ciascun condomino può agire a tutela delle distanze rispetto al fabbricato condominiale.

Lo afferma, recependo un consolidato orientamento, Corte di Cassazione, sez. II Civile,  26 aprile 2017, n. 10304, rel. Giusti con una pronuncia in cui chiarisce anche che la cotruzione in aderenza no  è ammessa ove non sia espressamente prevista dai regolamenti locali.

La vicenda nasce come una delle classiche liti di vicinato:” PI.Io. , quale procuratrice speciale di PI.Ma.Lu., Z.A., M.G. , D.F.M. , D.F.B. e Pa.An. , premesso di essere proprietari degli appartamenti costituenti l’edificio di via (omissis), convenivano in giudizio davanti al Tribunale di Velletri, sezione distaccata di Anzio, P.E., per sentirlo condannare all’arretramento del terrazzo, costituente copertura dei locali sottostanti, realizzato a ridosso della parte condominiale in violazione della normativa in tema di distanze, oltre al risarcimento del danno.
Si costituiva il convenuto, resistendo e spiegando domanda di condanna degli attori al risarcimento dei danni per lite temeraria.”

Il Tribunale respingeva la domanda degli attori, condannati anche ex art. 96 c.p.c., pronuncia ribaltata in secondo grado dalla Corte di Appello di Roma, che condannava il convenuto all’arretramento della costruzione.

Giunto il giudizio in sede di legittimità, la Corte afferma, quanto alla legittimazione e alla inesistenza idi litisconsortio:

Ciascun condomino è legittimato a ricorrere per la violazione delle distanze fra costruzioni con riguardo all’edificio condominiale, senza che sia necessaria la integrazione del contraddittorio con la chiamata in causa degli altri condomini, trattandosi di azione a tutela del diritto di proprietà dalla quale nessun nocumento può derivare agli altri con titolari (Cass., Sez. II, 11 marzo 1992, n. 2940; Cass., Sez. II, 22 maggio 1995, n. 5612).”

Quanto alle costruzioni in aderenza: “La decisione impugnata è corretta, avendo fatta puntuale applicazione del condiviso principio di diritto, costantemente affermato da questa Corte (Cass., Sez. II, 9 settembre 1998, n. 8945; Cass., Sez. II, 12 settembre 2000, n. 12045), secondo cui, quando, come nel caso in esame, il piano particolareggiato esecutivo prescrive le distanze dal confine, non è consentita – salvo concreta, diversa previsione della norma regolamentare – la costruzione in aderenza, perché dette norme regolamentari sono integrative del codice civile per tutta la loro disciplina, tal che la norma di cui all’art. 873 cod. civ. cede alla norma regolamentare, che, prescrivendo l’osservanza, per le costruzioni, di una determinata distanza dal confine, implica il divieto di costruire in appoggio od in aderenza, in deroga alla disciplina del codice civile.”

Osserva ancora la Corte che la circostanza dirimente in ordine al divieto di costruire in aderenza è che il piano locale preveda una distanza minima dal confine: “Non viene in gioco nella specie il principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte, a composizione di contrasto, con la sentenza 19 maggio 2016, n. 10318, perché nella presente fattispecie il regolamento edilizio locale non si limita a stabilire un distacco minimo fra le costruzioni maggiore rispetto a quello contemplato dall’art. 873 cod. civ., ma prescrive proprio una distanza minima delle costruzioni dal confine.”

Sottolinea infine che tali norme sono inderogabili, come è ovvio, in via negoziale, rimanendo irrilevante che  sia stata comunque rilasciata concessione edilizia: “la Corte d’appello ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui, in tema di distanze legali nelle costruzioni, le prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei regolamenti edilizi comunali, essendo dettate a tutela dell’interesse generale a un prefigurato modello urbanistico, non tollerano deroghe convenzionali da parte dei privati, e tali deroghe, se concordate, sono invalide, né tale invalidità può venire meno per l’avvenuto rilascio di concessione edilizia, poiché il singolo atto non può consentire la violazione dei principi generali dettati, una volta per tutte, con gli indicati strumenti urbanistici (Cass., Sez. II, 23 aprile 2010, n. 9751).”

© massimo ginesi 2 maggio 2017

titolare diritto reale di abitazione: quali oneri condominiali?

Il titolare del diritto reale di abitazione risponde degli oneri condominiali alla stregua dell’usufruttuario, sarà dunque tenuto a corrispondere le sole spese ordinarie, competendo al proprietario quelle di natura straordinaria.

Lo ha stabilito la Cass Civ. II sez.  19 aprile 2017, n. 9920 Rel. Giusti: “Qualora un appartamento sito in condominio sia oggetto di diritto reale di abitazione, il titolare del diritto di abitazione è tenuto al pagamento delle spese di amministrazione e di manutenzione ordinaria del condominio, applicandosi, in forza dell’art. 1026 cod. civ., le disposizioni dettate in tema di usufrutto dagli artt. 1004 e 1005 cod. civ., che si riflettono anche, come confermato dall’art. 67 disp. att. cod. civ., sul pagamento degli oneri condominiali, costituenti un’obbligazione propter rem (cfr. Cass., Sez. II, 16 febbraio 2012, n. 2236; Cass., Sez. II, 28 agosto 2008, n. 21774).”

La pronuncia attiene a rapporti nati anteriormente alla L. 220/2012, poiché oggi la responsabilità fra usufruttuario e proprietario – a mente dell’art. 67 disp.att. cod.civ. – ha natura solidale e quindi il Condominio ben può agire indifferentemente contro l’uno o l’altro.

