il diritto alla riduzione in pristino non si prescrive.

E’ quanto sottolinea Cass.Civ. sez. VI ord. 6 giugno 2018 n. 14622 rel. Scarpa, evidenziando come si tratti di facoltà connessa al diritto di proprietà e che – come tale – non subisce effetti pregiudizievoli dal mero decorso del tempo (salvo il sorgere di eventuali altri diritti per usucapione).

I fatti ed il processo: “B.A. aveva convenuto davanti al Tribunale di Roma il Condominio di via (omissis) , e L.m.P. , per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni subiti dalla propria unità immobiliare, con chiamata in garanzia operata dal Condominio nei confronti di C.G. e V.B. in forza di “clausola di manleva” contenuta nella scrittura del 14 ottobre 1986. In tale scrittura C.G. , la quale aveva eseguito opere di rimozione del tetto, si prendeva carico di tutte le riparazioni dovute al piano sottostante per eventuali cause di infiltrazioni. Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 25334/2009, preso atto che erano state eseguite in corso di causa le opere necessarie a far cessare le infiltrazioni, dichiarò cessata la materia del contendere tra l’attrice B.A. , il Condominio e L.m.P. , mentre rigettò le domande di manleva proposta dal Condominio nei confronti di L.P. , C.G. e V.B.”

la corte di legittimità osserva che “La Corte d’Appello di Roma ha respinto la domanda di rimessione in pristino osservando che il decorso di vent’anni dalla dichiarazione di manleva dimostrasse “l’atteggiamento di tolleranza del Condominio che, evidentemente, ha fatto acquiescenza al mutamento dello stato dei luoghi contro l’assunzione di ogni possibile conseguenza negativa da parte degli esecutori dei lavori”.

Questo ragionamento contravviene al consolidato principio giurisprudenziale per cui l’azione, con la quale il condominio di un edificio chiede la rimozione di opere che un condominio abbia effettuato sulla cosa comune, oppure nella propria unità immobiliare, con danno alle parti comuni, in violazione degli artt. 1102, 1120 e 1122 c.c., ha natura reale, e, pertanto, giacché estrinsecazione di facoltà insita nel diritto di proprietà, non è suscettibile di prescrizione, in applicazione del principio per cui “in facultativis non datur praescriptio”.

L’imprescrittibilità, piuttosto, può essere superata dalla prova della usucapione del diritto a mantenere la situazione lesiva (arg. da Cass. Sez. 2, 07/06/2000, n. 7727; Cass. Sez. 2, 29/02/2012, n. 3123; Cass. Sez. 2, 16/03/1981, n. 1455; Cass. Sez. 2, 13/08/1985, n. 4427).

Vanno quindi accolti il secondo motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale, mentre viene rigettato il primo e viene dichiarato assorbito il terzo motivo del ricorso principale. La sentenza impugnata va cassata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma, che deciderà la causa uniformandosi ai richiamati principi e tenendo conto dei rilievi svolti, e regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.”

© massimo ginesi 12 giugno 2018 

 

installazione dell’ascensore e servitù di passo: è sufficiente la conservazione della utilità per il fondo dominante a rendere lecita l’opera

Una lunga e argomentata ordinanza (Cass.Civ. sez. II 6 giugno 2018 n. 14500 rel. Scarpa)  che affronta il tema del bilanciamento di interessi fra fondo servente e fondo dominante, ai sensi dell’art. 1067 cod.civ.  e alla luce della rilevanza sociale delle innovazioni volte all’abbattimento delle barriere architettoniche.

Un condominio installa un ascensore esterno, che restringe la servitù di passo costituita a favore del fondo dominante, rimanendo tuttavia l’ampiezza del passaggio idonea all’esercizio della servitù.

In tal caso, pur avuto riguardo alla meritevolezza della innovazione, è sufficiente  l’applicazione della norma civilistica derivante dal  giudizio di fatto sulla conservazione dev’utilità per il fondo dominante, espresso  dal giudice di merito, circostanza che rende irrilevante ogni altra valutazione sulla opportunità della innovazione o sulla possibilità di realizzarla in luoghi e con modalità diverse.

i fatti ed il processo: “La Corte d’Appello di Torino ha accolto l’appello del Condominio S R contro la pronuncia di primo grado resa 1’11 febbraio 2010 dal Tribunale di Alessandria, sezione distaccata di Novi Ligure.

