale alla decisione della causa sulla validità dell’atto collegiale, ma privo di efficacia di giudicato in ordine all’estensione dei diritti reali dei singoli.

Ora, il primo ed il secondo motivo del ricorso di R. B. ed il primo ed il secondo motivo del ricorso di A.P. A. e L. A. intendono che, a dimostrazione della loro proprietà esclusiva sulle rampe di accesso ai garages, si prestasse la delibera del Condominio di via G. D.7 adottata in data 5 dicembre 1990, valendo questa quale negozio di accertamento o come confessione, facente prova legale.

Tali censure sono infondate per le seguenti ragioni. L’art. 1117 c.c. attribuisce ai titolari delle singole unità immobiliari dell’edificio la comproprietà di beni, impianti e servizi – indicati espressamente o per relationem – in estrinsecazione del principio “accessorium sequitur principale”, per propagazione ad essi dell’effetto del trasferimento delle proprietà solitarie, sul presupposto del collegamento strumentale, materiale o funzionale, con queste, se manca o non dispone diversamente il relativo titolo traslativo (cfr. ad esempio, Cass. Sez. 2, 15/06/1998, n. 5948).

Secondo principi generali, ai fini dell’acquisto a titolo derivativo della proprietà di un bene immobile, non è mai da ritenersi idoneo un negozio di mero accertamento, il quale può eliminare incertezze sulla situazione giuridica, ma non sostituire il titolo costitutivo, essendo necessario, invece, un contratto con forma scritta dal quale risulti la volontà attuale delle parti di determinare l’effetto traslativo, sicché è pure irrilevante che una delle parti, anche in forma scritta, faccia riferimento ad un precedente rapporto qualora questo non sia documentato (Cass. Sez. 2, 11/04/2016, n. 7055; Cass. Sez. 3, 18/06/2003, n. 9687).

Ciò significa che, già in astratto, un negozio di accertamento non può rilevare come titolo traslativo contrario all’operatività della presunzione di condominio ex art. 1117 c.c.  E’ poi in ogni caso da negare che la deliberazione 5 dicembre 1990 del Condominio di via G.D. 7 possa valere come negozio di accertamento o come confessione stragiudiziale.

Una deliberazione dell’assemblea dei condomini non può accertare l’estensione dei diritti di proprietà esclusiva dei singoli in deroga alla presunzione di condominialità delle parti comuni posta dall’art. 1117 c.c., ciò richiedendo l’accordo di tutti i condomini (come ha spiegato pure la Corte d’Appello di Roma, rilevando l’assenza di alcuni partecipanti alla riunione del 5 dicembre 1990).

Questa Corte ha proprio affermato che non rientra nei poteri dell’assemblea condominiale la deliberazione che determini a maggioranza l’ambito dei beni comuni e delle proprietà esclusive, potendo ciascun condomino interessato far valere la conseguente nullità senza essere tenuto all’osservanza del termine di decadenza di cui all’art. 1137 c.c. (Cass. Sez. 2, 20/03/2015, n. 5657).

Né la dichiarazione di scienza contenuta in un verbale di assemblea condominiale, qualora comporti, come si assume nel caso di specie, il riconoscimento della proprietà esclusiva di alcuni beni in favore di determinati condomini, può avere l’efficacia di una confessione stragiudiziale, quanto meno attribuibile ai condomini presenti all’assemblea, non rientrando, ai sensi dell’art. 1135 c.c., nei poteri dell’assemblea, come visto, quello di stabilire l’estensione dei beni comuni e delle proprietà esclusive (Cass. Sez. 2, 09/11/2009, n. 23687).

IL REGOLAMENTO DI CONDOMINIO – “Il quinto motivo del ricorso di R.B. e il terzo motivo del ricorso censurano poi l’interpretazione degli artt. 1 e 6, lett. E, del regolamento condominiale, fatta dalla Corte d’Appello, potendosi da tali clausole trarre la prova, a dire dei ricorrenti, della loro proprietà delle rampe carrabili.

