edilizia convenzionata, condominio e sottotetto

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Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza  23 novembre 2016, n. 23902
Presidente Manna – Relatore Scarpa

La Suprema Corte affronta due temi interessanti: l’applicabilità delle norme sul condominio agli edifici edificati in regime di edilizia convenzionata e la riconoscibilità del sottotetto alle parti comuni, a mente dell’art. 1117 cod.civ. e avuto riguardo alla sua funzione, in assenza di espressa previsione nel titolo.

La vicenda urge quanto il costruttore dell’edificio conviene in giudizio il Condominio, assumendo di  “aver realizzato, nell’ambito di un piano di edilizia economico-popolare, l’edificio condominiale sito in (omissis), e che l’intervento abilitato prevedeva una volumetria massima, nella quale non erano compresi i sottotetti”, evidenziando che  “tali vani sottotetto non fossero stati oggetto di singole vendite, chiedeva di dichiarare la sua proprietà esclusiva dei sottotetti”

Il Condominio si costituiva eccependo  “il proprio difetto di legittimazione passiva e comunque invocando il disposto dell’art. 1117 c.c., formulando domanda riconvenzionale per ottenere la condanna della Ediltorre S.r.l. a rimuovere le chiusure dei sottotetti ed a risarcire i conseguenti danni”

In primo grado veniva respinta la domanda del costruttore e accolta la riconvenzionale proposta dal condominio mentre in Appello il verdetto veniva ribaltato a favore del costruttore.

La vicenda approda dinanzi al giudice di legittimità, ove vengono affrontati due temi distinti e di grande interesse applicativo.

Quanto alla applicabilità della disciplina condominiale agli edifici di edilizia c.d. convenzionata la Corte osserva che: “Non rileva, ai fini dell’esclusione dell’applicabilità dell’art. 1117 c.c., il dato che l’intervento edilizio realizzativo del Condominio […] rientrasse nell’ambito della cosiddetta “edilizia convenzionata”, essendo la Ediltorre s.r.l. soggetto attuatore di un programma edificatorio di edilizia residenziale pubblica e concessionaria del diritto di superficie sull’area, in forza di convenzione ex art. 35, legge 22 ottobre 1971, n. 865. Questa legge prevede la stipula di una convenzione tra l’amministrazione comunale ed il cessionario in piena proprietà o, come nella specie, il concessionario del diritto di superficie dell’area, soggetto attuatore dell’intervento edilizio, che può essere, ancora come nella specie, anche un’impresa di costruzione. La convenzione in esame, oltre che il trasferimento della proprietà o la costituzione del diritto di superficie, disciplina termini, modalità, caratteristiche e garanzie dell’intervento edilizio ed urbanistico, nonché la successiva gestione degli alloggi da parte degli acquirenti, determinando i vincoli e le limitazioni alla disponibilità degli alloggi trasferiti. La convenzione predetermina, pertanto, altresì le caratteristiche costruttive e tipologiche degli edifici da realizzare, nonché l’obbligo a praticare prezzi di cessione concordati. Già l’art. 23, comma 2, della legge 17 febbraio 1992, n. 179, abrogò, peraltro, il divieto di alienazione degli alloggi costruiti su area ceduta in proprietà, originariamente previsto dall’art. 35 citato.
Questa Corte ha chiarito, peraltro, che il vincolo del prezzo massimo di cessione dell’immobile in regime di edilizia agevolata ex art. 35 della l. n. 865 del 1971, qualora non sia intervenuta la convenzione di rimozione ex art. 31, comma 49 bis, della l. n. 448 del 1998, segue il bene nei passaggi di proprietà, a titolo di onere reale, con efficacia indefinita, attesa la ratio legis di garantire la casa ai meno abbienti, senza consentire operazioni speculative di rivendita (Cass. Sez. U, Sentenza n. 18135 del 16/09/2015).
Una volta che si sia verificata l’alienazione in piena proprietà degli alloggi costruiti dall’impresa attuatrice dell’intervento edilizio convenzionato, non vi sono, tuttavia, ostacoli normativi a ritenere pienamente operante la normativa comune sugli edifici in condominio di cui agli artt. 1117 segg. c.c.

quanto alla titolarità del sottotetto viene riaffermata la prevalenza della destinazione e della funzione, in assenza di espressa previsione nel titolo, per determinare la ascrivibilità del sottotetto al novero delle parti comuni: “Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, agli effetti dell’art. 1117 c.c. (in tal senso, peraltro, testualmente integrato, con modifica, in parte qua, di natura interpretativa, dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220) i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune (già così, del resto, indipendentemente dall’integrazione dell’art. 1117 c.c. nel richiamato senso, disposta dalla Riforma del 2012, si erano pronunciate Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6143 del 30/03/2016; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8968 del 20/06/2002; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7764 del 20/07/1999).
Altrimenti, ove non sia evincibile il collegamento funzionale, ovvero il rapporto di accessorietà supposto dall’art. 1117 c.c., tra il sottotetto e la destinazione all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune, giacche lo stesso sottotetto assolva all’esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall’umidità l’appartamento dell’ultimo piano, e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo, esso va considerato pertinenza di tale appartamento. La proprietà del sottotetto si determina, dunque, in base al titolo e, in mancanza, in base alla funzione cui esso è destinato in concreto: nel caso in esame, la Corte di appello di Brescia, con apprezzamento di fatto spettante in via esclusiva al giudice del merito, ha accertato che tali locali sottotetto del Condominio […], almeno fino al cambio della serratura, erano stati utilizzati da tutti i condomini e che, pertanto, gli stessi non fossero oggetto di un autonomo godimento, desumendone convincentemente la condominialità dei beni in questione.
Per negare la proprietà condominiale del sottotetto di un edificio che, per ubicazione e struttura, come accertato, sia destinato all’uso comune, occorre allora fare riferimento all’atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dall’originario unico proprietario ad altro soggetto, indagando se la previa delimitazione unilaterale dell’oggetto del trasferimento sia stata recepita nel contenuto negoziale per concorde volontà dei contraenti e se, dunque, da esso emerga, o meno, l’inequivocabile volontà delle parti di riservare al costruttore venditore la proprietà di quel bene potenzialmente destinato all’uso comune.”