La pronuncia risulta assai interessante per gli aspetti processuali: la controversia sorge come opposizione a decreto ingiuntivo da parte del titolare del diritto di abitazione, il quale lamenta che con decreto ingiuntivo il condominio abbia richiesto anche il pagamento di spese straordinarie. Il condominio, costituendosi nella opposizione, limita la domanda alle sole spese ordinarie: La Corte ha statuito che tale condotta non costituisce domanda nuova ma solo lecito mutamento di quella già proposta in via monitoria.

si ha mutatio libelli quando la parte immuti l’oggetto della pretesa ovvero quando introduca nel processo, attraverso la modificazione dei fatti giuridici posti a fondamento dell’azione, un tema di indagine e di decisione completamente nuovo, fondato su presupposti totalmente diversi da quelli prospettati nell’atto introduttivo e tale da disorientare la difesa della controparte e da alterare il regolare svolgimento del contraddittorio (Cass., Sez. V, 20 luglio 2012, n. 12621; Cass., Sez. II, 28 gennaio 2015, n. 1585).
Poiché in relazione al pagamento degli oneri condominiali la qualità di debitore dipende dalla titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale sulla cosa e anche le spese dovute dall’habitator si configurano come obbligazioni propter rem (cfr. Cass., Sez. II, 27 ottobre 2006, n. 23291), costituisce mera emendatio libelli, consentita, la richiesta, precisata da parte del condominio opposto in sede di comparsa di costituzione e risposta, di un importo minore rispetto a quello ingiunto, corrispondente alle sole spese condominiali di manutenzione e di amministrazione ordinaria, con esclusione di quelle di straordinaria amministrazione, in ragione della titolarità, in capo all’obbligato, non del diritto di proprietà, come esposto nel ricorso per decreto ingiuntivo, ma del diritto reale di abitazione sulla stessa unità immobiliare, il quale rappresenta, rispetto al diritto di proprietà, una situazione derivata minore.”

© massimo ginesi 26 aprile 2017

lastrico solare di proprietà esclusiva: la cassazione conferma che il diritto può nascere anche per testamento.

La Cassazione (Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 10 aprile 2017, n. 9227 rel Scarpa) ribadisce un  concetto già affermato un mese fa.

In caso di frazionamento della proprietà di un edificio, a seguito del trasferimento, dall’originario unico proprietario ad altri soggetti, di alcune unità immobiliari, si determina una situazione di condominio per la quale vige la presunzione legale di comunione “pro indiviso” di quelle parti del fabbricato che, per ubicazione e struttura, siano – in tale momento costitutivo del condominio – destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze generali e fondamentali del condominio stesso: ciò sempre che il contrario non risulti dal titolo, che ben può essere costituito, come nella specie, da un testamento, ove questo, cioè, dimostri una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente ad uno dei condomini la proprietà di dette parti e di escluderne gli altri (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16292 del 19/11/2002; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2328 del 27/06/1969).

Il lastrico solare, ai sensi dell’art. 1117 c.c., è oggetto di proprietà comune dei diversi proprietari dei piani o porzioni di piano dell’edificio, ove, appunto, non risulti il contrario, in modo chiaro ed univoco, dal titolo.

La Corte d’Appello ha escluso la presunzione di proprietà comune del lastrico solare ex art. 1117 c.c., ritenendo che l’attribuzione fatta dal testatore M.P. all’erede M.I. dell’”area sovrastante il primo piano dove io abito” fosse comprensiva del lastrico solare sovrastante l’appartamento sito al secondo piano, attribuito alla stessa, ed ha perciò supposto che dal titolo che segnava la nascita del condominio emergesse un elemento testuale che negava l’esistenza di un diritto di comunione sul lastrico.

È noto, del resto, che lo spazio sovrastante il suolo o una costruzione non costituisce un bene giuridico suscettibile di autonomo diritto di proprietà, ma configura la mera proiezione verso l’alto delle suddette entità immobiliari e, formalmente, la possibilità di svolgimento delle facoltà inerenti al diritto dominicale sulle medesime (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 25965 del 23/12/2015, non massimata). La qualificazione operata dalla Corte di merito ha ravvisato nell’espressione della volontà testamentaria l’intenzione di assegnare a M.I. anche la proprietà autonoma dell’area solare di calpestio.

E l’indagine diretta a stabilire, attraverso l’interpretazione dei titoli d’acquisto, se sia o meno applicabile, ad un determinato bene, la presunzione di comproprietà di cui all’art. 1117 c.c., costituisce un apprezzamento di fatto spettante alle prerogative esclusive del giudice di merito, rimanendo incensurabile in sede di legittimità se non per eventuali vizi di motivazione della sentenza (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 40 del 07/01/1978; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3084 del 03/09/1976).”

© massimo ginesi 12 aprile 2017

l’assemblea può approvare un consuntivo anche se non è ancora stato approvato l’esercizio precedente.

Lo ha affermato la Cassazione con recente sentenza, in cui ha chiarito che è legittima l’approvazione del rendiconto di un esercizio finanziario, da parte del condominio, senza che sia ancora stato approvato quello relativo all’anno precedente.

In tal caso, ove nell’esercizio approvato siano stati inseriti anche i conguagli relativi all’esercizio precedente, l’amministratore potrà legittimamente agire per il recupero forzoso anche di tali somme.

Corte di Cassazione, sez. II Civile,  31 marzo 2017, n. 8521: “Infine, il terzo motivo di ricorso, contrassegnato con la lettera c) (col quale si deduce la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto, in relazione al fatto che il consuntivo approvato relativo all’anno 2006 includeva una posta a debito derivante dall’esercizio 2004, il cui consuntivo tuttavia non era stato ancora approvato), è anch’esso privo di fondamento.

La Corte territoriale ha spiegato che l’assemblea condominiale del 16.6.2005, pur non approvando il rendiconto relativo al 2004, ebbe ad autorizzare – all’unanimità – l’amministratore a richiedere ai condomini i conguagli da esso risultanti;

che, non avendo il L. provveduto al pagamento del dovuto, l’amministratore – in ossequio al principio della continuità dei bilanci – ebbe a riportare a debito, nel consuntivo relativo al 2006, la somma non corrisposta; che, il consuntivo 2004 è stato poi comunque approvato nell’assemblea 27.3.2008 e la relativa deliberazione è stata impugnata dal L. e ha formato oggetto di separato giudizio.

Considerato che la deliberazione condominiale del 16.6.2005 ha autorizzato la riscossione delle somme calcolate dall’amministratore a titolo di conguaglio e che, nell’attesa dell’approvazione del consuntivo 2004, tale deliberazione era pienamente esecutiva nei confronti dell’attore (per non averla il medesimo impugnata), legittimamente il consuntivo relativo al 2006 ha riportato la somma non corrisposta dal L. in esecuzione della precedente delibera.