Ora, questa Corte ha spesso affermato in passato che il regolamento di condominio, che, come nella specie, individui i beni comuni ai fini della ripartizione delle spese tra i condomini, o includa un bene nelle tabelle millesimali come proprietà esclusiva di un condomino, non costituisce un titolo di proprietà, agli effetti dell’art. 1117 c.c. (Cass. Sez. 2, 21/05/2012, n. 8012; Cass. Sez. 3, 13/03/2009, n. 6175; Cass. Sez. 2, 23/08/2007, n. 17928; Cass. Sez. 2, 18/04/2002, n. 5633).

IL GIUDICATO DERIVANTE DA PRECEDENTI SENTENZE  – Il sesto motivo del ricorso di R. B. adduce che la deliberazione assembleare del 27 ottobre 1994 contrastasse col giudicato contenuto nelle sentenze n. 3425/2004 della Corte d’Appello di Roma e n. 8309/2001 del Tribunale di Roma, che, in relazione ad un precedente giudizio di impugnazione ex art. 1137 c.c., avevano accertato i diritti reali esclusivi spettanti ai titolari dei box.

Al riguardo, la Corte d’Appello ha tuttavia evidenziato come queste sentenze, nel rigettare l’impugnazione avanzata dalla Società I. E. L. contro la deliberazione assembleare del 28 luglio 1999, non avevano accertato con efficacia di giudicato i presunti diritti reali spettanti in via esclusiva ai titolari dei box, ma solo verificato la compatibilità del contenuto di quella delibera con i diritti vantati dalla società.

Questa interpretazione è corretta, in quanto, come già affermato in precedenza, la sentenza resa all’esito di un giudizio di impugnazione di una deliberazione dell’assemblea, ai sensi dell’art. 1137 c.c., svoltosi nei confronti dell’amministratore di condominio, può contenere un’accertamento meramente incidentale in ordine alla sussistenza, o meno, della proprietà esclusiva di un bene, sul quale l’impugnata delibera abbia inciso, senza rivestire efficacia di giudicato in ordine all’estensione dei diritti reali dei singoli, in quanto enunciazione soltanto strumentale alla decisione sulla validità della delibera.

Può pure aggiungersi che se le sentenze n. 3425/2004 della Corte d’Appello di Roma e n. 8309/2001 del Tribunale di Roma, rivestissero quell’autorità di giudicato sulla proprietà delle rampe che il B. vi scorge, non avrebbe senso la proposizione di nuovo giudizio tendente ad un identico accertamento, giudizio culminato nella sentenza di primo grado del 19 maggio 2011, sulla quale si fondano poi il terzo ed il quarto motivo di ricorso.”

© massimo ginesi 1 settembre 2017 

 

il giudice non può entrare nel merito delle scelte discrezionali della assemblea condominiale.

La Cassazione, con una delle numerose ordinanze estive di questo 2017 (Cass.civ. sez. II  17 agosto 2017 n. 20135 rel. Scarpa), conferma un proprio orientamento consolidato sui poteri della assemblea condominiale e sui limiti del sindacato dell’Autorità Giudiziaria sulle scelte amministrative dell’organo collegiale condominiale.

I ricorrenti censurano una sentenza della Corte di Appello di Cagliari che aveva respinto le loro doglianze contro le scelte effettuate dal condominio: “I condomini attori avevano dedotto a sostegno dell’impugnazione ex art. 1137 c.c. che le spese approvate con detta delibera erano eccessive, indeterminate ed inverosimili (in particolare, quanto al compenso da corrispondere all’amministratore ed al rimborso delle spese anticipate dallo stesso, alla somma corrisposta al custode M. P., pari ad €  27.500,00, agli importi erogati per l’ICI e l’assicurazione, e a titolo di spese legali).”

Osserva il giudice di legittimità che: “Come correttamente affermato dalla Corte d’Appello, sulle delibere delle assemblee di condominio degli edifici il sindacato dell’autorità giudiziaria non può estendersi alla valutazione del merito ed al controllo della discrezionalità di cui dispone l’assemblea quale organo sovrano della volontà dei condomini, ma deve limitarsi al riscontro della legittimità che, oltre ad avere riguardo alle norme di legge o del regolamento condominiale, può abbracciare anche l’eccesso di potere, ma solo quando la causa della deliberazione risulti – sulla base di apprezzamento di fatto del contenuto di essa che spetta ai giudici del merito – falsamente deviata dal suo modo di essere, in quanto anche in tal caso lo strumento di cui all’art. 1137 c.c. non è finalizzato a controllare l’opportunità o convenienza della soluzione adottata dall’impugnata delibera, ma solo a stabilire se la decisione collegiale sia, o meno, il risultato del legittimo esercizio del potere dell’assemblea.

