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è nulla la clausola del regolamento che vieta il distacco o che obbliga comunque alle spese di consumo

Lo ha stabilito Cass. civ. Sez. II 12 maggio 2017 n. 11970 rel. Criscuolo.

il regolamento contrattuale che vieti il distacco del singolo dall’impianto centralizzato o che preveda, ove lo consenta, che costui rimanga comunque obbligato a pagare le spese di consumo deve ritenersi nulla per contrarietà a norme inderogabili e superata sia dalla L. 220/2012 che dalla L. 10(1991 e succ. mod.) nonché dalle norme sulla contabilizzazione del calore.

A fronte della sussistenza dei presupposti della assenza di squilibrio e di maggiori consumi dovuto al distacco, il condomino è esonerato ex legge dalle spese di consumo.

Nè può rilevare, in senso impediente, la disposizione eventualmente contraria contenuta nel regolamento di condominio, anche se contrattuale, essendo quest’ultimo contratto atipico meritevole di tutela solo in presenza di un interesse generale dell’ordinamento.

Deve quindi ritenersi che la condivisibile valutazione di nullità della clausola regolamentare impeditivo del distacco del singolo condomino, si estenda anche alla correlata previsione che obblighi il condomino al pagamento delle spese di gestione malgrado il distacco, dovendosi ragionevolmente sostenere che la permanenza di tale obbligazione di fatto assicuri la sopravvivenza della clausola affetta da nullità, impedendo il prodursi di quello che è il principale ed  auspicato beneficio che il condomino intende trarre dalla decisione di distaccarsi dall’impianto comune.”

osserva ancora la Corte: “Valga poi richiamo alla novellata previsione di cui all’articolo 1118 codice civile che, in relazione all’ipotesi che deve reputarsi ricorre anche nel caso di specie, di assenza di squilibrio termico in conseguenza del distacco, prevede l’obbligo di contribuzione alle sole spese di manutenzione straordinaria, conservazione e messa a norma, previsione che riveste chiara portata ricognitiva dello stato della giurisprudenza sul punto.

Inoltre non trascurabile, sempre al fine supportare la soluzione in esame, è il richiamo alle previsioni di cui all’articolo 26 della legge 10 del 1991 ( che al comma 5 prevede che “per l’innovazione relativa all’adozione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore e del conseguente riparto degli oneri  di riscaldamento in base al consumo effettivamente registrato”, l’ assemblea di condominio delibera con le maggioranze previste dal secondo comma dell’articolo 1120 del codice civile”) nonché della legge n.102/2014, che impongono la contabilizzazione dei consumi per ciascuna unità immobiliare e la suddivisione delle spese in base consumi effettivi (articolo 9 comma 5, ancorché la relativa violazione preveda l’irrogazione di una sanzione amministrativa), atteso che emerge un quadro normativo che denota l’intento del legislatore di correlare il pagamento delle spese di riscaldamento l’effettivo consumo, consumo che chiaramente non sussiste nel caso di legittimo distacco.”

Da osservare che la soluzione della corte assume particolare rilevanza e significato laddove giunge a dichiarare la nullità della clausola regolamentare in forza di principi generali dell’ordinamento, pur essendo dichiarato inderogabile dall’art. 138 cod.civ. il solo secondo comma dell’art. 1118 cod.civ.

© massimo ginesi 15 maggio 2017

lastrico solare e art. 1126 cod.civ.: ai fini della spesa non rilevano le parti comuni coperte

 

L’art. 1126 cod.civ. prevede che, ove il lastrico solare sia di proprietà esclusiva, un terzo della spesa per la sua riparazione competa al proprietario e due terzi ai condomini cui il lastrico funge da copertura, quindi a coloro le cui unità immobiliari sono poste nella colonna sottostante.

A tal fine rileva unicamente la posizione delle unità poste nella proiezione verticale del lastrico, non avendo alcun rilievo la circostanza che in tale porzione siano ricomprese parti comuni. E’ dunque erronea la sentenza che ha condannato a contribuire alle spese tutti i condomini sull’assunto che il lastrico fungesse da copertura anche alle parti comuni.

Lo ha stabilito Cass. civ. Sez. VI-2 10 maggio 2017 n. 11484 rel Scarpa.

“L’art. 1126 cod.civ., obbligando a partecipare alla spesa relativa alle riparazione del lastrico solare di uso esclusivo, nella misura di due terzi, “tutti i condomini dell’edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve”, si riferisce evidentemente a coloro ai quali appartengono unità immobiliare di proprietà individuale comprese nella proiezione verticale del manufatto da riparare o ricostruire, alle quali, pertanto, esso funge da copertura, con esclusione dei condomini ai cui appartamenti il lastrico solare non sia sovrapposto.

Come meglio ancora spiegato da Cass. civ. sez. II  n. 2821 del 16/7/1976, l’obbligo di partecipare alla riparazione dei cennati due terzi della spesa non deriva, quindi, dalla sola, generica, qualità di partecipante del condominio, ma dall’essere proprietario di un’unità immobiliare compresa nella colonna d’aria sottostante alla terrazza o al lastrico oggetto della riparazione.

Del resto è  pressoché inevitabile che la terrazza a livello o il lastrico di uso esclusivo coprano altresì una o più parti che siano comuni a tutti condomini, e non solo a quelli della rispettiva ala del fabbricato, come ad esempio il suolo su cui sorge l’edificio, la facciata, le fondazioni, ma se bastasse ciò per chiamare a concorrere alle spese del bene di copertura tutti i condomini, l’articolo 1126 c.c. non avrebbe alcuna pratica applicazione.

Giacché, peraltro, l’articolo 1126 c.c. non è compreso tra le disposizioni inderogabili richiamate dall’articolo 1138 c.c., certamente il regolamento del condominio può stabilire la ripartizione delle relative spese in modo pattizio, pure ponendo le stesse a carico di tutti i condomini, ma a tal fine occorre che sia adottata una convenzione espressa di deroga al criterio legale.