Non sussiste la violazione di alcuna delle norme invocate dal ricorrente; dovendosi peraltro ricordare il principio di diritto, dettato da questa Suprema Corte, secondo cui nessuna norma codicistica detta, in tema di approvazione dei bilanci consuntivi del condominio, il principio dell’osservanza di una rigorosa sequenza temporale nell’esame dei vari rendiconti presentati dall’amministratore e relativi ai singoli periodi di esercizio in essi considerati, cosicché va ritenuta legittima la delibera assembleare che (in assenza di un esplicito divieto pattiziamente convenuto al momento della formazione del regolamento contrattuale) approvi il bilancio consuntivo senza prendere in esame la situazione finanziaria relativa al periodo precedente, atteso che i criteri di semplicità e snellezza che presidiano alle vicende dell’amministrazione condominiale consentono, senza concreti pregiudizi per la collettività dei comproprietari, finanche la possibilità di regolarizzazione successiva delle eventuali omissioni nell’approvazione dei rendiconti (Cass., Sez. 2, n. 11526 del 13/10/1999; Sez. 2, n. 13100 del 30/12/1997).”

© massimo ginesi 11 aprile 2017

agenzia delle entrate, entratel e amministratori: i chiarimenti.

Sul sole24ore di oggi.

“L’Agenzia conferma: l’amministratore condominiale non è abilitato a trasmettere le dichiarazioni fiscali dei condòmini, a meno che non rientri nelle categorie previste degli intermediari (commercialisti, periti, Caf, eccetera).

Questo il senso della risposta data dalle Entrate a un interpello presentato da Anaci (associazione di amministratori) il 28 gennaio 2016. l’Anaci prospettava invece, come soluzione, che l’amministratore, in virtù dei sempre più numerosi aempimenti fiscali che è chiamato a svolgere per conto del condominio, fosse da considerarsi un soggetto che abitualmente svolge consulenza fiscale e quindi «intermediario abilitato». Le Entrate hanno invece dato un’interpretazione letterale della norma, escludendo l’amministratore dal novero degli intermediari abilitati, a meno che non appartenga alle categorie indicate.

Però l’Agenzia ricorda che l’abilitazione è ammessa per società ed enti che operano ritenute per almeno 20 soggetti. Questa frase, che sembra in un certo senso riprendere la soluzione del contribuente, anche se va letta con prudenza, di fatto sembra considerare tra gli abilitati gli amministratori, in quanto rappresentanti del condominio, se questo opera ritenute per almeno 20 fornitori. Il che, effettivamente, capita.

Va detto comunque che per l’invio della comunicazione dei dati sulle detrazioni fiscali, che di recente ha preoccupato la categoria, bastava la semplice iscrizione a Entratel e non occorreva essere «intermediari abilitati», se non per la maggiore comodità di poter operare un unico invio dei dati per tutti i condomìni interessati, invece di ripetere codice e invio per ognuno singolarmente.”

Il comunicato dell’Agenzia è chiarissimo e non ammette dubbi.

 

Pare tuttavia che gli unici a non averlo capito siano coloro che hanno posto il quesito: sul loro sito forniscono all’amministratore una interpretazione decisamente  contraria al senso delle parole espresse nel provvedimento.

© massimo ginesi 6 aprile 2017

 

Sezioni Unite: anche le ristrutturazioni di fabbricati esistenti godono della garanzia decennale ex art. 1669 cod.civ.

La Suprema Corte ( Cass. SS.UU 27 marzo 2017 n. 7756), con una pronuncia fiume che ripercorre i fondamenti del contratto di appalto di opere edili,  risolve un contrasto interpretativo e chiarisce che anche ove l’appaltatore intervenga su un fabbricato già esistente, la sua prestazione gode delle ordinarie garanzie previste dal codice civile, ivi compresa quella di lungo periodo  per i gravi difetti prevista dall’art. 1669 cod.civ.

La sentenza affronta un unico quesito posto dal ricorrente: “Con l’unico motivo di ricorso parte ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art. 1669 e.e. in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.”. Espone che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente ritenuto che la ristrutturazione edilizia di un fabbricato non possa rientrare nella previsione dell’art. 1669 e.e.; lamenta che la Corte territoriale abbia omesso di motivare sull’entità dei lavori di ristrutturazione del fabbricato, nonché sulla consistenza e sulla rilevanza dei vizi accertati dal c.t.u.; deduce cheJ rispetto al caso esaminato da Cass. n. 24143/07, quello in oggetto concerne interventi edilizi di carattere straordinario riconducibili all’ipotesi di cui all’art. 1669 e.e.; e richiama, tra altre pronunce di questa Corte, Cass. n. 18046/ 12 per affermare che la ridetta norma è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle opere di ristrutturazione immobiliare e a quelle che siano comunque destinate ad avere lunga durata.”

Le Sezioni Unite, dopo un ampio escursus sui diversi orientamenti giurisprudenzaili e dottrinali (che emrita integrale lettura),  danno una lettura ampia della norma: “Queste Sezioni unite aderiscono all’orientamento meno restrittivo, ritenendolo sostenibile sulla base di ragioni d’interpretazione storico-evolutiva, letterale e teleologica.
In primo luogo vale premettere e chiarire che anche opere più limitate, aventi ad oggetto riparazioni straordinarie, ristrutturazioni, restauri o altri interventi di natura immobiliare, possono rovinare o presentare evidente pericolo di rovina del manufatto, tanto nella porzione riparata o modificata, quanto in quella diversa e preesistente che ne risulti altrimenti coinvolta per ragioni di statica. L’attenzione va, però, soffermata principalmente sull’ipotesi dei “gravi difetti”, sia perché confinaria rispetto al regime ordinario degli artt. 1667 e 1668 e.e., sia per il rilievo specifico che i “gravi difetti” assumono nel caso in oggetto, sia per le ragioni di carattere generale che emergeranno più chiaramente di seguito.

Innumerevoli altre volte la giurisprudenza di questa Corte, pur non esaminando in maniera immediata e consapevole la questione in esame, si è occupata dell’art. 1669 e.e., presupponendone (per difetto di contrasto fra le parti o per altre ragioni) l’applicabilità anche in riferimento ad opere limitate. Ed è pervenuta a soluzioni applicative di detta norma che appaiono poter prescindere dalla necessità logica di un’edificazione ab imo o di una costruzione ex novo.