© massimo ginesi 25 novembre 2016

La Cassazione ritorna su parcheggi e prescrizione

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La Suprema Corte ritorna su un tema dalle mille sfaccettature e su cui, negli ultimi giorni, già si era pronunciata.

Cass. Civ. II sez. 21 novembre 2016 n. 23669 afferma un interessante principio, suscettibile di  significative conseguenze sul piano applicativo: il diritto di parcheggio, ove non usato per oltre venti anni si prescrive, sotto il profilo civilistico, in capo all’originario beneficiario, pur permanendo il vincolo di destinazione che ha invece rilievo pubblico ed è imprescrittibile.

Afferma la Corte “Ai sensi dell’articolo 41 sexies  della legge urbanistica nel testo vigente all’epoca di introduzione della lite le nuove costruzioni ed anche nelle aree di  pertinenza delle costruzioni stesse devono essere riservati spazi per parcheggi in misura non inferiore ad 1 m² per ogni 10 m³ di costruzione. Tale disposizione, come è noto,  è stata interpretata dalla giurisprudenza nel senso che il diritto attribuito ex lege ai proprietari delle singole unità immobiliari sugli spazi di parcheggio, dei quali il venditore sì si è riservato la proprietà, è di natura reale e può estinguersi per non uso soltanto con il decorso di 20 anni in base al combinato disposto degli articoli 1014 n.1  e 1026 codice civile, fermo restando in ogni caso il vincolo di destinazione che ha carattere pubblicistico permanente.

Orbene la permanenza del vincolo pubblicistico di destinazione trae punto che questo possa esplicarsi solo a favore dei proprietari delle res principales (cioè, nella specie, dei condomini), ben potendo essere attuata anche dai terzi proprietari dell’area, ad esempio locando i relativi spazi a terzi…

Tale interesse pubblico,…, non giustifica però l’imprescrittibiltà del diritto d’uso del proprietario dell’appartamento ai sensi dell’articolo 2934 cpv codice civile… Vi osta la duplice ragione che  detta norma nel riferirsi ai diritti indisponibili intende cosiddetti iura status,  vale a dire i diritti relativi allo stato la capacità delle persone, il diritto di proprietà nel senso della imprescrittibilità dell’azione di rivendicazione e delle facoltà che formano il contenuto di un diritto soggettivo e che proprio il carattere pubblico e permanente del vincolo di destinazione pone quest’ultimo al riparo dalle vicende private, essendo indifferente ai fini del corretto assetto urbanistico  del territorio se la area di parcheggio sia goduta dei proprietari di quei medesimi appartamenti in relazione ai quali essa è stata calcolata, ovvero da terzi.”

L’area destinata a parcheggio – in attuazione di norme di carattere pubblicistico – dovrà continuare ad assolvere la propria funzione, e  non potrà quindi vedere mutata la sua destinazione, ma per lo Stato rimane indifferente chi sia il soggetto che in concreto ne fruirà, essendo invece tali rapporti soggetti a principi privatistici.

© massimo ginesi 22 novembre 2016 

regolamento condominiale e opponibilità: uno strano caso.

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E’ principio consolidato nella giurisprudenza che solo il regolamento di natura contrattuale possa prevedere  limiti alla proprietà individuale, così come è tesi consolidata che la natura contrattuale del regolamento possa essere desunta dalla sua allegazione all’atto di acquisto delle singole unità, anche mediante il richiamo di singole clausole.

Affinché il richiamo del regolamento sia efficace, e divenga opponibile all’acquirente, il testo di tale atto deve essere esistente  e conoscibile al momento dell’acquisto, non potendo ritenersi idoneo a vincolare l’acquirente il generico richiamo ad un futuro regolamento ancora da predisporre.

La Suprema Corte ha tuttavia affrontato un caso peculiare, in cui il regolamento  prevedeva il divieto di installare vasi da fiori sulla terrazza, giunto al suo esame poiché il proprietario dell’unità immobiliare attigua assumeva che tali vasi gli impedissero la visuale.

Tale regolamento non era esistente al momento dell’acquisto delle singole unità, ma l’acquirente nell’atto di compravendita conferiva procura speciale al costruttore per la sua redazione.

Cass. civ. II sez.  14 novembre 2016, n. 2312 così enuclea i fatti “S.F. e P.G.L. , con atto di citazione notificato nel 1998 convenivano in giudizio davanti al Tribunale di Tempio Pausiana, C.G. e sul presupposto di essere proprietari di un appartamento situato in un Condominio (omissis) in località (omissis) confinante con quello del convenuto il quale aveva sistemato sul parapetto del proprio terrazzo un vaso di fiori parzialmente occlusivo della vista mare esercitabile da essi in violazione del regolamento condominiale contrattuale”.

La Corte di legittimità condivide la soluzione cui già era pervenuto il giudice di merito osservando che ” la clausola n. 9 del contratto di compravendita del C. così come riportata dallo stesso ricorrente, posto che afferma che “(…) la parte acquirente rilascia alla società venditrice procura speciale affinché la stessa in nome e per conto di essa parte rappresentata, oltre che in nome proprio, provveda: ad effettuare presso un notaio in modo che possa operarsi anche la relativa trascrizione il deposito del Regolamento di Condominio in corso di predisposizione a cure e spese della società venditrice, regolamento di condominio in cui sono precisate: le tabelle millesimali (….) le limitazioni imposte alle destinazioni delle porzioni immobiliari di proprietà individuali (….) la precisazione di limitazioni ed obblighi da rispettarsi nell’interesse dell’ordine e del godimento come, l’obbligo di coltivare e mantenere decorosamente a giardino le porzioni di aree cedute in proprietà il regolamento circa i divieti (…..), dà la possibilità di intendere, per logica interna e per un significato complessivo della stessa clausola, nonché per il richiamo effettuato al Regolamento di condominio in fase di predisposizione a cura e spese della società e alle materie che lo stesso avrebbe disciplinato, che la procura speciale ricomprendesse il mandato alla società venditrice di predisporre il Regolamento condominiale, anche per conto del C.”

Osserva la Corte suprema che va “in particolare definitivamente acquisito il decisivo punto conclusivo dell’iter argomentativo svolto, e cioè che “(…) dall’esame dell’atto di acquisto dell’unità immobiliare si evince che l’appellante ha conferito specifica procura speciale alla società costruttrice per predisporre il Regolamento condominiale in nome e per conto dell’acquirente C. , oltre che nel proprio interesse”, con il conseguente pacifico risultato che l’atto compiuto dal mandatario (ovvero la predisposizione del regolamento contrattuale da parte del costruttore venditore) produce i propri effetti giuridici direttamente nella sfera del mandante (l’acquirente).