© massimo ginesi 11 maggio 2017

dissenziente e impugnazione della delibera: un problema di prova.

La delibera annullabile ex art. 1137 cod.civ. è impugnabile solo dal condomino assente o dissenziente. Ove dal verbale non risulti tale sua posizione, costituisce suo onere  darne prova, ai fini di dimostrare la sussistenza del requisito  soggettivo che legittima l’azione.

Il verbale fa stato solo delle dichiarazioni provenienti da coloro che l’hanno sottoscritto e pertanto è ammessa la dimostrazione con ogni mezzo di fatti diversi da quelli in esso riportati.

Lo afferma Cass. civ. sez. VI-2 9 maggio 2017 n. 13757 rel. Scarpa, con illuminante e lucidissima motivazione.

L’art. 1137, comma 2, c.c. ammette, del resto, l’impugnazione della delibera assembleare soltanto da parte dell’assente, del dissenziente e dell’astenuto; pertanto, il condomino presente che abbia partecipato all’assemblea non può impugnare la deliberazione, se non è dissenziente (o non si sia astenuto) proprio in ordine alla deliberazione che impugna. Il dissenso dell’impugnante rispetto alla deliberazione deve essere provato ed incombe sullo stesso l’onere della relativa prova (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3060 del 05/09/1969; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1079 del 16/04/1973)”

Il verbale di un’assemblea condominiale ha natura di scrittura privata, sicchè il valore di prova legale del verbale di assemblea condominiale, munito di sottoscrizione del presidente e del segretario, è limitato alla provenienza delle dichiarazioni dai sottoscrittori e non si estende al contenuto della scrittura, e, per impugnare la veridicità di quanto risulta dal verbale, non occorre che sia proposta querela di falso, potendosi, invece, far ricorso ad ogni mezzo di prova (arg. da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 747 del 15/03/1973)”.

Incombe, tuttavia, sul condomino che impugni la delibera assembleare l’onere di sovvertire la presunzione di verità di quanto risulta dal relativo verbale (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 23903 del 23/11/2016). La ricorrente non fa riferimento in ricorso ad alcuna sua specifica deduzione istruttoria volta a sovvertire la risultanza del verbale che riportava l’approvazione senza dissensi della delibera. Col secondo motivo, si allega soltanto l’omesso esame non di un fatto storico, ma di un elemento istruttorio (il CD rom audio della riunione), peraltro prospettandone una valenza non decisiva, in quanto da esso si trarrebbe pur sempre che non vi fu “votazione”, il che contrasta col dato documentale che registrava l’approvazione della delibera, e comunque non varrebbe a giustificare la mancata espressione sia pur soltanto di un dissenso preventivo nell’ambito delle discussioni preliminari da parte del rappresentante in assemblea della B.S.D. s.r.l.”

magistratura onoraria: il governo tira dritto, sordo ad ogni istanza.

Approvato ieri, in prima lettura, il secondo decreto attuativo della legge delega per la riforma della magistratura onoraria.

Fra i vari  preoccupanti effetti di tale pessima normativa, vi è quello di devolvere alla competenza del  giudice di pace l’intera materia condominiale.

ASSOCIAZIONE 6 LUGLIO

 

 

IL SOLE 24 ORE

© massimo ginesi 6 maggio 2017

posto auto e vincolo di destinazione

La Cassazione ( Cass. civ. II sez. 3 maggio 2017 n. 10727) ritorna, con una recentissima sentenza, su un tema assai dibattito nelle aule di giustizia, affrontando un aspetto peculiare legato al vincolo di destinazione nei rapporti fra venditore ed acquirente dell’immobile cui il posto auto è vincolato.

La vicenda è peculiare e vede ben due sentenze della Corte di Appello di Roma cui era stata rinviata dalla Suprema Corte all’esito del primo sindacato di legittimità: “X convenne dinanzi al tribunale di Roma la Y S.p.A. chiedendo in via principale che fosse accertato che, con l’atto con cui aveva acquistato in data 22 luglio 1998 dalla convenuta all’immobile sito in (…), le era stato trasferito, quale accessorio e pertinenza, anche il posto auto distinto con la lettera C, ubicato al piano seminterrato dell’edificio o, in alternativa, che la Y spa fosse condannata al relativo trasferimento e, in via subordinata, che fosse disposta la costituzione di un suo diritto reale sul detto  posto auto”

La Corte di legittimità, all’esito del tormentato iter processuale afferma “Il vincolo di destinazione posto dall’articolo 18 della legge 6 agosto 1967 numero 765 e dall’articolo 26 della legge 28 febbraio 1985 numero 47 comporta l’obbligo non già di trasferire la proprietà dell’area destinata a parcheggio insieme alla costruzione, ma quello di non eliminare il vincolo esistente, sicché esso crea  in capo all’acquirente dell’appartamento un diritto reale d’uso sull’area”

Ed ancora “al costruttore (venditore originario) è dovuto un apposito corrispettivo (o una integrazione del prezzo della unità abitativa compravenduta) per il diritto di uso dell’area a parcheggio (ex plurimis Cass. 18179/2010, casi. 10199/2010, Cass. 18691/2007, Cass. 5160/2006).

LA Corte afferma dunque l’ineludibilità del vincolo d’uso dello spazio a parcheggio, destinato a soddisfare le esigenze pubblicistiche legate alla sosta delle auto, ma chiarisce che ove le parti   abbiano espressamente previsto nell’atto di acquisto – come nel caso di specie – il mancato trasferimento del diritto sull’area destinata a parcheggio, la volontà delle stesse dovrà essere integrata dal disposto di legge, con l’obbligo dell’acquirente di versare comunque il corrispettivo anche per il posto auto.

 © massimo ginesi 4 maggio 2017 

approvazione dello stato di ripartizione e decreto ingiuntivo.

La mancata approvazione dello stato di ripartizione non attiene né alla sussistenza del credito né alla possibilità di ottenere decreto ingiuntivo, ma condiziona unicamente la concessione della provvisoria esecutorietà ex art. 63 disp.att. cod.civ.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sez. II Civile,  28 aprile 2017, n. 10621.