Si è ritenuto, infatti, che sono gravi difetti dell’opera, rilevanti ai fini dell’art.1669 cod.civ., anche quelli che riguardano elementi secondari ed accessori (come impermeabilizzazioni, rivestimenti, infissi ecc.) purché tali da compromettere la funzionalità globale dell’opera stessa e che, senza richiedere opere di manutenzione straordinaria, possono essere eliminati solo con interventi di manutenzione ordinaria ai sensi dell’art. 31 legge n. 457/78 e cioè con “opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici” o con “opere necessarie per integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti” (sentenze nn. 1164/95 e 14449/99; in senso del tutto analogo e con riferimento a carenze costruttive anche di singole unità immobiliari, v. n. 8140/ 04, che ha ritenuto costituire grave difetto lo scollamento e la rottura, in misura percentuale notevole rispetto alla superficie rivestita, delle mattonelle del pavimento dei singoli appartamenti; da premesse conformi procedono le nn. 11740/03, 81/00, 456/99, 3301/96 e 1256/95; di un apprezzabile danno alla funzione economica o di una sensibile menomazione della normale possibilità di godimento dell’immobile, in relazione all’utilità cui l’opera è destinata, parlano le sentenze nn. 1393/98, 1154/02, 7992/97, 5103/95, 1081/95, 3644/89, 6619/88, 6229/83,2523/81, 1178/80, 839/80, 1472/75 e 1394/69).

Esemplificando, sono stati inquadrati nell’ambito della norma in oggetto i gravi difetti riguardanti: la pavimentazione interna ed esterna di una rampa di scala e di un muro di recinzione (sentenza n. 2238/ 12); opere di pavimentazione e di impiantistica (n. 1608/00); infiltrazioni d’acqua, umidità nelle murature e in generale problemi rilevanti d’impermeabilizzazione (nn. 84/13, 21351/05, 117/00, 4692/99, 2260/98, 2775/97, 3301/96, 10218/94, 13112/92, 9081/92, 9082/91, 2431/ 86, 1427I 84, 6741/ 83, 2858/ 83, 3971/81, 3482/81, 6298/80, 4356/80, 206/79, 2321/77, 1606/76 e 1622/72); un ascensore panoramico esterno ad un edificio (n. 20307/ 11); l’inefficienza di un impianto  idrico (n. 3752/07); l’inadeguatezza recettiva d’una fossa biologica (n. 13106/95); l’impianto centralizzato di riscaldamento (nn. 5002/94, 7924/92, 5252/ 86 e 2763/ 84); il crollo o il disfacimento degli intonaci esterni dell’edificio (nn. 6585/86, 4369/82 e 3002/81, 1426/76); il collegamento diretto degli scarichi di acque bianche e dei pluviali discendenti con la condotta fognaria (n. 5147/87); infiltrazioni di acque luride (n. . 2070/ 78).

Se ne ricava, inconfutabile nella sua oggettività, un dato di fatto: nell’economia del ragionamento giuridico sotteso ai casi sopra menzionati, ,  che fa leva sulla compromissione del godimento dell’immobile secondo la sua propria destinazione, è del tutto indifferente che i gravi difetti riguardino una costruzione interamente nuova. La circostanza che le singole fattispecie siano derivate o non dall’edificazione primigenia di un fabbricato non muta i termini logico-giuridici dell’operazione ermeneutica compiuta in ormai quasi mezzo secolo di giurisprudenza, perché non preordinata al (né dipendente dal) rispetto dell’una o dell’altra opzione esegetica in esame.

Spostando l’attenzione sulle componenti non strutturali del risultato costruttivo e sull’incidenza che queste possono avere sul complessivo godimento del bene, la giurisprudenza ha mostrato di porsi dall’angolo visuale degli elementi secondari ed accessori. Questo non implica di necessità propria che si tratti della prima realizzazione dell’immobile, essendo ben possibile che l’opus oggetto dell’appalto consista e si esaurisca in questi stessi e soli elementi. Ferma tale angolazione, a fortiori deve ritenersi che ove l’opera appaltata consista in un intervento di più ampio respiro edilizio (come, appunto, una ristrutturazione), quantunque non in una nuova costruzione, l’art. 1669 e.e. sia ugualmente applicabile.
In conclusione, considerare anche gli elementi “secondari” ha significato distogliere il focus dal momento “fondativo” dell’opera per direzionarlo sui “gravi difetti” di essa; per desumere i quali è stato necessario indagare altro, vale a dire l’aspetto funzionale del prodotto conseguito.

Come la previsione dei “gravi difetti” dell’opera sia il risultato d’un progressivo allontanamento del precetto dal suo nucleo originario, lo dimostra la storia della norma.
Derivata dall’art. 1792 del codice napoleonico (il quale stabiliva che «Si l’édijìce construit a prix fait, périt en tout ou en partie par le vice de la construction, meme par le vice du sol, !es architecte et entrepreneur en son! responsables pendant dix ans»), essa così recitava sotto l’art. 1639 del e.e. del 1865: «Se nel corso di dieci anni dal giorno in cui fu compiuta la fabbricazjone di un edijìcio o di altra opera notabile, l’uno o l’altra rovina in tutto o in parte, o presenta evidente pericolo di rovinare per difetto di costruzjone o per vizjo del suolo, l’architetto e l’imprenditore ne sono responsabili». Rispetto all’ascendente francese, la norma aveva, dunque, aggiunto un quid pluris (cioè le altre opere notabili e il pericolo di rovina). Ma – si noti – aveva mantenuto inalterato il soggetto della seconda proposizione subordinata (“… l’uno o l’altra… “), cioè l’edificio, cui appunto aveva aggiunto “altra opera notabile”.
Un ulteriore e consapevole passo in avanti è stato operato dal codice civile del 1942, il quale prevede che quando si tratta di edifici o di altre cose immobili destinate per la loro natura a lunga durata, se, nel corso di dieci anni dal compimento, l’opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l’appaltatore è responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa, purché sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta.

Si legge nella relazione del Guardasigilli (par. 704): <<Innovando poi al codice del 1865 si è creduto di non dover limitare fa .ifera di applicazjone della norma in questione alfe sole ipotesi di rovina di tutto o parte dell’opera o di evidente pericolo di rovina, ma si è estesa fa garanzja anche alfe ipotesi in cui l’opera presenti gravi difetti. Naturalmente questi difetti devono essere molto gravi, oltre che riconoscibili al momento del collaudo, e devono incidere sempre sulla sostanza e sulla stabilità della costruzione, anche se non minacciano immediatamente il crollo di tutta fa costruzione o di una parte di essa o non importano evidente pericolo di rovina. Non vi è dubbio che fa giurisprudenza farà un’applicazione cauta di questa estensione, in conseguenza del carattere eccezjonafe della responsabilità dell’appaltatore». (Il riferimento alla riconoscibilità dei gravi difetti al momento del collaudo è, ad evidenza, un fuor d’opera. Concessa per un decennio, la garanzia ex art. 1669 e.e. copre anche e soprattutto i gravi difetti che si manifestino soltanto in progresso di tempo).