Interessante anche la disamina processuale effettuata dalla corte sui motivi di ricorso e, sulla loro ammissibilità : “Il senso attribuito dalla Corte distrettuale alla clausola in esame, pertanto, rientra in una possibilità interpretativa e, come è stato già detto da questa Corte, in altra occasione, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data del giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni, sì che, quando di una clausola contrattuale siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte, che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice del merito, dolersi in sede di legittimità che sia stata privilegiata l’altra (Cass. 12 luglio 2007, n. 15604; Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178; Cass. 14 novembre 2003, n. 17248). In sostanza la censura svolta dai ricorrenti si risolve nella mera contrapposizione di un’interpretazione ritenuta più confacente alle loro aspettative e asseritamente più persuasiva di quella accolta nella sentenza impugnata, il che, come detto, è tuttavia inammissibile in questa sede di legittimità.”

© massimo ginesi 21 novembre 2016

uso del tetto e art. 1102 cod.civ.: un contrasto giurisprudenziale?

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La Cassazione si pronuncia sull’utilizzo del tetto da parte del singolo e ritiene, in linea con un proprio orientamento, che la costruzione di una altana (manufatto tipico dell’area veneziana) costituisca uso che urta i limiti di cui all’art. 1102 cod.civ.

In part. Cass. civ. II sez. 15 novembre 2016 n. 23243 rileva che “la giurisprudenza di questa Corte è concorde nel ritenere che, in tema di condominio, sono legittimi, ai sensi dell’art. 1102 cod. civ., sia l’utilizzazione della cosa comune da parte del singolo condomino con modalità particolari e diverse rispetto alla sua normale destinazione, purché nel rispetto delle concorrenti utilizzazioni, attuali o potenziali, degli altri condomini, sia l’uso più intenso della cosa, purché non sia alterato il rapporto di equilibrio tra tutti i comproprietari, dovendosi a tal fine avere riguardo all’uso potenziale in relazione ai diritti di ciascuno; con la conseguenza che, per converso, deve qualificarsi illegittima la trasformazione – anche solo di una parte – del tetto dell’edificio in terrazza ad uso esclusivo del singolo condomino, risultando in tal modo alterata la originaria destinazione della cosa comune, sottratta all’utilizzazione da parte degli altri condomini (cfr., ad es., Cass. n. 1737 del 2005; Cass. n. 24414 del 2006 e Cass. n. 5753 del 2007)”

“La questione è stata già esaminata e risolta dalla giurisprudenza di questa Corte, che è pervenuta ad affermare il principio – condiviso dal Collegio e dal quale non v’è ragione di discostarsi – secondo cui, in tema di condominio negli edifici, la cosiddetta “altana” (denominata anche “belvedere”), struttura tipica dei palazzi veneziani, non costituisce “nuova fabbrica” in sopraelevazione, agli effetti dell’art. 1127 cod. civ., in quanto dà luogo ad un intervento che non comporta lo spostamento in alto della copertura, mediante occupazione della colonna d’aria sovrastante il medesimo fabbricato, quanto, piuttosto, la modifica della situazione preesistente, attuata attraverso una diversa ed esclusiva utilizzazione di una parte del tetto comune, con relativo potenziale impedimento all’uso degli altri condomini; l’altana, piuttosto, consistendo in una modifica della situazione preesistente mediante una diversa ed esclusiva utilizzazione di una parte della porzione comune del tetto con relativo impedimento agli altri condomini dell’inerente uso, comporta la violazione del divieto stabilito dall’art. 1120 comma 2 cod. civ., essendo indubbio che gli altri condomini vengono privati delle potenzialità di uso (come quelle, ad es., riconducibili alla possibilità di installazione di antenne e alla riparazione o manutenzione della copertura stessa) della parte di tetto occupata dalla struttura dell’altana a beneficio esclusivo del condominio che l’ha realizzata (Sez. 2, Sentenza n. 5039 del 28/02/2013, Rv. 625277; Sez. 2, Ordinanza n. 7906 del 2011, non massimata).”

La pronuncia si rivela interessante laddove generalizza il principio di diritto:
In altre parole, qualora il proprietario dell’ultimo piano di un edificio condominiale provveda a modificare una parte del tetto trasformandola in terrazza (od occupandola con altra struttura equivalente od omologa) a proprio uso esclusivo, tale modifica è da ritenere illecita, non potendo essere invocato l’art. 1102 cod. civ., poiché non si è in presenza di una modifica finalizzata al migliore godimento della cosa comune, bensì all’appropriazione di una parte di questa, che viene definitivamente sottratta ad ogni possibilità di futuro godimento da parte degli altri, senza che possa assumere rilievo il fatto che la parte di tetto sostituita od occupata permanentemente continui a svolgere la funzione di copertura dell’immobile.

Tale orientamento sembrerebbe porsi in contrasto con altro, espresso di recente dalla stessa Corte, a proposito delle terrazze a tasca, ove si suggerisce una lettura “evolutiva” dell’art. 1102 cod.civ.