“Per il disposto degli artt. 1130 e 1131 cod. civ., l’amministratore del condominio ha la legittimazione ad agire in giudizio nei confronti del condomino moroso per la riscossione dei contributi, senza necessità di autorizzazione da parte dell’assemblea, mentre l’esistenza o meno di uno stato di ripartizione delle spese approvato dall’assemblea rileva soltanto in ordine alla fondatezza della domanda, con riferimento all’onere probatorio a suo carico (Cass. 2452/1994; 14665/1999).
Ed invero, l’obbligo del condomino di pagare al condominio, per la sua quota, le spese per la manutenzione e l’esercizio dei servizi comuni dell’edificio deriva dalla gestione stessa e quindi preesiste all’approvazione da parte dell’assemblea dello stato di ripartizione, che non ha valore costitutivo, ma solo dichiarativo del relativo credito del condominio.

Il verbale di assemblea condominiale, contenente l’indicazione delle spese occorrenti per la conservazione o l’uso delle parti comuni, ovvero, come nel caso di specie, la delibera di approvazione del “preventivo” di spese straordinarie, costituisce dunque prova scritta idonea per ottenere decreto ingiuntivo pur in mancanza dello stato di ripartizione delle medesime, necessario al solo fine di ottenere la clausola di provvisoria esecuzione del provvedimento ai sensi dell’art. 63 disp. Att.c.c.(Cass. 15017/2000).

Deve dunque escludersi che la delibera di approvazione assembleare del piano di ripartizione costituisca un presupposto processuale o una condizione dell’azione, posto che la legittimazione ad agire dell’amministratore per il pagamento della quota condominiale trova fondamento direttamente nelle disposizioni di cui agli artt. 1130 e 1131 c.c..

A seguito dell’opposizione al decreto dunque, si dà luogo ad un giudizio di cognizione ordinaria, con onere, in assenza della delibera di approvazione del piano di riparto, per l’amministratore di provare gli elementi costitutivi del credito nei confronti del condomino anche avuto riguardo ai criteri di ripartizione delle spese relative alle parti comuni dell’edificio e facoltà di quest’ultimo di contestare sussistenza ed ammontare del credito medesimo azionato nei suoi confronti.”

© massimo ginesi 2 maggio 2017

ciascun condomino può agire a tutela delle distanze rispetto al fabbricato condominiale.

Lo afferma, recependo un consolidato orientamento, Corte di Cassazione, sez. II Civile,  26 aprile 2017, n. 10304, rel. Giusti con una pronuncia in cui chiarisce anche che la cotruzione in aderenza no  è ammessa ove non sia espressamente prevista dai regolamenti locali.

La vicenda nasce come una delle classiche liti di vicinato:” PI.Io. , quale procuratrice speciale di PI.Ma.Lu., Z.A., M.G. , D.F.M. , D.F.B. e Pa.An. , premesso di essere proprietari degli appartamenti costituenti l’edificio di via (omissis), convenivano in giudizio davanti al Tribunale di Velletri, sezione distaccata di Anzio, P.E., per sentirlo condannare all’arretramento del terrazzo, costituente copertura dei locali sottostanti, realizzato a ridosso della parte condominiale in violazione della normativa in tema di distanze, oltre al risarcimento del danno.
Si costituiva il convenuto, resistendo e spiegando domanda di condanna degli attori al risarcimento dei danni per lite temeraria.”

Il Tribunale respingeva la domanda degli attori, condannati anche ex art. 96 c.p.c., pronuncia ribaltata in secondo grado dalla Corte di Appello di Roma, che condannava il convenuto all’arretramento della costruzione.

Giunto il giudizio in sede di legittimità, la Corte afferma, quanto alla legittimazione e alla inesistenza idi litisconsortio:

Ciascun condomino è legittimato a ricorrere per la violazione delle distanze fra costruzioni con riguardo all’edificio condominiale, senza che sia necessaria la integrazione del contraddittorio con la chiamata in causa degli altri condomini, trattandosi di azione a tutela del diritto di proprietà dalla quale nessun nocumento può derivare agli altri con titolari (Cass., Sez. II, 11 marzo 1992, n. 2940; Cass., Sez. II, 22 maggio 1995, n. 5612).”

Quanto alle costruzioni in aderenza: “La decisione impugnata è corretta, avendo fatta puntuale applicazione del condiviso principio di diritto, costantemente affermato da questa Corte (Cass., Sez. II, 9 settembre 1998, n. 8945; Cass., Sez. II, 12 settembre 2000, n. 12045), secondo cui, quando, come nel caso in esame, il piano particolareggiato esecutivo prescrive le distanze dal confine, non è consentita – salvo concreta, diversa previsione della norma regolamentare – la costruzione in aderenza, perché dette norme regolamentari sono integrative del codice civile per tutta la loro disciplina, tal che la norma di cui all’art. 873 cod. civ. cede alla norma regolamentare, che, prescrivendo l’osservanza, per le costruzioni, di una determinata distanza dal confine, implica il divieto di costruire in appoggio od in aderenza, in deroga alla disciplina del codice civile.”

Osserva ancora la Corte che la circostanza dirimente in ordine al divieto di costruire in aderenza è che il piano locale preveda una distanza minima dal confine: “Non viene in gioco nella specie il principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte, a composizione di contrasto, con la sentenza 19 maggio 2016, n. 10318, perché nella presente fattispecie il regolamento edilizio locale non si limita a stabilire un distacco minimo fra le costruzioni maggiore rispetto a quello contemplato dall’art. 873 cod. civ., ma prescrive proprio una distanza minima delle costruzioni dal confine.”

Sottolinea infine che tali norme sono inderogabili, come è ovvio, in via negoziale, rimanendo irrilevante che  sia stata comunque rilasciata concessione edilizia: “la Corte d’appello ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui, in tema di distanze legali nelle costruzioni, le prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei regolamenti edilizi comunali, essendo dettate a tutela dell’interesse generale a un prefigurato modello urbanistico, non tollerano deroghe convenzionali da parte dei privati, e tali deroghe, se concordate, sono invalide, né tale invalidità può venire meno per l’avvenuto rilascio di concessione edilizia, poiché il singolo atto non può consentire la violazione dei principi generali dettati, una volta per tutte, con gli indicati strumenti urbanistici (Cass., Sez. II, 23 aprile 2010, n. 9751).”