Come si è visto, però, la postulata eccezionalità dell’art. 1669 e.e. non e valsa ad arginarne l’applicazione. Chiamata a dotare il sintagma “gravi difetti” di un orizzonte di senso, la giurisprudenza ha ovviamente seguito l’unica strada percorribile, quella di stemperare la vaghezza del concetto giuridico al calore dei fatti.
Il mutamento di prospettiva nel codice del 1942 è evidente per due ragioni. La prima, d’ordine logico, è che la nozione di “gravi difetti” per la sua ampiezza è omogenea a qualunque opera, edilizia e non, per cui meglio si presta al riferimento, del pari generico, alle altre cose immobili. In secondo luogo, e l’argomento è di indole letterale, mentre nel testo del 1865 il soggetto della seconda proposizione subordinata era l’edificio o altra opera notabile (“l’uno o l’altra”), nella frase che vi corrisponde nell’art. 1669 e.e. il soggetto diviene “l’opera”, nozione che rimanda al risultato cui è tenuto l’appaltatore (art. 1655 e.e.).

E dunque qualsiasi opera su di un immobile destinato a lunga durata, a prescindere dal fatto che, ove di natura edilizia, essa consista o non in una nuova fabbrica.

Ben si comprende, allora, che nell’ampliare il catalogo dei casi di danno rilevante ai sensi dell’art. 1669 e.e., l’aggiunta dei “gravi difetti” ha comportato per trascinamento l’estensione dell’area normativa della disposizione, includendovi qualsiasi opera immobiliare che (per traslato) sia di lunga durata e risulti viziata in grado severo per l’inadeguatezza del suolo o della costruzione. Ne è seguita, coerente nel suo impianto complessivo, l’interpretazione teleologica fornita dalla giurisprudenza, che è andata oltre l’originaria visione dell’art. 1669 e.e. come norma di protezione dell’incolumità pubblica, valorizzando la non meno avvertita esigenza che l’immobile possa essere goduto ed utilizzato in maniera conforme  alla sua destinazione.

Completano e confermano la vahd1ta d1 tale esito ermeneutico,   l’irrazionalità (non conforme ad un’interpretazione costituzionalmente orientata) di un trattamento diverso tra fabbricazione iniziale e ristrutturazione edilizia, questa non diversamente da quella potendo essere foriera dei medesimi gravi pregiudizi; e la pertinente osservazione (v. la richiamata sentenza n. 22553/ 15) per cui costruire, nel suo significato corrente (oltre che etimologico) implica non l’edificare per la prima volta e dalle fondamenta, ma l’assemblare tra loro parti convenientemente disposte (cum struere, cioè ammassare insieme).

Così ricomposta la storia e l’esegesi della norma, il vincolo letterale su cui l’interpretazione restrittiva dell’art. 1669 e.e. pretende di fondarsi perde la propria base logico-giuridica. Infatti, riferire l’opera alla “costruzione” e questa a un nuovo fabbricato, inteso quale presupposto e limite della responsabilità aggravata dell’appaltatore (come ritiene Cass. n. 24143/07), non sembra possibile proprio dal punto di vista letterale

Si noti che nel testo della norma il sostantivo “costruzione” rappresenta un nomen actionis, nel senso che sta per “attività costruttiva”; e non potrebbe essere altrimenti, visto che se esso valesse (come mostra d’intendere la sentenza appena citata) quale specificazione riduttiva del soggetto 0’opera) della (terza, nel testo vigente) proposizione subordinata, si avrebbe una duplicazione di concetti ad un tempo inutile e fuorviante. Inoltre, il supposto impiego sinonimico di “costruzione” quale nuovo edificio, porterebbe a intendere la nonna come se affermasse che l’opera può rovinare per difetto suo proprio. Lettura criptica, questa, che restituirebbe inalterato all’interprete il problema ermeneutico, dovendosi stabilire cosa sia il vizio proprio di un’opera; salvo convenire che esso è quello che deriva (da un vizio del suolo o) dal difetto di costruzione, così confermandosi che quest’ultimo sostantivo allude, appunto, all’attività dell’appaltatore.

Non senza aggiungere che supponendo la tesi qui non condivisa, a) sarebbe stato ben più logico un diverso incipit della norma (e cioè, “Quando si tratta [della costruzione] di edifici… “); e b) il termine “costruzione” risulterebbe irriferibile agli altri immobili di lunga durata, pure contemplati dall’art. 1669 e.e., per i quali, paradossalmente, questa sarebbe applicabile solo se rovina, evidente pericolo di rovina o gravi difetti dipendessero da vizio del suolo, cioè da una soltanto delle due cause ivi indicate (e, per soprammercato, proprio quella che natura/iter fa pensare alle opere murarie).
Ancora. Incentrando l’interpretazione dell’art. 1669 e.e. sul concetto di “costruzione” quale nuova edificazione, diverrebbe (se non automatico, almeno) spontaneo il rinvio al concetto normativo di costruzione così come elaborato dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di distanze. E, in effetti, Cass. n. 24143/07 sembra presupporlo lì dove afferma (cosa in sé condivisibile) che la norma in commento ricomprende la sopraelevazione, la quale è costruzione nuova ed autonoma rispetto ali’edificio sopraelevato. Ma è una tematica del tutto estranea, quella degli artt. 873 e ss. e.e., il rimando alla quale sortirebbe effetti contraddittori e inaccettabili anche per la tesi seguita dal citato precedente, sol che si consideri che ai fini delle distanze è costruzione un balcone (v. sentenza n. 18282/ 16), ma non la ricostruzione fedele, integrale e senza variazioni plano-volumetriche di un edificio preesistente (v. ordinanza S.U. n. 21578/11 e sentenza n. 3391/09).