Il Tribunale era stato adito con citazione del 22 marzo 2006 da R, G, R A e S Ad, titolari di servitù di passaggio pedonale e  carrabile sulla strada di proprietà del Condominio S R di Novi Ligure (come da titolo costitutivo del condominio stesso del 4 gennaio 1966), i quali lamentarono la costruzione in adiacenza alla parete dell’edificio condominiale di un ascensore esterno che aveva ridotto il passaggio in questione da m. 4,15 a m. 2,50.

La sentenza di primo grado ravvisò la violazione dell’art. 1067 e.e. a causa del restringimento del transito provocato dall’ascensore, anche interpretando la norma in esame  in senso costituzionalmente orientato alla luce dell’esigenza del condominio convenuto di eliminare  le barriere architettoniche. Il Tribunale argomentò come, in forza dell’espletata CTU, un’analoga opera, adeguata alla tutela dei portatori  di handicap, poteva essere realizzata lungo la parete posta sul retro dell’edificio condominiale, senza scarificare il diritto reale degli attori.

La Corte d’appello, adita con gravame dal Condominio S R, ravvisata la sussistenza della servitù imposta sull’area condominiale nell’atto del 4 gennaio 1966, affermò, in riforma della sentenza di primo grado, che la collocazione dell’ascensore nell’area gravata da servitù di passaggio in favore dei signori Ad, aventi causa del comune venditore geometra C, fosse l’unica soluzione praticabile idonea ad eliminare le barriere architettoniche.

La soluzione alternativa, emersa dalla CTU e consistente nell’installare l’impianto sul retro dell’edificio condominiale, venne ritenuta inadeguata sia per l’ubicazione del sito e la realizzabilità dell’intervento (possibile presenza di condutture interrate, ostacolo all’ingresso in un box di proprietà esclusiva di terzi), sia per le difficoltà di  raggiungimento dell’ascensore da persone in condizioni di inabilità fisica (accesso dalla via pubblica e dal cortile interno servendosi di percorso più lungo e ricoperto da ghiaia, oppure tramite l’atrio comune ed il “locale biciclette”). Inoltre, ritennero i giudici di secondo grado, l’installazione dell’ascensore nel lato del cortile interno avrebbe avuto costi molto elevati, avrebbe compromesso la facciata del fabbricato   ed  avrebbe  creato   nuovi  ingressi  dall’esterno  nei balconi di proprietà esclusiva, i quali avrebbero dovuto essere   allungati con  la  creazione  di ballatoi  e muniti  di cancelletti  o di porte per motivi di sicurezza.

La sentenza impugnata, in definitiva, escluse la violazione dell’art. 1067 e.e., in quanto il restringimento del  passaggio  oggetto  di servitù da  m. 4, 15 a m. 2,50 di larghezza consente comunque il passaggio di autoveicoli di tale ultima dimensione  ed impedisce  unicamente la manovra di inversione di marcia.”

i principi espressi dal giudice di legittimità: “Tutti i motivi si incentrano sull’ambito di applicazione  dell’art. 1067, comma 2, cod.civ. , a norma  del  quale  il  proprietario  del fondo servente (nella specie, il Condominio SR) non  può compiere alcuna cosa che  tenda  a diminuire  l’esercizio della servitù o a renderlo più incomodo (e ciò con riguardo al passaggio sulla porzione censita al mappale 489,  foglio 27, Comune  di Novi Ligure, di proprietà  Condominio  S R,          servitù     costituita     con   atto del 4 gennaio 1966  in  favore  dell’attuale     proprietà     Ad).    

L’art.     1067,   comma     2, cod.civ.  esclude perciò la facoltà del proprietario del fondo servente di eseguire opere che, incidendo sull’andatura e sull’estensione della servitù, riducano la possibilità per il proprietario del fondo dominante di trarre dalla stessa servitù la più ampia utilitas assicurata dal titolo.

Conseguentemente, per interpretazione consolidata di questa Corte, in tema di servitù di passaggio, non comporta diminuzione dell’esercizio della servitù l’esecuzione di opere, ovvero la modifica dello stato dei luoghi che, pur riducendo la larghezza dello spazio di fatto disponibile a tal fine, la conservino, tuttavia, in quelle dimensioni che non comportino una riduzione o una maggiore scomodità dell’esercizio delle servitù (cfr. Cass. Sez. 2, 03/11/1998, n. 10990; Cass. Sez. 2, 19/04/1993, n. 4585).