© massimo ginesi 2 maggio 2017

mediazione ed opposizione a decreto ingiuntivo: un tema complesso e dibattuto.

Il legislatore ha previsto che alcune liti, fra cui le controversie in materia bancaria e quelle in tema di condominio, siano sottoposte a procedimento di medizione obbligatoria, a mente dell D.lgs 28/2010 e succ. mod.

L’esperimento della mediazione costituisce condizione di procedibilità e deve essere attuato su iniziativa delle parti o su ordine del giudice, in difetto  la controversia sarà dichiarata improcedibile.

La ratio dell’istituto è palesemente volta a deflazionare l’enorme carico della giustizia civile, auspicando (con risultati statistici in realtà assai poco  lusinghieri) che le parti possano risolvere il contrasto su basi metagiuridiche e personali – poiché tali sono i presupposti primi della mediazione – prima di arrivare a chiedere tutela giudiziale.

Il procedimento delineato dal D.lgs 28/2010  va in realtà a toccare distretti che attengono alle origini conflittuali e personali che spesso fondano la domanda e, ove condotto da un bravo mediatore, può effettivamente condurre alla risoluzione del conflitto fra le parti e alla rinuncia alle domande che a quel conflitto erano strumentali.

A fronte di tali presupposti appare non priva di fondamento la giurisprudenza sempre più restrittiva che impone la presenza delle parti personalmente al primo incontro, poiché è evidente che la capacità di disporre del diritto e di coinvolgere i distretti emotivi – che spesso sottendono la lite – risulta enormemente affievolita ove all’incontro partecipi un delegato e non la parte.

Vi è però un altro aspetto di grande rilievo e che attiene alla mediazione in  quei procedimenti a contraddittorio differito, quali il decreto ingiuntivo e la successiva eventuale opposizione.

In tal caso l’art. 5 comma 4a del D.lgs 28/2010 prevede che il procedimento di mediazione obbligatoria non si applica “nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione”

Accade quindi che, nella prassi operativa, il Condominio ottenga legittimamente decreto ingiuntivo ex art. 63 disp.att. cod.civ nei confornti del condomino moroso, costui proponga opposizione, alla prima udienza si discuta della eventuale sospensione della esecuzione ex art 649 c.p.c. (fase che ha natura latamente  cautelare) e poi il Giudice, emessi i provvedimenti sulla esecutorietà, rilevi che si tratta di procedimento in cui la mediazione è obbligatoria e rimetta le parti dinanzi al mediatore, affinchè si avveri la condizione di procedibilità.

Ci si è posti il dubbio su  chi debba essere il soggetto onerato di introdurre il procedimento e quali siano gli effetti dell’eventuale inosservanza dell’ordine del giudice: qualora la mediazione non venga esperita si darà luogo alla improcedibilità della sola opposizione o anche alla revoca del decreto ingiuntivo?

Il problema è stato affrontato e risolto da Cassazione civile, sez. III, 03/12/2015,  n. 24629, con una pronuncia che chi scrive trova condivisibile ma – indubitabilmente – unisce considerazioni di natura giuridica a riflessioni di politica giudiziaria: “La disposizione di cui al D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 5, di non facile lettura, deve essere interpretata conformemente alla sua ratio. La norma è stata costruita in funzione deflattiva e, pertanto, va interpretata alla luce del principio costituzionale del ragionevole processo e, dunque, dell’efficienza processuale. In questa prospettiva la norma, attraverso il meccanismo della mediazione obbligatoria, mira – per cosi dire – a rendere il processo la estrema ratio: cioè l’ultima possibilità dopo che le altre possibilità sono risultate precluse. Quindi l’onere di esperire il tentativo di mediazione deve allocarsi presso la parte che ha interesse al processo e ha il potere di iniziare il processo. Nel procedimento per decreto ingiuntivo cui segue l’opposizione, la difficoltà di individuare il portatore dell’onere deriva dal fatto che si verifica una inversione logica tra rapporto sostanziale e rapporto processuale, nel senso che il creditore del rapporto sostanziale diventa l’opposto nel giudizio di opposizione. Questo può portare ad un errato automatismo logico per cui si individua nel titolare del rapporto sostanziale (che normalmente è l’attore nel rapporto processuale) la parte sulla quale grava l’onere. Ma in realtà – avendo come guida il criterio ermeneutico dell’interesse e del potere di introdurre il giudizio di cognizione – la soluzione deve essere quella opposta. Invero, attraverso il decreto ingiuntivo, l’attore ha scelto la linea deflattiva coerente con la logica dell’efficienza processuale e della ragionevole durata del processo. E’ l’opponente che ha il potere e l’interesse ad introdurre il giudizio di merito, cioè la soluzione più dispendiosa, osteggiata dal legislatore. E’ dunque sull’opponente che deve gravare l’onere della mediazione obbligatoria perchè è l’opponente che intende precludere la via breve per percorrere la via lunga. La diversa soluzione sarebbe palesemente irrazionale perchè premierebbe la passività dell’opponente e accrescerebbe gli oneri della parte creditrice. Del resto, non si vede a quale logica di efficienza risponda una interpretazione che accolli al creditore del decreto ingiuntivo l’onere di effettuare il tentativo di mediazione quando ancora non si sa se ci sarà opposizione allo stesso decreto ingiuntivo. E’, dunque, l’opponente ad avere interesse ad avviare il procedimento di mediazione pena il consolidamento degli effetti del decreto ingiuntivo ex art. 653 c.p.c.. Soltanto quando l’opposizione sarà dichiarata procedibile riprenderanno le normali posizioni delle parti: opponente convenuto sostanziale, opposto – attore sostanziale. Ma nella fase precedente sarà il solo opponente, quale unico interessato, ad avere l’onere di introdurre il procedimento di mediazione; diversamente, l’opposizione sarà improcedibile.”