Non meno controvertibile l’altro argomento – la specialità o l’eccezionalità della norma – utilizzato dall’interpretazione restrittiva dell’art. 1669 cod.civ. per escluderne l’applicazione analogica.
In disparte il fatto che  solo di specialità potrebbe trattarsi, nel senso che la responsabilità aggravata prevista da detta disposizione è speciale rispetto al regime ordinario del risarcimento del danno per colpa ai sensi dell’art. 1668 cod.civ.; che  tale specialità si è già attenuata fortemente allorché la giurisprudenza di questa Corte ha ammesso, oltre all’azione risarcitoria, quella di riduzione del prezzo, di condanna specifica all’eliminazione dei difetti dell’opera e di risoluzione, che costituiscono il contenuto della garanzia ordinaria cui è tenuto l’appaltatore (per l’affermativa, che sembra ormai consolidata, cfr. nn. 815/ 16, 8140/04, 8294/99, 10624/96, 1406/ 89 e 2763/ 84; contra, le più risalenti sentenze nn. 2954/ 83, 2561/ 80 e 1662/ 68); e che l’analogia serve a disciplinare ciò che non è positivizzato, non a riposizionare i termini di una regolamentazione data; tutto ciò a parte, quanto fin qui considerato dimostra come l’art. 1669 e.e. includa a pieno titolo gli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata, la cui potenziale incidenza tanto sulla rovina o sul pericolo di rovina quanto sul normale godimento del bene non opera in modo dissimile dalle ipotesi di edificazione ex novo. Pertanto, la pur indubbia specialità della protezione di lunga durata accordata al committente (protezione che resiste anche al collaudo: cfr. Cass. nn. 7914/14, 1290/00 e 4026/74), non interferisce con la questione m oggetto.

Poco o punto rilevante, e dunque non decisiva ai fini in esame, la natura extracontrattuale della responsabilità ex art. 1669 e.e. – con carattere di specialità rispetto alla previsione generale dell’art. 2043 e.e. – costantemente affermata dalla giurisprudenza (tanto che Cass. nn. 4035/ 17 e 1674/ 12 hanno escluso che la relativa controversia possa rientrare nell’ambito della clausola che si limiti a compromettere in arbitri le liti nascenti da un contratto d’appalto). Tutt’altro che monolitica, invece, è al riguardo la dottrina.

Ammessa anche dalle sentenze nn. 24143/07 e 10658/ 15, che come detto escludono l’applicazione dell’art. 1669 e.e. alle ipotesi di riparazioni o modificazioni, la tesi della natura extracontrattuale di detta responsabilità; qualificata come ex lege (cfr. Cass. n. 261/ 70 e il brano della relazione al codice civile . del  1942 riportato supra al paragrafo 5) e prevista per ragioni di ordine pubblico e di tutela dell’incolumità personale dei cittadini, quindi, inderogabile e irrinunciabile (v. Cass. n. 81/00), ha anch’essa origini remote, essendo stata altrettanto costantemente affermata dalla giurisprudenza sotto l’impero del e.e. del 1865 a partire dagli anni venti del XX secolo. Ciò allo scopo di riconoscere l’azione risarcitoria anche agli acquirenti del costruttore-venditore, essendo invalsa già in allora, con lo sviluppo delle attività edilizie, l’unificazione delle due figure.

Ai limitati fini che qui rilevano può solo osservarsi che, come sopra detto, la categoria dei gravi difetti tende a spostare il baricentro dell’art. 1669 cod.civ. dall’incolumità dei terzi alla compromissione del godimento normale del bene, e dunque da un’ottica pubblicistica ed aquiliana ad una privatistica e contrattuale. Oltre a ciò, va considerata la maggior importanza che sul tema della tutela dei terzi ha assunto, invece, l’esperienza dell’appalto pubblico; l’espresso riconoscimento dell’azione anche agli aventi causa del committente (i quali possono agire anche contro il costruttore-venditore: fra le tante, v. C’.ass. nn. 467/14, 9370/13 e 2238/12 e 4622/02), il che ha privato del suo principale oggetto la teoria della responsabilità extracontrattuale ex art. 1669 cod.civ.; i più recenti approdi della dottrina sull’efficacia ultra partes del contratto; e da ultima – ma non ultima – la possibilità che tale efficacia operi in favore dei terzi nei casi previsti dalla legge (art. 1372, cpv. e.e.).

Tutto ciò rende ormai meno attuale il tema della natura extracontrattuale della responsabilità di cui all’art. 1669 e.e., che se non ha esaurito la propria funzione storica (per difetto di rilevanza non è questa la sede per appurarlo), di sicuro ha perso l’originaria centralità che aveva nell’interpretazione della norma.

Per le considerazioni svolte l’unico motivo di ricorso deve ritenersi fondato. Ne consegue  la cassazione della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Ancona, che nel decidere il merito si atterrà al seguente principio di diritto: “l’art. 1669 e.e. è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo”.

© massimo ginesi 5 aprile 2017

ascensore e regolamento di condominio: le spese vanno ripartite in forza dell’art. 1124 cod.civ.

Una interessante e recentissima pronuncia della Cassazione (Cass. civ. VI – 2 sez. 28 marzo 2017 n. 8015, rel. Scarpa) affronta un caso bizzarro: in un fabbricato in condominio sussiste regolamento di natura contrattuale in cui è previsto che le spese per la manutenzione delle scale avvenga ai sensi dell’art. 1124 cod.civ.; negli atti di acquisto dei condomini è altresì previsto che “la ripartizione delle spese condominiali verrà fatta in proporzione ai millesimi di proprietà e in conformità a quanto disposto dal regolamento di condominio”.

Nulla si dice in tema di ascensore, sicchè il Condominio ha ritenuto che ciò costituisse deroga convenzionale ai criteri di riparto ed ha attribuito le spese di ascensore in ragione dei millesimi generali  ex art. 1123 I comma cod.civ.: la tesi è  quantomeno singolare, eppure  ha trovato avvallo sia dal Tribunale di Verona che dalla Corte di Appello di Venezia, che hanno respinto nel merito  l’impugnativa di uno dei condomini.

Costui ricorre in Cassazione, rilevando anche un altro vizio della decisione di secondo grado relativo alla celebrazione della assemblea e alla partecipazione per delega dei condomini: in quel fabbricato il regolamento prevedeva che i partecipanti non potessero recare più di due deleghe, mentre nella delibera impugnata l’amministratore era portatore di tre deleghe (i fatti sono anteriori al 2012 e quindi non vedono diretta applicazione dell’art. 67 disp. att. cod.civ. oggi in vigore). I giudici di merito hanno ritenuto che, poichè il voto espresso da colui che portava deleghe in numero superiore non risultava decisivo, la doglianza era infondata (c.d. prova di resistenza).

La Suprema Corte riconosce invece fondati entrambi i motivi, con argomentazioni che è opportuno riportare per esteso.