Cass. civ. II sez. 3 agosto 2012 n. 14107 affermava : “Muovendo da questi principi, che contengono pertinenti richiami al principio solidaristico, si impone una rilettura delle applicazioni dell’istituto di cui all’art. 1102 c.c., che sia quanto più favorevole possibile allo sviluppo delle esigenze abitative.
Questo sviluppo si ripercuote favorevolmente sulla valorizzazione della proprietà del singolo, ma mira soprattutto a moderare le istanze egoistiche che sono sovente alla base degli ostacoli frapposti a modifiche delle parti comuni come quella in esame. In una visione del regime condominiale tesa a depotenziare i poteri preclusivi dei singoli e a favorire la correntezza dei rapporti (si pensi a Cass. SU 4806/05 in tema di deliberazioni nulle o annullabili) non è coerente, nè credibile, intendere la clausola del “pari uso della cosa comune” come veicolo per giustificare impedimenti all’estrinsecarsi delle potenzialità di godimento del singolo.
Qualora non siano specificamente individuabili i sacrifici in concreto imposti al condomino che si oppone, non si può proibire la modifica che costituisca uso più intenso della cosa comune da parte del singolo, anche in assenza di un beneficio collettivo derivante dalla modificazione.
Non lo si può chiedere in funzione di un’astratta o velleitaria possibilità di alternativo uso della cosa comune o di un suo ipotetico depotenziamento (cfr Cass. 4617/07), ma solo ove sia in concreto ravvisabile che l’uso privato toglierebbe reali possibilità di uso della cosa comune agli altri potenziali condomini-utenti (cfr Cass. 17208/08 che ha escluso la legittimità dell’installazione e utilizzazione esclusiva, da parte di un condomino titolare di un esercizio commerciale, di fioriere, tavolini, sedie e di una struttura tubolare con annesso tendone).
Se è intuitivo, alla stregua della definizione data da 8808/03, che non è conforme a diritto impedire al proprietario del sottotetto di installare una finestra da tetto perchè il proprietario di un piano intermedio non potrebbe fare altrettanto, è inevitabile interrogarsi sulla nuova frontiera tra uso consentito della cosa comune e alterazione di essa, alla luce da un lato del principio solidaristico e dall’altro delle moderne possibilità edificatorie.
La destinazione della cosa, di cui è vietata l’alterazione, è da intendere in una prospettiva dinamica del bene considerato. La possibilità, dianzi ricordata, di applicare finestre da tetto con notevole efficacia coibente e gradevoli esteticamente contribuisce senz’altro a far ritenere compatibile tale utilizzo con il rispetto della destinazione del bene.
Altrettanto può valere per la realizzazione di piccole terrazze che sostituiscano efficacemente il tetto spiovente nella funzione di copertura dell’edificio.
Non è funzionalmente alterata la destinazione del tetto, se alla falda si sostituisce un’opera di isolamento e coibentazione inserita nel piano di calpestio.
Rimane da chiedersi se la materiale soppressione di una porzione limitata della falda sia di per sè alterazione della destinazione della cosa.
La risposta deve essere negativa, perchè per destinazione della cosa si intende la complessiva destinazione di essa, che deve essere salva in relazione alla funzione del bene e non alla sua immodificabile consistenza materiale.
Pertanto la soppressione di una piccola parte del tetto, se viene salvaguardata diversamente la funzione di copertura e si realizza nel contempo un uso più intenso da parte del condomino, non può esser intesa come alterazione della destinazione, comunque assolta dal bene nel suo complesso.
Ovviamente il giudizio sul punto andrà formulato caso per caso, in relazione alle circostanze peculiari e si risolve in un giudizio di fatto sindacabile in sede di legittimità solo avendo riguardo alla motivazione.”

E’ plausibile che il contrasto sia solo apparente e che tutto si risolva in sede di apprezzamento delle modifiche effettivamente compiute, laddove il giudice di merito valuterà  se e quanto la modifica del bene comune incida in concreto sulla possibilità di godimento degli altri condomini.

Tuttavia la formulazione astratta del principio da parte della Suprema Corte sembra declinata nella sentenza attuale in maniera decisamente meno fluida e più formale rispetto all’orientamento espresso nel 2012.

© massimo ginesi 18 novembre 2016 

art. 1127 cod.civ. – le condizioni statiche dell’edificio rappresentano un limite all’esistenza del diritto di sopraelevazione

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La Suprema Corte affronta il complesso tema  della sopraelevazione in condominio, con una recentissima pronuncia che attiene all’esistenza stessa del diritto di  alzare nuovi piani di fabbrica previsto dall’art. 1127 cod.civ.

La sentenza (Cass. civ. II sez. 15 novembre 2016 n. 23256, relatore Antonio Scarpa),  afferma un importante principio:  le condizioni generali dell’edificio – compresa la loro non rispondenza alla normativa antisismica – non costituiscono oggetto di successiva verifica della legittimità delle opere di innalzamento ma rappresentano un presupposto dell’esistenza del diritto a sopraelevare.

Nel caso di specie il CTU, nel primo grado di giudizio, aveva evidenziato come le opere poste in essere dalla condomina che intendeva sopraelevare non comportassero di per sé un aggravio significativo sotto il profilo della stabilità sismica, pur evidenziando che l’intero fabbricato non era in regola con detta normativa. Tale valutazione tecnica aveva condotto il Tribunale di Rossano e poi la Corte d’Appello di Catanzaro a rigettare le richieste del Condominio, ritenendo legittima l’opera di innalzamento.

Il condominio ricorre al giudice di legittimità assumendo che “trattandosi di edificio costruito nel 1968, mai reso conforme prescrizione tecniche dettate dalla legislazione antisismica, doveva per forza ritenersi sussistente la possibilità di eseguire la soprelevazione”

La Suprema Corte accoglie il ricorso con riguardo a tale motivo, cassa la decisione della Corte di Appello e rinvia ad altra sezione della stessa corte affinché giudichi attenendosi ai principi di diritto enunciati:  “E’ noto come l’art. 1127 cod.civ. sottopone il diritto di sopraelevazione del proprietario dell’ultimo piano dell’edificio ai limiti dettati dalle condizioni statiche dell’edificio che non la consentono, ovvero dall’aspetto architettonico dell’edificio stesso, oppure dalla conseguente notevole diminuzione di aria e luce per i piani  sottostanti. Il limite segnato dalle condizioni statiche si intende da questa Corte, in particolare, come espressivo di un divieto assoluto, cui è possibile ovviare soltanto se, con il consenso unanime dei condomini, il proprietario sia autorizzato all’esecuzione delle opere di rafforzamento e di consolidamento necessarie a rendere idoneo il fabbricato a sopportare il peso della nuova costruzione”

“Ne consegue che le condizioni statiche dell’edificio rappresentano un limite all’esistenza stessa del diritto di sopraelevazione, e non già l’oggetto di verificazione e di consolidamento per il futuro esercizio dello stesso, limite che si sostanzia nel potenziale pericolo per la stabilità del fabbricato derivante dalla sopraelevazione, il cui accertamento costituisce apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21491 del 30/11/2012)”.

La sentenza, per la finezza dell’estensore e per i particolari sul caso concreto affrontato, merita lettura integrale e potrà interessare anche i processualcivilisti, per quel che attiene agli aspetti tecnici della formulazione del  ricorso per cassazione.