Non sono mancate pronunce di merito di segno opposto, alcune recenti, altre precedenti alla conclusione del giudice di legittimità.

Il Tribunale di Benevento, con pronuncia del 23 gennaio 2016, è pervenuto a soluzione diametralmente opposta, discostandosi dall’orientamento della suprema corte con argomenti ampi e che – tuttavia – non convincono: il giudice campano, criticando l’orientamento espresso da Cass. 24629/2015, afferma” Tali asserzioni sono difficilmente compatibili col testo dell’art. 5, co. 4, d. lgs. 4.3.2010, n. 28: «I commi 1-bis e 2 non si applicano: a) nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione; [OMISSIS]».
Ciò significa che: 1) non è vero che l’opponente abbia inteso «precludere la via breve per percorrere la via lunga»: l’opponente, infatti, prima della pronunzia sulle istanze di concessione o sospensione della provvisoria esecuzione, non deve esperire la mediazione: sicché non gli si può imputare di averla omessa; 2) non è vero che al creditore sia imposto «l’onere di effettuare il tentativo di mediazione quando ancora non si sa se ci sarà opposizione allo stesso decreto ingiuntivo»: la questione, infatti, che si pone nei casi come quello di specie, non è certo se il creditore, che abbia depositato il ricorso monitorio, debba proporre la domanda di mediazione prima che la controparte abbia sollevato l’opposizione (e, dunque, senza neppure sapere se opposizione sorgerà): il problema, invece, è di verificare quale delle parti debba esperire la mediazione medesima, ma solo una volta proposta l’opposizione ed esaurita la fase attinente alla concessione, od alla sospensione, della provvisoria esecuzione. Una volta che le argomentazioni della motivazione della sentenza in esame siano ritenute contrastanti con la disciplina della mediazione, che potrebbe essere stata fraintesa, l’intera decisione non può più essere condivisa.
Si deve, dunque, tornare al testo della legge: il più volte menzionato co. 1 bis dell’art. 5, d. lgs. 28/2010, onera della mediazione «Chi intende esercitare in giudizio un’azione»: ed è jus receptum che, nel caso del procedimento monitorio, seguito da opposizione, chi esercita l’azione, ossia l’attore, è il creditore, che insta per l’emanazione del decreto ingiuntivo (e, del resto, la pendenza della lite tra ricorrente e debitore risale, ai sensi dell’art. 643, co. 3, c.p.c., alla notificazione del ricorso e del decreto): anzi, prim’ancora, che chiede al Giudice l’attribuzione di un bene della vita. L’opponente, al contrario, subisce la domanda, ed appare anomalo e vessatorio imporgli di adempiere ad un onere, posto come condizione di procedibilità, quando, evidentemente, nessun interesse esso nutre, contrariamente al creditore opposto, all’emissione di una condanna contro di lui. Il principio affermato dalla S.C., del resto, troverebbe applicazione in ogni altro caso, nel quale la mediazione è differita ad un momento successivo all’introduzione della controversia (art. 5, comma 4, d. lgs. 4.3.2010, n. 28, lettere ‘b’ e ‘d’), ossia «nei procedimenti per convalida di licenza o sfratto, fino al mutamento del rito di cui all’articolo 667 del codice di procedura civile», e «nei procedimenti possessori, fino alla pronuncia dei provvedimenti di cui all’articolo 703, terzo comma, del codice di procedura civile»: così dilagando in ulteriori ambiti, nei quali si propagherebbe la deroga al principio secondo cui la procedibilità della domanda è onere di chi pretende un bene della vita, e non certo di chi si limita a resistere. La conseguenza di quanto affermato, allora, è che l’improcedibilità non colpisce la domanda dell’opponente (domanda che tale non è, salve le riconvenzionali), bensì quella dell’opposto: e, pertanto, il decreto ingiuntivo dev’essere revocato.”

Sulla rilevanza della mediazione in tema di opposizione a decreto ingiuntivo si è stratificata numerosa giurisprudenza di merito; in senso contrario a quanto  indicato dalla Suprema Corte nel 2015 si segnalano sentenze del  Tribunale di Firenze: due in data  12 febbraio 2015 (estensore Guida), una del 24 settembre 2014 (estensore Guida) e una del 17 marzo 2014 (estensore Scionti), nonché pronunce del  Tribunale di Varese (estensore Buffone; 18 maggio 2012) e  del Tribunale di Verona (estensore Vaccari; 28 ottobre 2014), pronunce che fanno propria la tesi che per attore deve intendersi l’attore in senso sostanziale ossia l’opposto.

Di diverso avviso altri Tribunali, che si sono attenuti al principio poi espresso dal giudice di legittimità: Tribunale di Nola (estensore Frallicciardi), 24 febbraio 2015, Tribunale di Firenze 30 ottobre 2014 (estensore Ghelardini), Tribunale di Prato del 18 luglio 2011 (estensore Iannone), Tribunale di Siena  25 giugno 2012 (estensore Caramellino),  Tribunale di Rimini 17 luglio 2014 (estensore Bernardi); in tal senso anche una recente ordinanza del Tribunale di Massa 13.4.2017.

Si è detto di condividere la pronuncia della Suprema Corte del 2015 e di non ritenere convincenti le tesi dei giudici di merito che hanno espresso argomenti e decisioni  contrarie: le ragioni che inducono a tale lettura sono essenzialmente di ordine sistematico e prescindono da considerazioni deflative e di politica giudiziaria.

L’impianto processuale previsto dagli artt. 633 c.p.c. e seguenti prevede che il creditore, in determinate condizioni e a fronte della produzione di  documentazione espressamente indicata dalle norme, possa ottenere decreto ingiuntivo.

L’art. 63 disp.att. cod.civ., in materia condominiale, prevede  che tale provvedimento sia ottenuto dal condominio in forma provvisoriamente esecutiva, su istanza dell’amministratore, dietro la presentazione dei riparti ritualmente approvati.