SUL RIPARTO DELLE SPESE DI ASCENSORE: “Secondo l’orientamento del tutto consolidato di questa Corte, la regola posta dall’art. 1124 c.c. relativa alla ripartizione delle spese di manutenzione e di ricostruzione delle scale (per metà in ragione del valore dei singoli piani o porzione di piano, per l’altra metà in misura proporzionale all’altezza di ciascun piano dal suolo) in mancanza di criteri convenzionali, è applicabile per analogia, ricorrendo l’identica “ratio” (e poi proprio ex lege, a seguito della riformulazione dell’art. 1124 c.c. operata della legge n. 220/2012, qui non operante ratione temporis), alle spese relative alla conservazione e alla manutenzione dell’ascensore già esistente (su cui incide il logorio dell’impianto, proporzionale all’altezza dei piani). Pertanto l’impianto di ascensore è di proprietà comune – secondo la presunzione di cui all’art. 1117 n. 3 c.c., in mancanza di titolo contrario – fra tutti i condomini in proporzione al valore dell’unità immobiliare di proprietà esclusiva (art. 1118 c.c.) e la ripartizione delle spese relative all’ascensore è regolata dai criteri stabiliti dall’art. 1124 c.c. e dall’art. 1123 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3264 del 17/02/2005; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5975 del 25/03/2004; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2833 del 25/03/1999).

Anche il criterio di ripartizione delle spese condominiali stabilito dall’art. 1124 c.c., e quindi operante per la manutenzione dell’ascensore, può essere derogato, come prevede l’art. 1123 c.c., e il relativo accordo modificatore della disciplina legale di ripartizione può essere contenuto sia nel regolamento condominiale (che perciò si definisce “di natura contrattuale”), sia in una deliberazione dell’assemblea che venga approvata all’unanimità, ovvero col consenso di tutti i condomini. La deroga ai criteri legali di ripartizione delle spese condominiali suppone, tuttavia, un’espressa convenzione (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16321 del 04/08/2016, non massimata; Cass. Sez. 2, Sentenza n.28679 del 23/12/2011).

Proprio perche, in base all’art. 1124 c.c., le spese di manutenzione e ricostruzione delle scale e degli ascensori vanno assimilate e assoggettate alla stessa disciplina, senza alcuna distinzione tra le une e le altre, la clausola del regolamento condominiale che dispone che le spese di manutenzione delle scale vadano ripartite secondo l’art. 1124 c.c. non può affatto essere intesa come convenzione contraria alla suddivisione delle spese di manutenzione degli ascensori secondo lo stesso criterio; né tanto meno vale quale deroga all’art. 1124 c.c. la clausola contenuta nell’atto di acquisto che prevede che la ripartizione delle spese condominiali avvenga secondo i millesimi e in conformità a quanto disposto dal regolamento.”

SULLE DELEGHE: “La Corte d’Appello, invocando la cosiddetta prova della resistenza, ha escluso l’invalidità della deliberazione impugnata, nella quale l’amministratore ha esercitato il diritto di voto munito di tre deleghe, in violazione dell’art. 18 del regolamento condominiale, che stabilisce che nessuno possa rappresentare in assemblea più di due condomini.

Secondo, però, l’orientamento di questa Corte, la clausola del regolamento di condominio volta a limitare il potere dei condomini di farsi rappresentare nelle assemblee, riducendolo, come nella specie, a non più di due deleghe, regola l’esercizio del diritto di ciascun condomino di intervenire in questa a mezzo di delegati (art. 67, comma 1, disp. att. c.c., anch’esso modificato dalla legge n. 220/2012 con riformulazione qui non applicabile ratione temporis), inderogabile (secondo quanto si evince dal successivo art. 72) giacchè posto a presidio della superiore esigenza di garantire l’effettività del dibattito e la concreta collegialità delle assemblee, nell’interesse comune dei partecipanti alla comunione, considerati nel loro complesso e singolarmente (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5315 del 29/05/1998).

Sicchè la partecipazione all’assemblea condominiale di un rappresentante fornito di un numero di deleghe superiore a quello consentito dal regolamento di condominio, comportando un vizio nel procedimento di formazione della relativa delibera, dà luogo ad un’ipotesi di annullabilità della stessa (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7402 del 12/12/1986), senza che possa rilevare il carattere determinante del voto espresso dal delegato per il raggiungimento della maggioranza occorrente per l’approvazione della deliberazione stessa.”

© massimo ginesi 4 aprile 2017

 

 

l’insidia in condominio e il dovere di custodia: non va risarcito il danneggiato che non usa l’ordinaria diligenza.

La Cassazione (Cass. Civ. VI sez. ord. 31.1.2017, n. 2556)  ritorna sull’art. 2051 cod.civ. confermando le sentenze di merito che avevano respinto le richieste di un soggetto rimasto infortunato per una caduta sula rampa di acesso ai box, dovuta alla presenza di ghiaccio.

La Corte, riprendendo un orientamento consolidato nella lettura dell’art. 2051 cod.civ., afferma: “Infatti ai sensi dell’art. 2051 c.c., allorché venga accertato, anche in relazione alla mancanza di intrinseca pericolosità della cosa oggetto di custodia, che la situazione di possibile pericolo, comunque ingeneratasi, sarebbe stata superabile mediante l’adozione di un comportamento ordinariamente cauto da parte dello stesso danneggiato, deve escludersi che il danno sia stato cagionato dalla cosa, ridotta al rango di mera occasione dell’evento, e ritenersi, per contro, integrato il caso fortuito (Cass. n. 12895/2016). A maggior ragione nel caso di specie dove il sinistro subito dal ricorrente poteva essere evitato tenendo un comportamento ordinariamente cauto in considerazione nel periodo invernale delle intense nevicate e delle temperature particolarmente rigide.”

© massimo ginesi 4 aprile 2017

 

mediazione ed opposizione a decreto ingiuntivo: una tesi innovativa.

La afferma il Tribunale di Pavia che, con ordinanza 9 marzo 2017, ha stabilito – dissentendo dall’orientamento della cassazione – che, in caso di opposizione a decreto ingiuntivo in cui sia stata negata la provvisoria esecutorietà, il giudice può disporre la mediazione stabilendo che sia l’opposto a dover dare formale inizio al procedimento e che – ove ciò non avvenga – verrà dichiarata l’improcedibilità della opposizione e revocato il decreto.

Con lo stesso provvedimento il Tribunale lombardo ha anche ordinato che al procedimento di mediazione partecipi un terzo che non è parte del processo, ma dalla cui posizione può dipendere l’esito positivo della mediazione e che il mediatore debba verbalizzare al primo incontro le ragioni che impediscono la prosecuzione della mediazione.