Esulano, quindi, dall’ambito del sindacato giudiziale sulle deliberazioni condominiali le censure inerenti la vantaggiosità della scelta operata dall’assemblea sui costi da sostenere nella gestione delle spese relative alle cose ed ai servizi comuni (Cass. Sez. 2, 20/06/2012, n. 10199; Cass. Sez. 2, 20/04/2001, n. 5889; Cass. Sez. 2, 26/04/1994, n. 3938; Cass. Sez. 2, 09/07/1971, n. 2217).

Indicativamente, l’erogazione del compenso all’amministratore, la stipula di un contratto d’assicurazione del fabbricato, la corresponsione della retribuzione a chi sia incaricato della custodia dell’edificio, la predisposizione di un fondo – cassa per le spese legali, danno luogo a scelte gestorie tutte, in astratto, rientranti nel potere discrezionale dell’assemblea e non dirette a perseguire finalità extracondonniniali, di tal che a tale potere deliberativo dell’assemblea del condominio, da esercitare nelle forme e con le maggioranze prescritte, fa riscontro l’obbligo di ciascun condomino di contribuire alle relative spese.”

© massimo ginesi 29 agosto 2017 

se si chiude il verbale, l’assemblea è terminata e non si può deliberare.

Cass.civ. sez. II  26 luglio 2017 n. 18569 affronta un caso peculiare: a causa della ingovernabilità della riunione, l’amministratore – che plausibilmente svolgeva anche funzioni di segretario  – ad un certo punto chiude il verbale e si allontana, insieme ad alcuni condomini, portando con sè il libro dei verbali.

I soggetti rimasti, verificato che raggiungono comunque le maggioranze necessarie a deliberare in seconda convocazione, aprono nuovo verbale e deliberano su alcuni punti all’ordine del giorno.

Il Tribunale di Verona aveva considerato valida la delibera successiva, mentre la Corte di appello di Venezia, in riforma della sentenza di primo grado, aveva ritenuto che tale delibera fosse invalida, sull’assunto che essendo stato chiuso il verbale ed essendo diversa la composizione dell’assise, non potesse questa considerarsi mera prosecuzione della prima ma avrebbe richiesto una nuova convocazione, con verifica delle maggioranze necessarie alla costituzione in prima e seconda convocazione.

Osserva il giudice di legittimità, nel rigettare il ricorso che: “Si deve rilevare che la corte di merito, una volta ritenuto che la seduta ulteriore non rappresentasse una mera prosecuzione della precedente, è inevitabilmente pervenuta alla conclusione che la successiva dovesse essere considerata una nuova assemblea e che, per l’effetto, occorresse una nuova convocazione di tutti i condomini (ivi compresi coloro che si erano allontanati) e dovessero essere osservati i quorum costitutivi e deliberativi prescritti per la prima convocazione. Anche in tal guisa la sentenza impugnata non incorre in alcuna violazione dell’articolo 1136 cod.civ. “

© massimo ginesi 31 luglio 2017

il vizio di convocazione può essere fatto valere solo dall’interessato.

La suprema corte (Cass.civ. sez. VI 22 giugno 2017 15550 rel. Scarpa)  riafferma un principio consolidato, con una motivazione di pregio, che consente un ottimo inquadramento della materia.

Legittimato ad impugnare la delibera per vizio di convocazione è solo il condomino che assuma di non essere stato ritualmente convocato, atteso che tale fatto da luogo ad annullabilità e non a nullità.

La sentenza riafferma anche atro principio noto: la domanda volta all’accertamento di un autonomo condominio relativo ai box va posta nei conforti dei condomini interessati – comportando litisconsorzio necessario – e non dell’amministratore.