Il decreto è ottenuto in assenza di contraddittorio e costituisce provvedimento di condanna anticipata in sé perfetto, suscettibile di divenire definitivo in assenza di opposizione, che l’ingiunto può proporre entro quaranta giorni dalla notifica. Si ritiene che il modello italiano sia ispirato al  c.d procedimento monitorio documentale, sicché “il provvedimento emesso dal giudice, diversamente rispetto al modello del procedimento monitorio puro, è risolutivamente condizionato alla proposizione di una eventuale opposizione e, dunque, può avere fin da subito efficacia esecutiva, e il giudizio che viene ad instaurarsi a seguito dell’opposizione risulta assimilabile ad una impugnazione”.

Dunque, ove l’ingiunto non si attivi, la condanna emessa in sede monitoria acquista definitività (art. 647 c.p.c.), al pari di qualunque titolo giudiziale e solo l’iniziativa dell’ingiunto (convenuto sostanziale) è idonea ad introdurre un ordinario giudizio di merito a cognizione piena, che condurrà alla emanazione di una sentenza in contraddittorio fra le parti, avente ad oggetto l’intero  merito della controversia.

Ne deriva che, poiché il legislatore ha ritenuto il decreto suscettibile di divenire cosa giudicata in assenza di attività dell’ingiunto, abbia poco senso rifarsi alle posizioni di attore e convenuto sostanziale contrapposte a quelle di attore e convenuto processuale, atteso che l’unica parte che ha interesse ad introdurre l’opposizione – al fine di  contestare la pretesa azionata in via monitoria e sottoporre al giudice il merito della vicenda – risulta  l’opponente e che la sua inerzia conduce , ex lege, alla definitività del decreto.

Ne consegue in via del tutto logica, ad avviso di chi scrive, che onerato della mediazione – in quanto soggetto interessato alla proposizione e prosecuzione del giudizio  di merito – non possa essere che l’opponente, atteso che il legislatore ha fornito il provvedimento emesso in via monitoria di una ossatura iniziale autoportante, idonea ad esser scalfita solo dalle iniziative dell’ingiunto e suscettibile di sopravvivere in via autonoma anche alle vicende estintive della causa di opposizione.

Non si comprende dunque per quali ragioni, a fronte di tale quadro sistematico, l’improcedibilità della opposizione per mancata proposizione della mediazione da parte dell’unico soggetto che ha interesse a coltivare la causa in via ordinaria, debba condurre alla revoca del decreto.

Un tale orientamento, tra l’altro, fornirebbe all’opponente dotato di un certo grado di disinvoltura l’opportunità di proporre opposizioni del tutto garibaldine – in materie in cui la mediazione è condizione obbligatoria di procedibilità, qual’è il condominio  – lasciando poi al creditore l’onere di coltivare la procedibilità della opposizione, pena la revoca del decreto: una vera e propria contraddizione in termini.

© massimo ginesi 27 aprile 2017 

titolare diritto reale di abitazione: quali oneri condominiali?

Il titolare del diritto reale di abitazione risponde degli oneri condominiali alla stregua dell’usufruttuario, sarà dunque tenuto a corrispondere le sole spese ordinarie, competendo al proprietario quelle di natura straordinaria.

Lo ha stabilito la Cass Civ. II sez.  19 aprile 2017, n. 9920 Rel. Giusti: “Qualora un appartamento sito in condominio sia oggetto di diritto reale di abitazione, il titolare del diritto di abitazione è tenuto al pagamento delle spese di amministrazione e di manutenzione ordinaria del condominio, applicandosi, in forza dell’art. 1026 cod. civ., le disposizioni dettate in tema di usufrutto dagli artt. 1004 e 1005 cod. civ., che si riflettono anche, come confermato dall’art. 67 disp. att. cod. civ., sul pagamento degli oneri condominiali, costituenti un’obbligazione propter rem (cfr. Cass., Sez. II, 16 febbraio 2012, n. 2236; Cass., Sez. II, 28 agosto 2008, n. 21774).”

La pronuncia attiene a rapporti nati anteriormente alla L. 220/2012, poiché oggi la responsabilità fra usufruttuario e proprietario – a mente dell’art. 67 disp.att. cod.civ. – ha natura solidale e quindi il Condominio ben può agire indifferentemente contro l’uno o l’altro.

La pronuncia risulta assai interessante per gli aspetti processuali: la controversia sorge come opposizione a decreto ingiuntivo da parte del titolare del diritto di abitazione, il quale lamenta che con decreto ingiuntivo il condominio abbia richiesto anche il pagamento di spese straordinarie. Il condominio, costituendosi nella opposizione, limita la domanda alle sole spese ordinarie: La Corte ha statuito che tale condotta non costituisce domanda nuova ma solo lecito mutamento di quella già proposta in via monitoria.

si ha mutatio libelli quando la parte immuti l’oggetto della pretesa ovvero quando introduca nel processo, attraverso la modificazione dei fatti giuridici posti a fondamento dell’azione, un tema di indagine e di decisione completamente nuovo, fondato su presupposti totalmente diversi da quelli prospettati nell’atto introduttivo e tale da disorientare la difesa della controparte e da alterare il regolare svolgimento del contraddittorio (Cass., Sez. V, 20 luglio 2012, n. 12621; Cass., Sez. II, 28 gennaio 2015, n. 1585).
Poiché in relazione al pagamento degli oneri condominiali la qualità di debitore dipende dalla titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale sulla cosa e anche le spese dovute dall’habitator si configurano come obbligazioni propter rem (cfr. Cass., Sez. II, 27 ottobre 2006, n. 23291), costituisce mera emendatio libelli, consentita, la richiesta, precisata da parte del condominio opposto in sede di comparsa di costituzione e risposta, di un importo minore rispetto a quello ingiunto, corrispondente alle sole spese condominiali di manutenzione e di amministrazione ordinaria, con esclusione di quelle di straordinaria amministrazione, in ragione della titolarità, in capo all’obbligato, non del diritto di proprietà, come esposto nel ricorso per decreto ingiuntivo, ma del diritto reale di abitazione sulla stessa unità immobiliare, il quale rappresenta, rispetto al diritto di proprietà, una situazione derivata minore.”