In tema di sopraelevazione è opportuno ricordare anche l’orientamento ampio della Suprema Corte, che ha ritenuto riconducibile alla previsione dell’art. 1127 cod.civ. ogni ampliamento che comporti un ampliamento del volume esistente: “Costituisce sopraelevazione l’intervento edificatorio che comporti lo spostamento in alto della copertura del fabbricato, in modo da occupare lo spazio sovrastante e superare l’originaria altezza dell’edificio. La nozione di sopraelevazione non va pertanto limitata alla costruzione di nuovi piani dell’edificio, ma si estende ad ogni intervento che comporta l’innalzamento della copertura del fabbricato” Cassazione Civile, sez. II, 12.08.2011, n. 17284

© massimo ginesi 17 novembre 2016 

il distacco dall’impianto di riscaldamento dopo la L. 220/2012

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Il giudice di legittimità  affronta l’annoso problema del distacco del singolo condomino dall’impianto di riscaldamento centralizzato alla luce  dell’art. 1118 cod.civ. nella nuova formulazione  introdotta dalla L. 220/2012.

La Corte di Cassazione,  VI sez. Civile  con sentenza del  3 novembre 2016, n. 22285 ha deciso una controversia  che aveva visto il singolo condomino vittorioso  in primo grado e poi soccombente in appello. La pronuncia è interessante perchè stabilisce che è onere di colui che intende distaccarsi fornire la prova che la sua iniziativa non comporta squilibri o aggravi di spesa.

i fatti e lo svolgimento processuale: “G.C.B. impugnava la delibera dei Condominio di Via (omissis) in (omissis)con la quale l’assemblea condominiale decideva di non concedere il distacco dall’impianto di riscaldamento condominiale alla proprietà C.B., in quanto avrebbe danneggiato le altre unità immobiliari sia dal lato economico, che di rendimento del riscaldamento. Eccepiva il ricorrente l’inefficacia della delibera in violazione dei diritto individuale del condomino di ottenere quanto richiesto.
Si costituiva il Condominio di Via (omissis), eccependo l’incompetenza del giudice adito e sostenendo la competenza del Giudice di Pace. In subordine, contestava le argomentazioni poste a fondamento dell’impugnazione e sosteneva la piena legittimità della delibera. Esperiva domanda riconvenzionale chiedendo il pagamento, delle spese legali sostenute in un precedente accertamento tecnico preventivo intercorso tra le parti ed avente come oggetto l’impianto di riscaldamento centralizzato ed, in particolare, il suo collegamento con i locali di proprietà dei sig. C.B..
II Tribunale dichiarava la competenza del Giudice di pace. II processo veniva riassunto davanti al Giudice di Pace di Milano e si costituiva il condominio richiamando quanto argomentato in precedenza.
II Giudice di Pace, con sentenza n. 108226 del 2012, accoglieva l’impugnazione, dichiarando la nullità della delibera sul punto relativo al distacco del riscaldamento. Dichiarava il diritto di C.B. ad eseguire il richiesto distacco.
Il Tribunale di Milano pronunciandosi sull’appello proposto dal Condominio di via (omissis), con contraddittorio integro, con sentenza n. 8342 del 2014 accoglieva l’appello e, in riforma della sentenza impugnata rigettava l’impugnazione azionata da G.C.B., in accoglimento della domanda riconvenzionale, condannava G.C.B. al pagamento della somma di €. 4.037,75 oltre interessi legali a titolo di risarcimento danni. Condannava C.B. al pagamento delle spese dei doppio grado del giudizio. Secondo il Tribunale di Milano, C.B. non avrebbe dimostrato la sussistenza dei requisiti necessari per operare il distacco del proprio appartamento dal riscaldamento condominiale e, cioè, che per il distacco dal proprio immobile dall’impianto di riscaldamento condominiale non fossero derivati notevoli squilibri di funzionamento od aggravi di spesa per gli altri condomini, non avendo il condomino (omissis) prodotto alcuna relazione termotecnica”

il principio di diritto: la questione relativa al distacco di un condominio dall’impianto centralizzato condominiale trova la sua immediata disciplina nella normativa di cui all’art. 1118 cod. civ. come modificata dalla L. n. 220 del 2012, in vigore dal 18 giugno 2013, cc. dd. riforma dei condominio. Tale normativa ha, espressamente, ammesso la possibilità dei singolo condomino di distaccarsi dall’impianto centralizzato di riscaldamento o di raffreddamento ma a condizione che dimostri che dal distacco non derivino notevoli squilibri di funzionamento dell’impianto od aggravi di spesa per gli altri condomini. Il condomino che intende distaccarsi deve, in altri termini, fornire la prova che “dal suo distacco non derivino notevoli squilibri all’impianto di riscaldamento o aggravi di spesa per gli altri condòmini”, e la preventiva informazione dovrà necessariamente essere corredata dalla documentazione tecnica attraverso la quale egli possa dare prova dell’assenza di “notevoli squilibri” e di “assenza di aggravi” per i condomini che continueranno a servirsi dell’impianto condominiale. L’onere della prova in capo al condomino, che intenda esercitare la facoltà del distacco viene meno, come bene ha evidenziato la stessa sentenza impugnata, soltanto nel caso in cui l’assemblea condominiale abbia effettivamente autorizzato il distacco dall’impianto comune sulla base di una propria autonoma valutazione della sussistenza dei presupposti di cui si è detto Con l’ulteriore specificazione che colui che intende distaccarsi dovrà, in presenza di squilibri nell’impianto condominiale e/o “aggravi” per i restanti condòmini, rinunciare dal porre in essere il distacco perché diversamente potrà essere chiamato al ripristino dello status quo ante. Né, ed è bene precisarlo, l’interessato, ai sensi dell’art. 1118 cod. civ., potrà effettuare il distacco e ritenere di essere tenuto semplicemente a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma”, poiché tale possibilità è prevista solo per quei soggetti che abbiano potuto distaccarsi, per aver provato che dal loro distacco “non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini”.
Il Tribunale di Milano, nel caso concreto, ha ritenuto che la delibera del 29 marzo 2010 con la quale il Condominio di Via (omissis) in (omissis) ha negato a G.C.B. l’autorizzazione ad effettuare il distacco della propria unità immobiliare dall’impianto di riscaldamento centralizzato era immune da censure perché il condomino C.B. non aveva dimostrato, e lo avrebbe dovuto, la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 1118 cod. civ. e cioè la mancanza di squilibri tecnici pregiudizievoli per l’erogazione del servizio e di eventuali aggravi di spesa per i rimanenti condomini scaturenti dal chiesto distacco, e/o, comunque, non ha ritenuto, che la prova dell’insussistenza dei detti pregiudizi fosse presente negli atti dei processo.
Ora, proprio perché il Tribunale ha ritenuto che la prova dell’insussistenza dei pregiudizio di cui si dice non era stata data e/o non era sussistente agli atti del processo, la sentenza non presenta il vizio denunciato di omesso esame di un fatto decisivo. D’altra parte, come chiaramente emerge, dalla sentenza impugnata, le circostanze addotte da C.B.G., che avrebbero dimostrato l’insussistenza dei pregiudizi di cui si dice, sono state valutate e ritenute insufficienti e/o non efficaci al fine che si intendeva raggiungere”