Ora, è noto come l’art. 66, comma 3, disp. att. c.c., a seguito della riformulazione operatane dalla legge n. 220/2012 (nella specie, non applicabile ratione temporis) precisa che, in caso di avviso omesso, tardivo o incompleto degli aventi diritto, la deliberazione adottata è annullabile, ma su istanza (soltanto) dei dissenzienti o assenti perché non ritualmente convocati.

La Riforma del 2012 ha così tratto le necessarie conseguenze sotto il profilo processuale dalla sistemazione della fattispecie dell’omessa convocazione nell’ambito dei rimedi sostanziali operata da Cass. Sez. U, Sentenza n. 4806 del 07/03/2005.

Una volta condiviso il principio per cui la mancata comunicazione a taluno dei condomini dell’avviso di convocazione dell’assemblea condominiale, in quanto vizio procedimentale, comporti non la nullità, ma l’annullabilità della delibera condominiale, è inevitabile concludere che la legittimazione a domandare il relativo annullamento spetti, ai sensi degli artt. 1441 e 1324 c.c., unicamente al singolo avente diritto pretermesso.

L’interesse del condomino che faccia valere un vizio di annullabilità, e non di nullità, di una deliberazione dell’assemblea, non può, infatti, ridursi al mero interesse alla rimozione dell’atto, ovvero ad un’astratta pretesa di sua assoluta conformità al modello legale, ma deve essere espressione di una sua posizione qualificata, diretta ad eliminare la situazione di obiettiva incertezza che quella delibera genera quanto all’esistenza dei diritti e degli obblighi da essa derivanti: la delibera assembleare è annullabile sulla base del giudizio riservato al soggetto privato portatore di quella particolare esigenza di funzionalità dell’atto collegiale tutelata con la predisposta invalidità, esigenza che si muove al di fuori del complessivo rapporto atto-ordinamento.

Da tali premesse, a confutazione delle doglianze contenute nel ricorso, richiamando l’orientamento già proprio di questa Corte, deve affermarsi che: “il condomino regolarmente convocato non può impugnare la delibera per difetto di convocazione di altro condomino, trattandosi di vizio che inerisce all’altrui sfera giuridica, come conferma l’interpretazione evolutiva fondata sull’art. 66, comma 3, disp. att. c.c., modificato dall’art. 20 della legge 11 dicembre 2012, n. 220” (Cass. Sez. 2, 23/11/2016, n. 23903; Cass. Sez. 2, 18/04/2014, n. 9082; Cass. Sez. 2, 13/05/2014, n. 10338).

L’infondatezza del ricorso è ancor più palese ove si consideri che non potesse comunque essere oggetto del giudizio di impugnazione della deliberazione asssembleare, ai sensi dell’art. 1137 c.c., l’agitata questione dell’accertamento dell’esistenza di un “condominio autonomo” con riferimento alle distinte unità immobiliare realizzate nel piano interrato e destinate ad autorimesse, trattandosi di domanda rivolta nei confronti dell’amministratore, e che avrebbe, piuttosto, imposto il litisconsorzio necessario di tutti quei singoli condomini (Cass. Sez. 2, 18/04/2003, n. 6328; Cass. Sez. 2, 01/04/1999, n. 3119).”

© massimo ginesi 27 giugno 2017 

nell’impugnativa di delibera il giudice deve pronunciarsi su tutti i vizi indicati dall’attore.

Nel procedimento che riguarda l’impugnazione di una delibera condominiale il principio della ragione più liquida, in forza del quale il giudice può decidere sulla base di un motivo assorbente, parrebbe non potersi applicare in maniera piana.

Lo ha stabilito la Suprema Corte ( Corte di Cassazione, sez. II Civile,  14 giugno 2017, n. 14806) specificando che se un condomino, impugnando una delibera assembleare, denuncia una pluralità di vizi che ne possono determinare l’invalidità, propone contestualmente una pluralità di domande giudiziali, con in comune il petitum (la declaratoria di nullità e/o la pronuncia di annullamento della deliberazione assembleare) ma con distinte causae petendi, corrispondenti a ciascuno dei vizi dedotti (cfr. Cass. n. 2758/2012, in materia di impugnazione di delibera di assemblea societaria).
L’omissione di pronuncia perpetrata, in violazione dell’art. 112 c.p.c., dalla corte d’appello impone, quindi, la cassazione della sentenza impugnata, in relazione ai motivi esposti, con rinvio della causa alla medesima corte, in differente composizione.”