© massimo ginesi 26 aprile 2017

CONDOMINIO E CONDOMINO: il decreto ingiuntivo va notificato ad entrambi.

Una recente pronuncia della Suprema Corte torna su un tema discusso in dottrina e giurisprudenza, ovvero la natura soggettiva del Condominio, sostenendo l’obbligo di notificare al condomino, nei cui confronti si voglia procedere in via esecutiva, il decreto ingiuntivo ottenuto nei conforti del Condominio.

Il contenuto di Cassazione civile, sez. VI, 29/03/2017  n. 8150 risulta tuttavia di deciso interesse anche e soprattutto per le riflessioni in ordine alla natura giuridica del Condominio, dalla quale la Corte trae il condivisibile principio affermato.

Appare davvero peculiare il percorso giurisprudenziale che da una trentina d’anni conduce la giurisprudenza a riconoscere al Condominio caratteristiche ibride di soggetto collettivo imperfetto, spesso indicato quale ente di gestione (definizione oggetto di approfondita critica dalla nota Cass. SS.UU. 9148/2008, che effettuò una ricostruzione sistematica accuratissima della natura del Condominio, per pervenire alla tesi della parziarietà della obbligazione condominiale) o comunque quale soggetto collettivo imperfetto, una sorta di chimera giuridica dai contorni incerti e dalla natura mai definita dal legislatore che – anche con la riforma del 2012 – ha seminato tracce di soggettività autonoma in diverse norme (art. 1129 e 1130 bis cod.civ.), senza tuttavia pervenire ad una precisa ed univoca individuazione del fenomeno condominiale.

La vicenda trae origine dalla impugnazione di una sentenza del Tribunale di Roma, resa in giudizio di opposizione a precetto: “La sentenza impugnata si è consapevolmente discostata dai principi di diritto già affermati da questa Corte, con sentenza n. 1289 del 2012 e con ordinanza n. 23693/2011, non massimate, ai quali si ritiene invece debba essere data continuità. Denunciando violazione dell’art. 479 c.p.c., e art. 654 c.p.c., comma 2, nonchè vizi di motivazione, la ricorrente afferma che – qualora si voglia agire esecutivamente nei confronti di un singolo condomino in forza di decreto ingiuntivo ottenuto nei confronti del Condominio occorre che il titolo esecutivo sia notificato al condomino esecutato, essendo il principio di cui all’art. 654 cit.,secondo comma, secondo il quale ai fini dell’esecuzione non occorre una nuova notificazione del decreto ingiuntivo, applicabile solo nei confronti dell’ingiunto.”

L’art. 654 c.p.c. prevede che   “L’esecutorietà non disposta con la sentenza o con l’ordinanza di cui all’articolo precedente è conferita con decreto del giudice che ha pronunciato l’ingiunzione scritto in calce all’originale del decreto di ingiunzione. Ai fini dell’esecuzione non occorre una nuova notificazione del decreto esecutivo; ma nel precetto deve farsi menzione del provvedimento che ha disposto l’esecutorietà e dell’apposizione della formula”

Si tratta di norma che riguarda il decreto non provvisoriamente esecutivo (quindi fattispecie diversa dal decreto ottenuto per le quote condominiali, che è esecutivo ex lege in forza dell’art. 63 disp.att. cod.civ. ): in tal caso il legislatore prevede che, decorso il termine di quaranta giorni senza che sia stata proposta opposizione, il decreto diviene definitivo e il creditore può ottenere formula esecutiva, potrà poi procedere alla notifica del precetto e alla successiva esecuzione senza necessità di notificare nuovamente il titolo.

La Corte correttamente osserva che tale principio può valere solo ove vi sia identità fra soggetto ingiunto e destinatario della esecuzione, ritornando – per il vero in maniera decisamente apodittica – sulla natura della condominio: un soggetto ibrido, autonomo rispetto ai condomini ma dalla soggettività imperfetta; il condomino diviene poi un soggetto diverso dall’ingiunto Condominio, seppur responsabile dei debiti di lui.

La distanza concettuale dalle sezioni unite del 2008  appare geologica, laddove allora la Corte affermava: “le ragguardevoli diversità della struttura dimostrano la inconsistenza del ripetuto e acritico riferimento dell’ente di gestione al condominio negli edifici. Il condominio, infatti, non è titolare di un patrimonio autonomo, né di diritti e di obbligazioni: la titolarità dei diritti sulle cose, gli impianti e i servizi di uso comune, in effetti, fa capo ai singoli condomini; agli stessi condomini sono ascritte le obbligazioni per le cose, gli impianti ed i servizi comuni e la relativa responsabilità; le obbligazioni contratte nel cosiddetto interesse del condominio non si contraggono in favore di un ente, ma nell’interesse dei singoli partecipanti…rilevato, infine, che – in conformità con il difetto di struttura unitaria del condominio, la cui organizzazione non incide sulla titolarità individuale dei diritti, delle obbligazioni e della relativa responsabilità – l’amministratore vincola i singoli nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote”

Nella pronuncia odierna la Corte utilizza definizioni che sottendono istituti ben diversi: “Il Condominio è soggetto distinto da ognuno dei singoli condomini, ancorchè si tratti di soggetto non dotato di autonomia patrimoniale perfetta, e l’art. 654, comma 2, è da ritenere applicabile solo al soggetto nei confronti del quale il decreto ingiuntivo sia stato emesso ed al quale sia stato ritualmente notificato.