© massimo ginesi 7 novembre 2016

regolamento condominiale contrattuale e trascrizione

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La Cassazione torna su un tema fonte di grande contrasto nella vita condominiale, ovvero i limiti posti alla proprietà privata dal regolamento condominiale.

La vicenda attiene al divieto di installazione di canne fumarie sui muri perimetrali per determinate unità poste nel condominio, divieto contenuto nel regolamento di natura contrattuale e che – senza dubbio – costituisce un limite al diritto dominicale dei singoli che può avere solo origine convenzionale.

I ricorrenti lamentano che, invece, nel loro atto tale divieto non risultava espressamente e chiaramente menzionato, pur essendo contenuto nel regolamento di natura contrattuale in vigore nel condominio e quindi era a loro inopponibile.

Con la sentenza 22310 del 3 novembre 2016 la seconda sezione civile afferma che “Le clausole del regolamento condominiale di natura contrattuale sono vincolanti per gli acquirenti dei singoli appartamenti qualora, indipendentemente dalla trascrizione, nell’atto di acquisto si sia  fatto riferimento regolamento di condominio, regolamento che seppure non inserito materialmente, deve ritenersi conosciuto e accettato in base al richiamo e alla menzione di esso nel contratto”

La decisione è in linea con il prevalente orientamento della Cassazione, da ultimo ribadito dalla stessa seconda sezione civile con sentenza del 28 settembre 2016 n. 19212, con ampi richiami giurisprudenziali (Cass. 3 luglio 2003 n. 10523; Cass. 14 gennaio 1993 n. 395; Cass. 26 maggio 1990 n. 4905) ove – nel riportare il principio di diritto sopra espresso – si afferma che “La trascrizione, salvo i casi in cui le sono attribuite particolari funzioni soltanto notiziali oppure costitutive, e’ destinata normalmente a risolvere i conflitti tra diritti reciprocamente incompatibili, facendo prevalere quello il cui atto di acquisto e’ stato inserito prioritariamente nel registro immobiliare. Presupposto indefettibile dell’operativita’ dell’istituto e’ quindi la concorrenza di situazioni giuridiche soggettive che risultino in concreto inconciliabili, alla stregua dei titoli da cui rispettivamente derivano.

Una tale situazione di conflitto non si verifica pero’ quando una proprieta’ viene espressamente acquistata come limitata da altrui diritti, per i quali una precedente trascrizione non e’ quindi indispensabile, in quanto il bene non e’ stato trasferito come libero, ne’ l’acquirente puo’ pretendere che lo diventi a posteriori, per il meccanismo della “inopponibilita’”. In questo senso e’ univocamente orientata la giurisprudenza di legittimita’ (cfr Cass. n. 17886 del 2009).”

© massimo ginesi 4 novembre 2016 

IL DISSENSO DEI CONDOMINI RISPETTO ALLE LITI

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L’intera vita condominiale si fonda sul principio espresso dall’art. 1137 I comma cod.civ. che prevede l’obbligatorietà delle delibere assembleari per tutti i condomini.
Si tratta di norma che consente ad una collettività di esprimere una volontà rappresentativa idonea a gestire unitariamente gli interessi comuni su base maggioritaria.
Il principio vede due sole eccezioni, l’una in tema di innovazioni (art. 1121 cod.civ. ) e l’altra in tema di liti (art. 1132 cod.civ. ).
In tali casi il legislatore ha ritenuto di accordare la possibilità ai dissenzienti di sottrarsi al potere vincolante della delibera.
L’art. 1132 cod.civ. prevede che il condomino, esprimendo dissenso da comunicare entro trenta giorni dalla delibera che decide di promuoverla o di resistervi, può separare la propria responsabilità da quella degli altri condomini in caso di soccombenza.
Il dissenso è atto recettizio che deve essere inviato all’amministratore ed è un quid pluris rispetto al semplice voto contrario in assemblea, che ne è presupposto logico e giuridico ma che da solo non produce effetto dissociativo.
LA giurisprudenza ha affermato che il dissenso non richiede la forma solenne che sembra richiamare la norma (notificazione) ma può essere espresso dall’assente e dal dissenziente entro trenta giorni dalla delibera, con comunicazione all’amministratore idonea a rendere incontrovertibile termine e contenuto (raccomandata, pec, consegna a mani).
La suprema corte (Cass. civ., sez. II, 18/06/2014,  n. 13885) ha anche affermato che il dissenso può trovare applicazione solo nelle cause che vedano quali parti il condominio e un terzo, non in quelle interne (ovvero fra condominio e uno o più condomini); in dottrina è invece diffusa la tesi che il dissenso possa riguardare anche queste ultime.
Una volta esercitato legittimamente il dissenso, la delibera che ponga a carico del dissenziente le spese di lite è affetta da nullità e non da semplice annullabilità (Cass. civ. sez. II, 15/05/2006 n. 11126).
E’ ormai pacifico che il dissenso possa essere esercitato solo per quel liti che vedano una deliberazione antecedente (o di successiva ratifica) e che, alla luce di CAss. SS.UU. 18331/2010 e della nuova formulazione dell’art. 1131 cod.civ., comprendono le controversie che esulano dai poteri dell’amministratore individuati dall’art. 1130 cod.civ., mentre per queste ultime può agire senza necessità di avvallo assembleare.
Del resto lo stesso art. 1132 cod.civ. ancora il dies a quo per esprimere il dissenso alla data della delibera e quindi la possibilità di esercitare il dissenso pare necessariamente ancorata alla sussistenza di una volontà assemblare espressa.
Appare comunque ragionevole estendere tale facoltà anche a quelle liti che, pur rientrando nei poteri dell’amministratore, abbiano visto comunque una delibera legittimante.
I giudici hanno invece ritenuto non applicabile la norma ove la lite venga conclusa da transazione, che vincolerà anche il dissenziente (Cass. civ. sez. II, 16/01/2014,  n. 821)
Resta invece notevolmente controversa la portata dello “scudo” predisposto dalla norma.
LA giurisprudenza di legittimità ha sempre sostenuto la mera rilevanza interna della norma (ossia l’impossibilità di opporre il dissenso direttamente al creditore, limitando i suoi effetti al diritto di regresso verso gli altri condomini), affermando altresì che la stessa preservi solo dalle spese che il Condominio è tenuto a pagare alla controparte, lasciando intatto l’obbligo per le spese sostenute dal Condomino per la propria difesa.
Di recente acuta e attenta dottrina (Celeste/Scarpa) ha evidenziato come la mera valenza interna dei criteri di riparto fosse legata alla impostazione solidaristica dell’obbligazione condominiale, tesi venuta meno con CAss. SS.UU. 9148/2008.
Ne consegue che se le Sezioni Unite hanno evidenziato la rilevanza esterna nei confronti del creditore dei criteri di riparto (rilievo che pare sussistere anche oggi a fronte del meccanismo di escussione previsto dal novellato art. 63 disp.att. cod.civ.), non vi sarebbe ragione per non riconoscere tale valenza anche all’art. 1132 cod.civ.
Allo stesso modo, se la ratio della norma è quello di consentire al dissenziente di sottrarsi agli obblighi derivanti da una delibera che non condivide, tale esonero dovrebbe riguardare tutti gli obblighi derivanti da quella delibera e non solo le spese liquidate alla parte vittoriosa.