Nell’occasione la Corte ha anche ribadito l’orientamento secondo il quale  legittimati proporre appello nella sentenza resa contro il condominio sono anche i singoli condomini: “Il collegio ritiene di dar seguito, sul punto, a quanto, di recente, affermato da questa Sezione, vale a dire che “… essendo il Condominio un ente di gestione sfornito di personalità distinta da quella dei suoi partecipanti, l’esistenza dell’organo rappresentativo unitario non priva i singoli condomini del potere di agire a difesa di diritti connessi alla detta partecipazione, né, quindi, del potere di intervenire nel giudizio per il quale tale difesa sia stata legittimamente assunta dall’amministratore e di avvalersi dei mezzi d’impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunziata nei confronti dell’amministratore stesso che non l’abbia impugnata” (Cass. n. 16562/2015; in senso conf., Cass. n. 10717/2011; Cass. n. 14765/2012; Cass. n. 12588/2002; Cass. n. 9206/2006; Cass. n. 13716/1999; Cass. n. 2392/1994).

© massimo ginesi 19 giugno 2017

dissenziente e impugnazione della delibera: un problema di prova.

La delibera annullabile ex art. 1137 cod.civ. è impugnabile solo dal condomino assente o dissenziente. Ove dal verbale non risulti tale sua posizione, costituisce suo onere  darne prova, ai fini di dimostrare la sussistenza del requisito  soggettivo che legittima l’azione.

Il verbale fa stato solo delle dichiarazioni provenienti da coloro che l’hanno sottoscritto e pertanto è ammessa la dimostrazione con ogni mezzo di fatti diversi da quelli in esso riportati.

Lo afferma Cass. civ. sez. VI-2 9 maggio 2017 n. 13757 rel. Scarpa, con illuminante e lucidissima motivazione.

L’art. 1137, comma 2, c.c. ammette, del resto, l’impugnazione della delibera assembleare soltanto da parte dell’assente, del dissenziente e dell’astenuto; pertanto, il condomino presente che abbia partecipato all’assemblea non può impugnare la deliberazione, se non è dissenziente (o non si sia astenuto) proprio in ordine alla deliberazione che impugna. Il dissenso dell’impugnante rispetto alla deliberazione deve essere provato ed incombe sullo stesso l’onere della relativa prova (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3060 del 05/09/1969; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1079 del 16/04/1973)”

Il verbale di un’assemblea condominiale ha natura di scrittura privata, sicchè il valore di prova legale del verbale di assemblea condominiale, munito di sottoscrizione del presidente e del segretario, è limitato alla provenienza delle dichiarazioni dai sottoscrittori e non si estende al contenuto della scrittura, e, per impugnare la veridicità di quanto risulta dal verbale, non occorre che sia proposta querela di falso, potendosi, invece, far ricorso ad ogni mezzo di prova (arg. da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 747 del 15/03/1973)”.

Incombe, tuttavia, sul condomino che impugni la delibera assembleare l’onere di sovvertire la presunzione di verità di quanto risulta dal relativo verbale (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 23903 del 23/11/2016). La ricorrente non fa riferimento in ricorso ad alcuna sua specifica deduzione istruttoria volta a sovvertire la risultanza del verbale che riportava l’approvazione senza dissensi della delibera. Col secondo motivo, si allega soltanto l’omesso esame non di un fatto storico, ma di un elemento istruttorio (il CD rom audio della riunione), peraltro prospettandone una valenza non decisiva, in quanto da esso si trarrebbe pur sempre che non vi fu “votazione”, il che contrasta col dato documentale che registrava l’approvazione della delibera, e comunque non varrebbe a giustificare la mancata espressione sia pur soltanto di un dissenso preventivo nell’ambito delle discussioni preliminari da parte del rappresentante in assemblea della B.S.D. s.r.l.”