Qualora il creditore intenda far valere la responsabilità patrimoniale di un soggetto diverso dall’ingiunto – pur se in ipotesi responsabile dei debiti di lui – a cui il titolo esecutivo non sia stato mai notificato, la norma dell’art. 654, comma 2, è da ritenere inapplicabile, dovendosi sempre riconoscere al soggetto passivo dell’esecuzione il diritto di avere notizia e piena cognizione della natura del titolo in forza del quale si procede nei suoi confronti. Erroneamente il Tribunale ha ritenuto che l’amministratore abbia la rappresentanza dei singoli condomini ed, in quanto tale, sia legittimato a ricevere la notificazione di atti con effetti immediatamente riconducibili ai condomini.

In caso di titolo esecutivo giudiziale, formatosi nei confronti dell’ente di gestione condominiale in persona dell’amministratore e azionato nei confronti del singolo condomino quale obbligato pro quota, la notifica del precetto al singolo condomino, ex art. 479 c.p.c., non può prescindere dalla notificazione, preventiva o contestuale, del titolo emesso nei confronti dell’ente di gestione.

Se infatti una nuova notificazione del titolo esecutivo non occorre per il destinatario diretto del decreto monitorio nell’ipotesi di cui all’art. 654 c.p.c., comma 2, detta notificazione, invece, è necessaria qualora si intenda agire contro il singolo condomino, non indicato nell’ingiunzione ma responsabile pro quota della obbligazione a carico del condominio. Costui, invero, deve essere messo in grado non solo di conoscere qual è il titolo ex art. 474 c.p.c., in base al quale viene minacciata in suo danno l’esecuzione, ma anche di adempiere l’obbligazione da esso risultante entro il termine previsto dall’art. 480 c.p.c.”

Risulta a tal proposito interessante anche l’esame delle due sentenze oggi richiamate dalla Corte e relative allo stesso problema: se sotto il profilo processuale è condivisibile la tesi che il condomino non possa vedersi esecutato in forza di un titolo che è stato notificato ad altri e che potrebbe non conoscere, non può rilevarsi che la Corte –  in tutte tre le occasioni – lascia impregiudicata sia la questione della natura giuridica del Condominio e della sua soggettività, sia le facoltà riconosciute al singolo verso quel titolo al momento della notificazione.

Cass. 1289/2012 osservava che “Posto che nel caso in esame l’opponente non pone in questa sede la questione se il titolo esecutivo giudiziale, intervenuto nei confronti dell’ente di gestione condominiale in persona dell’amministratore prò tempore, possa essere validamente azionato nei confronti del singolo condomino quale obbligato solidale (questione che, secondo Cass. Sez. Un., n. 9148/2008, è ormai definitivamente risolta nel senso che, esclusa la solidarietà, la responsabilità del condomino è solo parziale in proporzione alla sua quota, anche nel rapporti esterni), osserva, tuttavia, questa Corte che, anche sotto l’erroneo presupposto che il titolo esecutivo ottenuto contro il condominio possa essere fatto valere in executivìs contro il singolo condomino quale preteso obbligato in solido, il precetto, intimato a tal fine allo stesso condomino, non avrebbe comunque potuto prescindere dalla notificazione, preventiva o contestuale, del decreto ingiuntivo emesso nei confronti dell’ente di gestione, ancorchè detta ingiunzione fosse risultata del tipo ex art. 654 c.p.c., comma 2.
E’ di tutta evidenza, infatti, che, se una nuova notificazione del titolo esecutivo non occorre per il destinatario diretto del decreto monitorio nell’ipotesi di cui all’art. 654 c.p.c., comma 2, detta notificazione, invece, è necessaria qualora si intenda agire contro soggetto, non indicato nell’ingiunzione, per la pretesa sua qualità di obbligato solidale.
Costui, invero, deve essere messo in grado non solo di conoscere qual è il titolo ex art. 474 c.p.c., in base al quale viene minacciata in suo danno l’esecuzione, ma anche di adempiere l’obbligazione da esso risultante entro il termine previsto dall’art. 480 c.p.c.”

Cass. 23693/2011 appare invece del tutto coincidente con l’attuale pronuncia: “Il Condominio e’ soggetto distinto da ognuno dei singoli condomini, ancorche’ si tratti di soggetto non dotato di autonomia patrimoniale perfetta, e l’art. 654, comma 2, e’ da ritenere applicabile solo al soggetto nei confronti del quale il decreto ingiuntivo sia stato emesso ed al quale sia stato ritualmente notificato. Qualora il creditore intenda far valere la responsabilita’ patrimoniale di un soggetto diverso dall’ingiunto – pur se in ipotesi responsabile dei debiti di lui – a cui il titolo esecutivo non sia stato mai notificato, la norma dell’art. 654, comma 2, e’ da ritenere inapplicabile, dovendosi sempre riconoscere al soggetto passivo dell’esecuzione il diritto di avere notizia e piena cognizione della natura del titolo in forza del quale si procede nei suoi confronti. Erroneamente il Tribunale ha ritenuto che l’amministratore abbia la rappresentanza dei singoli condomini ed, in quanto tale, sia legittimato a ricevere la notificazione di atti con effetti immediatamente riconducibili ai condomini. L’amministratore ha la rappresentanza del Condominio, non dei singoli condomini e, si ripete, si tratta di soggetti – ovverosia di centri di imputazione di rapporti giuridici – autonomi e diversi l’uno rispetto all’altro; pur se, agli effetti della responsabilita’ patrimoniale, i condomini possono essere chiamati a rispondere dei debiti del Condominio (entro i limiti delle rispettive quote: infra,par. 5).”

L’effettiva natura del Condomino resta irrisolta, mentre appare il presupposto logico e sistematico per dare definitiva soluzione a numerosissime questioni sostanziali e processuali.

La tesi del soggetto giuridico imperfetto appare invece un ibrido di cui non si sentiva la necessità, poiché lascia di volta in volta aperta all’interpretazione del giudice, investito delle singole questioni di merito, la qualificazione soggettiva del fenomeno condominiale.

Non vi è dubbio, tuttavia, che le pronunce segnalate possano  costituire le tappe intermedie di un percorso interpretativo che conduca nel breve periodo ad una più completa definizione sistematica della materia (cui ben avrebbe potuto e dovuto attendere il legislatore del 2012).

© massimo ginesi 19 aprile 2017