“Considerato che la mediazione è una procedura informale che consente, con l’accordo delle parti, di chiamare in mediazione anche soggetti diversi da quelli coinvolti nel giudizio, specie se con la loro partecipazione a quella procedura essi possono oggettivamente aiutare le parti processuali nella ricerca di una soluzione amichevole della causa in corso e, nel contempo, prevenire la formazione di ulteriore contenzioso giudiziario, rispetto al quale la definizione giudiziale della presente opposizione sarebbe l’antecedente logico;

Valutato preliminarmente che la parte onerata dell’avvio della procedura di mediazione, come stabilito da Cass. 24629/15, sarebbe normalmente l’opponente e che il mancato avvio della mediazione determinerebbe la sanzione della conferma del decreto, ex art. 653, co. 1, cpc;

Ritenuto tuttavia che, da un lato, con ordinanza del 17.09.2015 non era concessa la provvisoria esecuzione del decreto di consegna della documentazione fideiussoria, emesso in sede monitoria e, dall’altro, che residua al magistrato la discrezionalità, da applicare nel caso di specie, di ritenere più opportuno porre l’onere dell’avvio in capo al convenuto opposto, dissentendo motivatamente da quanto stabilito dalla citata Cass 24629/15, che non aveva mai preso in considerazione la pur rilevante distinzione tra decreti ingiuntivi ai quali è concessa la provvisoria esecuzione (che da una prima valutazione possono apparire fondati) e decreti ai quali tale provvisoria esecuzione è stata negata (che da una prima valutazione possono invece apparire infondati), come appunto verificatosi nella specie;

Ritenuto infine che per imprescindibili motivi di organizzazione del ruolo, l’udienza di precisazione conclusioni, già programmata per il 9.03.2017 deve necessariamente essere rinviata al 2018;

Ciò premesso, visto l’art. 5, co. 2, D.Lgs. 28/2010, dispone Che le parti partecipino a una procedura di mediazione, invitando la parte più diligente ad avviare la procedura ma ponendo l’onere formale dell’avvio in capo al convenuto opposto, avvisandolo che in difetto la sua domanda di merito sarà dichiarata improcedibile e il decreto sarà revocato;

Viste le particolarità del presente giudizio, si invita la parte che avvia la procedura di mediazione a convocare avanti al mediatore sia la controparte processuale che il terzo, debitore principale, dal quale dipende, secondo le prospettazioni della banca opponente, l’impossibilità giuridica di produrre la documentazione chiesta dall’opposto con l’ingiunzione di pagamento;

Ritenuto che il regolare ed effettivo svolgimento della mediazione sarà condizione di procedibilità del giudizio, si avvisa che non sarà considerata soddisfatta la condizione con un mero incontro preliminare tra i difensori delle parti e il mediatore, essendo all’uopo necessaria la personale presenza delle parti o di loro procuratori ad negotia, muniti del potere di concludere l’accordo;

Si invitano le parti, ove una di esse dichiarasse la propria impossibilità di partecipare o di proseguire nella mediazione oltre il primo incontro, e ove in tale eventualità non fosse disposto un rinvio per consentirle di partecipare, a chiedere che il mediatore verbalizzi quali ostacoli oggettivi impediscono la partecipazione al primo incontro o si frappongono alla prosecuzione della mediazione oltre il primo incontro. Tale verbalizzazione non sarà considerata in violazione della riservatezza, riportando elementi valutabili ai fini delle decisione, ex art. 116, co. 2, cpc.”

© massimo ginesi 31 marzo 2017

quando il cortile sottostà al regime della comunione

Se al momento in cui sorge il condominio l’originario unico proprietario dell’edificio si riserva la proprietà dell’area esterna, questa non diventa condominiale ai sensi dell’art. 1117 cod.civ.

Ove successivamente costui alieni a più soggetti quell’area, costoro ne godranno in forza del regime di comunione e non di condominio, ivi compresa la presunzione di uguaglianza delle quote.

Lo ha stabilito Corte di Cassazione, sez. VI Civile  24 marzo 2017, n. 7743,  Rel. Scarpa: “Secondo le emergenze documentali di giudizio invocate dalla stessa ricorrente, il Condominio (omissis) , deve intendersi sorto con l’atto di frazionamento dell’iniziale unica proprietà di V.S.I. mediante alienazione, per atto del 27 luglio 1973, dell’unità immobiliare al secondo piano a S.M. e D.P.L. . Originatasi a tale data la situazione di condominio edilizio, dallo stesso momento doveva intendersi operante la presunzione legale ex art. 1117 c.c. di comunione “pro indiviso” di tutte quelle parti del complesso che, per ubicazione e struttura, fossero – in tale momento costitutivo del condominio – destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze generali e fondamentali del condominio stesso (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26766 del 18/12/2014). Va detto che il cortile fa parte delle cose comuni di cui all’art. 1117 c.c., per tale intendendosi qualsiasi area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serve a dare luce e aria agli ambienti circostanti, ma anche comprensivo dei vari spazi liberi disposti esternamente alle facciate degli edifici – quali gli spazi verdi, le zone di rispetto, le intercapedini, i parcheggi – sebbene non menzionati espressamente nell’art. 1117 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7889 del 09/06/2000).

Tuttavia, dal titolo del 27 luglio 1973 risultava, in contrario, una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente alla venditrice V.S.I. la proprietà dello scoperto. La negazione della condominialità dell’area scoperta risale, quindi, irreversibilmente al momento costitutivo del condominio stesso.

Ne consegue che, nel caso in esame: 1) essendo sorto “ipso iure et facto” il condominio (omissis) al momento dell’atto del 27 luglio 1973, quando l’originaria unica proprietaria V.S.I. ebbe ad alienare a terzi la prima unità immobiliare suscettibile di utilizzazione autonoma e separata; 2) ed essendosi la medesima venditrice, in quello stesso momento, riservata la qualità di proprietaria esclusiva dell’area scoperta; 3) V.S.I. ha poi disposto della stessa area scoperta come proprietaria unica di detto bene con la compravendita del 17 marzo 1981, la quale comprendeva nella comproprietà ceduta a S.G. anche lo scoperto.

Non avendo tale atto costitutivo della comproprietà sull’area scoperta determinato la quota spettante a ciascuno dei due comproprietari sulla cosa comune, opera in questa ipotesi la presunzione di pari entità delle quote dei partecipanti alla comunione, fissata dall’art. 1101, comma 1, c.c..”

© massimo ginesi 28 marzo 2017