© massimo ginesi 12 ottobre 2016

tabelle millesimali ed errore

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Un tema assai frequente in condominio su cui la Corte di Cassazione, con un recentissima pronuncia, ribadisce un orientamento consolidato. La vicenda riguarda la formulazione dell’art. 69 disp.att. cod.civ.  nella versione antecedente alla legge del 2012, ma le considerazioni sull’errore rimangono attuali, non avendo la novella inciso sulle previsioni della norma in tema di revisione a fronte di erronee indicazioni dei valori.

La  Cassazione, sez. II Civile, sentenza 6 luglio – 4 ottobre 2016, n. 19797 afferma che “A norma degli artt. 68 e 69 disp. att. c.c., il regolamento di condominio deve precisare il valore proporzionale di ciascun piano o o di ciascuna porzione di piano spettante in proprietà esclusiva ai singoli condomini, e detti valori, che devono essere ragguagliati in millesimi a quello dell’intero edificio ed espressi in una apposita tabella allegata al regolamento, possono essere riveduti e modificati, anche nell’interesse di un solo condomino: 1) quando risulta che sono conseguenza di un errore; 2) quando, per le mutate condizioni di una parte dell’edificio, in conseguenza della sopraelevazione di nuovi piani, di espropriazione parziale o di innovazioni di vasta portata, è notevolmente alterato il rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano.
Ne consegue che, in tema di condominio di edifici, i valori delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini e il loro proporzionale ragguaglio in millesimi al valore dell’edificio vanno individuati con riferimento al momento dell’adozione del regolamento, e la tabella che li esprime è soggetta ad emenda solo in relazione ad errori, di fatto e di diritto, attinenti alla determinazione degli elementi necessari al calcolo del valore delle singole unità immobiliari ovvero a circostanze sopravvenute relative alla consistenza dell’edificio o delle sue porzioni, che incidano in modo rilevante sull’originaria proporzione dei valori. Pertanto, in ragione dell’esigenza di certezza dei diritti e degli obblighi dei singoli condomini, fissati nelle tabelle millesimali, non comportano la revisione o la modifica di tali tabelle né gli errori nella determinazione del valore, che non siano indotti da quelli sugli elementi necessari al suo calcolo, né i mutamenti successivi dei criteri di stima della proprietà immobiliare, pur se abbiano determinato una rivalutazione disomogenea delle singole unità dell’edificio o alterato, comunque, il rapporto originario fra il valore delle singole unità e tra queste e l’edificio (Cass. 10-2-2010 n. 3001). Gli errori rilevanti ai fini della revisione delle tabelle, dunque, oltre ad essere causa di apprezzabile divergenza tra il valore attribuito nella tabella alle unità immobiliari ed il valore effettivo delle stesse, devono essere obiettivamente verificabili (ad es.: divergenze di estensione della superficie, di piano e simili), restando, di conseguenza, esclusa la rilevanza (ai fini dell’errore) dei criteri soggettivi (ad es.: d’ordine estetico e simili) nella stima degli elementi necessari per la valutazione ex art. 68 disp. att. c.c. (Cass. Sez. Un. 24-1-1997 n. 6222).”

