sulla ricorribilità del reclamo che decide sulla revoca dell’amministratore

La Suprema Corte (Cass. civ. sez. VI- 2, ord. 18 marzo 2019, n. 7623 rel. Scarpa) torna su un tema pacifico, ovvero la non ricorribilità per cassazione del provvedimento della corte di Appello che statuisce sul reclamo in ordine alla revoca dell’amministratore, se non per il capo che attiene alla eventuale condanna alle spese. 

Nel caso di specie un condomino impugna il decreto con cui la Corte d’Appello di Roma, “pronunciando sulla richiesta di modifica o revoca di precedente decreto della medesima Corte d’Appello, avente ad oggetto il rigetto della domanda di revoca giudiziale di R.G. dall’incarico di amministratore del Condominio di (omissis) , ha evidenziato come l’istanza deducesse anche nuove cause di “gravi irregolarità” non poste alla base dell’iniziale domanda, e come, comunque, ai sensi dell’art. 739 c.p.c., u.c., non potesse ammettersi un reclamo o un riesame contro i decreti già pronunciati in sede di reclamo.”

La corte di legittimità  non introduce principi nuovi, ma l’eccellente relatore traccia un quadro chiarissimo e completo della disciplina vigente, sia in tema di impugnazione che di applicabilità al rito camerale del principio della soccombenza; la motivazione merita dunque integrale lettura: “Secondo consolidato orientamento di questa Corte, è inammissibile il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., avverso il decreto con il quale la corte di appello provvede sul reclamo avverso il decreto del tribunale in tema di revoca dell’amministratore di condominio, previsto dagli art. 1129 c.c. e art. 64 disp. att. c.c., trattandosi di provvedimento di volontaria giurisdizione; tale ricorso è, invece, ammissibile soltanto avverso la statuizione relativa alla condanna al pagamento delle spese del procedimento, concernendo posizioni giuridiche soggettive di debito e credito discendenti da un rapporto obbligatorio autonomo (Cass. Sez. 6 – 2, 11/04/2017, n. 9348; Cass. Sez. 6 – 2, 27/02/2012, n. 2986; Cass. Sez. 6 – 2, 01/07/2011, n. 14524; Cass. Sez. U, 29/10/2004, n. 20957).

Non sono dunque ammissibili avverso il decreto in tema di revoca dell’amministratore di condominio le censure proposte sotto forma di vizi in iudicando o in procedendo, dirette a rimettere di discussione la sussistenza, o meno, delle gravi irregolarità ex art. 1129 c.c., comma 12, ovvero la valutazione dei presupposti legittimanti la statuizione di cessazione della materia del contendere, o, ancora, l’omesso esame di elementi istruttori che avrebbero diversamente potuto determinare il giudice del merito nella declaratoria della soccombenza virtuale (cfr. in termini Cass. Sez. 2, 06/05/2005, n. 9516).

Va allora ribadito come il procedimento di revoca dell’amministratore di condominio si svolge in camera di consiglio, si conclude con decreto reclamabile alla corte d’appello (art. 64 disp. att. c.p.c.), e si struttura, pertanto, come giudizio camerale plurilaterale tipico, che culmina in un provvedimento privo di efficacia decisoria, siccome non incidente su situazioni sostanziali di diritti o “status” (cfr. Cass. Sez. 6-2, 23/06/2017, n. 15706; Cass. Sez. U, 29/10/2004, n. 20957).

Ne consegue che il decreto con cui la corte d’appello provvede, su reclamo dell’interessato, in ordine alla domanda di revoca dell’amministratore di condominio, non avendo carattere decisorio e definitivo, non è, come detto, ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., mentre può essere revocato o modificato dalla stessa corte d’appello, per un preesistente vizio di legittimità o per un ripensamento sulle ragioni che indussero ad adottarlo (restando attribuita al tribunale, giudice di primo grado, la competenza a disporre la revisione del provvedimento emesso in sede di reclamo, sulla base di fatti sopravvenuti: cfr. Cass. Sez. 1, 01/03/1983, n. 1540), ai sensi dell’art. 742 c.p.c., atteso che quest’ultima disposizione si riferisce, appunto, unicamente ai provvedimenti camerali privi dei caratteri di decisorietà e definitività (cfr. Cass. Sez. 1, 06/11/2006, n. 23673).

Il decreto con cui la Corte d’Appello dichiari inammissibile l’istanza di modifica o revoca, ex art. 742 c.p.c., del decreto pronunciato in sede di reclamo sul provvedimento di revoca dell’amministratore di condominio comunque non costituisce “sentenza”, ai fini ed agli effetti di cui all’art. 111 Cost., comma 7, essendo sprovvisto dei richiesti caratteri della definitività e decisorietà, in quanto non contiene alcun giudizio in merito ai fatti controversi, non pregiudica il diritto del condomino ad una corretta gestione dell’amministrazione condominiale, nè il diritto dell’amministratore allo svolgimento del suo incarico. Trattasi, dunque, di provvedimento non suscettibile di acquisire forza di giudicato, atteso che la pronuncia di inammissibilità resta pur sempre inserita in un provvedimento non decisorio sul rapporto sostanziale, e non può pertanto costituire autonomo oggetto di impugnazione per cassazione, avendo la pronuncia sull’osservanza delle norme processuali necessariamente la medesima natura dell’atto giurisdizionale cui il processo è preordinato (arg. da Cass. Sez. 1, 05/02/2008, n. 2756; Cass. Sez. 1, 01/02/2016, n. 1873; Cass. Sez. 6-1, 07/07/2011, n. 15070; Cass. Sez. 6-2, 18/01/2018, n. 1237, non massimata).

È poi infondato il secondo motivo di ricorso, che censura la condanna al pagamento delle spese, ritenendola non dovuta nel provvedimento con cui la Corte d’appello decida, come nella specie, sull’istanza di modifica o revoca del decreto in tema di revoca di un amministratore di condominio. Il secondo motivo, avendo ad oggetto esclusivamente la statuizione relativa alle spese processuali, va, invero, ritenuto ammissibile, come già detto, risultando irrilevante che essa acceda ad un provvedimento avente natura, formale, e sostanziale, di volontaria giurisdizione, non ricorribile, in quanto tale, per cassazione. Nel merito, tuttavia, la statuizione impugnata, giacché conforme al criterio della soccombenza indicato come normale dall’art. 91 c.p.c., risulta corretta. Cass. Sez. U, 29/10/2004, n. 20957, seguita dalla costante interpretazione giurisprudenziale, ha espressamente affrontato e risolto affermativamente la questione dell’applicabilità dell’art. 91 c.p.c., al procedimento camerale azionato in base all’art. 1129 c.c., comma 11, ed all’art. 64 disp. att. c.p.c., chiarendo come il principio di soccombenza si riferisca ad ogni processo, senza distinzioni di natura e di rito, e come il termine “sentenza” sia usato dall’art. 91 c.p.c., nell’accezione di provvedimento che, nel risolvere contrapposte posizioni, chiude il procedimento stesso innanzi al giudice che lo emette, accezione perciò comprensiva delle ipotesi in cui tale provvedimento sia emesso nella forma dell’ordinanza o del decreto (si veda Cass. Sez. 2, 22/10/2013, n. 23955).

Agli effetti del regolamento delle spese processuali la soccombenza può poi ben essere determinata, anziché da ragioni di merito, da ragioni di carattere processuale tra cui, come nel caso in esame, l’assunta inammissibilità della domanda.

© massimo ginesi 26 marzo 2019