Nello specifico: “costituiscono errore essenziale, e possono dare luogo a revisione delle tabelle millesimali, gli errori che attengano alla determinazione degli elementi necessari per il calcolo del valore dei singoli appartamenti (quali l’estensione, l’altezza, l’ubicazione, esposizione etc.), siano errori di fatto (per esempio, erronea convinzione che un singolo appartamento abbia una estensione diversa da quella effettiva), siano errori di diritto (ad esempio, erronea convinzione che nell’accertamento dei valori debba tenersi conto di alcuni degli elementi che, a norma dell’art. 68 comma ult. disp. att. cit. sono irrilevanti a tale effetto). Mentre non possono qualificarsi essenziali gli errori determinati soltanto da criteri più o meno soggettivi con cui la valutazione dei singoli elementi necessari per la stima sia stata compiuta, poiché l’errore di valutazione, in sé considerato, non può mai essere ritenuto essenziale, in quanto non costituisce un errore sulla qualità della cosa a norma dell’art. 1429 n. 2 cod. civ. (Cass. 27-3-2001 n. 4421).
Al contrario, la norma di cui all’art. 68 comma ult. disp. att. c.c. stabilisce che nell’accertamento dei valori dei piani o delle porzioni di piano, ragguagliati a quello dell’intero edificio, “non si tiene conto del canone locatizio, dei miglioramenti e dello stato di manutenzione”. L’esclusione del canone locativo, dei miglioramenti e dello stato di manutenzione si giustifica con la considerazione che detti elementi non afferiscono alla obiettiva conformazione strutturale del piano o della porzione di piano in rapporto all’intero edificio, la quale invece dipende da altri fattori, e cioè la estensione, l’altezza, la ubicazione, l’esposizione (Cass. 10-2-1994 n. 1367).
Nella specie, la sentenza impugnata si è conformata agli enunciati principi, avendo escluso la sussistenza dei presupposti legittimanti la revisione delle tabelle millesimali dopo avere accertato: a) che non si era in presenza di errori obiettivamente verificabili, che fossero stati causa di apprezzabile discrasia tra il valore attribuito nella tabella alle unità immobiliari ed il valore effettivo delle stesse; b) che, non essendovi stata un’alterazione della consistenza reale ovvero della superficie effettivamente godibile e, quindi, alcuna modifica delle caratteristiche proprie degli immobili, una diversa destinazione d’uso del locale non poteva incidere sull’assetto millesimale, atteso che la individuazione dei valori proporzionali deve avvenire tenendo conto delle caratteristiche obiettive proprie degli immobili e non anche della loro possibile destinazione, determinata essenzialmente da valutazioni di carattere soggettivo”.

© massimo ginesi 6 ottobre 2016

il credito condominiale si prescrive in cinque anni

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Il credito che il condominio vanta nei conforti del condomino si prescrive in cinque anni, a norma dell’art. 2948 n. 4 cod.civ., come tutte somme che maturano e debbono pagarsi in periodi annuali.

Stabilisce  infatti la norma codicistica: “Si prescrivono in cinque anni:
1) le annualità delle rendite perpetue o vitalizie;
1-bis) il capitale nominale dei titoli di Stato emessi al portatore;
2) le annualità delle pensioni alimentari;
3) le pigioni delle case, i fitti dei beni rustici e ogni altro corrispettivo di locazioni;
4) gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi;
5) le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro.”

La durata annuale dell’esercizio condominiale è oggi ampiamente ribadita dalla novella del 2012 che nel riscrivere l’art. 1129 cod.civ. ha stabilito al comma 10 che l’incarico dell’amministratore ha durata di un anno, mentre al n. 10 dell’art. 1130 cod.civ. ha stabilito che costui deve “ redigere il rendiconto condominiale annuale della gestione”, mentre l’art. 1135 già prevedeva che è compito dell’assemblea deliberare in ordine al preventivo delle spese occorrenti durante l’anno e all’approvazione del rendiconto annuale annuale dell’amministratore.

La delibera di approvazione delle spese, con il relativo riparto, è presupposto idoneo alla richiesta di decreto ingiuntivo nei confronti del condomino moroso ai sensi dell’art. 63 disp.att. cod.civ. ma è anche momento in cui il credito diventa esigibile e da cui inizia a decorrere il termine di prescrizione quinquennale.

Ne consegue che, da quel momento, ove il condominio non agisca in via giudiziale e non invii più alcun sollecito al moroso, trascorsi cinque anni vedrà prescritto il proprio diritto ad ottenere quelle somme.

E’ noto che la prescrizione possa essere interrotta da una condotta sia del titolare del diritto (art. 2943 cod.civ.)  che dell’obbligato (art.2944 cod.civ. ), per cui sia la lettera di sollecito che l’eventuale condotta del debitore che costituisca riconoscimento del credito (ad esempio una richiesta di dilazione di pagamento) sono atti che comportano, dal loro compimento, l’interruzione della prescrizione e il decorso di un nuovo periodo quinquennale.

Anche l’invio di rendiconti e ripartizioni annuali nelle quali si evidenzia, per ciascun condomino, il saldo dovuto per l’anno precedente rappresenta atto interruttivo relativamente a quelle somme, purché l’amministratore sia in grado di provare l’effettivo invio di tale  documento all’interessato.

L’interruzione può essere attivata senza limiti, cosicché il credito – se è correttamente azionato il meccanismo interruttivo – può conservarsi all’infinito.

La Corte di Cassazione, anche di recente con sentenza 4489/2014, ha chiarito che “ trattandosi di spese condominiali, per loro natura periodiche, trova applicazione il disposto dell’art. 2948 c.c., n. 4 in ordine alla prescrizione quinquennale dei relativi crediti (Cass. n. 12596/02), la cui decorrenza è da rapportarsi alla data della delibera di approvazione del rendiconto delle spese e del relativo stato di riparto. Tale delibera, costituisce il titolo di credito nei confronti del singolo condomino, dovendosi escludere che delibere successive, concernenti i crediti del condominio nei confronti dell’ A., per successivi periodi di gestione e diversi titoli di spesa, possano costituire ” un nuovo fatto costitutivo del credito”.
Tanto chiarito, va rilevato che la sentenza impugnata ha fondato la decisione sul fatto che “che solo di alcune quote è stata avanzata formale richiesta di pagamento al condomino”, come risultante dalle due lettera datate 30.10.1998 e 29.3.1999, in relazione alle quali il giudice di prime cure aveva emesso pronuncia di condanna; il motivo di ricorso non investe tale “ratio decidendi”, nè viene specificato come sarebbe avvenuta l’interruzione della prescrizione dei crediti oggetto di causa. L’eccezione di prescrizione risulta,peraltro, tempestivamente proposta con l’atto di citazione in opposizione e non si richiedeva che fosse tipizzata, posto che l’onere della parte che propone detta eccezione è quello di indicare se intende avvalesi di quella presuntiva o di quella estintiva mentre, nell’ambito di quest’ultima, non è necessario che la parte ne indichi il tipo e la durata, spettando al giudice, in base al principio “iura novit curia”, identificare quale sia il termine di prescrizione applicabile secondo le varie ipotesi previste dalla legge (Cass. n. 3443/2005;n. 1259672002)”.

Va in ultimo osservato che la prescrizione deve essere eccepita in giudizio dalla parte che intende giovarsene (dunque dal debitore) e non può essere rilevata d’ufficio dal Giudice.

© massimo ginesi 26 settembre 2016