L’indagine sulla natura, sull’entità e perciò sulla rilevanza delle innovazioni  o delle  trasformazioni  apportate  nel  fondo servente, e sul correlativo pregiudizio derivabile dalle stesse al fondo dominante, con riferimento all’art 1067, comma 2, cod.civ. , costituisce apprezzamento di fatto spettante  al  giudice  del merito (e qui compiutamente operato dalla Corte d’Appello di Torino), apprezzamento sindacabile in  sede  di  legittimità soltanto nell’ambito del vizio di cui all’art. 360, comma 1, n.  5,  c.p.c. 

Ai fini del giudizio di liceità,  ex art. 1067, comma  2, cod.civ. , degli atti di godimento compiuti dal proprietario del  fondo  servente sullo stesso, non rileva perciò in alcun senso la valutazione (propria invece, ad esempio, dell’art. 1051 e.e., in tema di imposizione del passaggio coattivo) circa la praticabilità di soluzioni alternative, più o meno convenienti,  oppure  più  o meno comode, quanto la verifica dell’incidenza di tali atti sul contenuto essenziale dell’altrui diritto  di  servitù. 

Tale conclusione vale da sola a privare di “decisività” (ovvero del carattere di astratta idoneità a  determinare  un  esito  diverso della controversia) la circostanza, su cui poggiano i primi due motivi di ricorso, della  mancata  considerazione che l’installazione di un servo scala a partire da  piano  terra  e  per tutti i piani sarebbe stata comunque in grado di superare le barriere architettoniche.

L’opera  realizzata  sul  fondo  servente, in sostanza, non viola l’art. 1067, comma 2, cod.civ., sol perché altrove  realizzabile   dal  proprietario  dello stesso con uguale comodità econvenienza.

Piuttosto,   si   è  in   passato   sostenuto  in   giurisprudenza che, qualora il proprietario di un fondo gravato da una servitù di passaggio proceda ad opere di ristrutturazione incidenti sull’esercizio della servitù, il giudice non potrebbe ritenere giustificata la trasformazione solo in considerazione della dinamica dei rapporti e dell’evolversi delle situazioni sociali, dovendo comunque vagliare  la  compatibilità  della trasformazione con il libero e comodo ingresso che l’art. 1067, comma 2, cod.civ.  vuole garantito al titolare del diritto di passaggio (Cass. Sez. 2, 29/08/1990, n. 8945).

Ancora più risalente, ma tuttora attuale, è il precedente di questa Corte secondo cui non possono comunque ritenersi compresi nel divieto posto dall’art. 1067, comma 2, cod.civ.  quegli atti che, restando contemperate le esigenze del fondo dominante con quelle del fondo servente, rappresentino l’esercizio compiuto civiliter dal proprietario delle facoltà di godimento del fondo servente stesso, facoltà che l’esistenza della servitù non può totalmente  elidere  (Cass.  Sez. 2, 03/01/1966, n. 10).

Tra tali facoltà di godimento del fondo servente, che il diritto di passaggio su esso gravante non può obliterare, vi sono certamente, come argomentato dalla Corte d’Appello di Torino, anche (o soprattutto) quelle finalizzate a consentire una piena accessibilità alla casa di  abitazione  da parte di qualsiasi portatore di handicap o persona con ridotta capacità motoria.

Questa Corte ha già  chiarito  come  la pronuncia della Corte costituzionale n. 167 del 1999 abbia  imposto   un   mutamento    di  prospettiva,   in   forza   del  quale l’istituto  della  servitù  di  passaggio   non  è  più  limitato  ad  una visuale dominicale e produttivistica, ma è proiettato in una dimensione  dei valori  della persona,  di  cui agli art.  2 e 3 Cost., che permea di sé anche lo statuto dei beni ed i rapporti patrimoniali in generale (Cass. Sez. 2, 03/08/2012, n. 14103; si vedano anche Cass. Sez. 2, 28/01/2009, n. 2150; Cass. Sez.  2, 16/04/2008, n.10045).

La Corte d’Appello di Torino ha apprezzato in fatto, aderendo alle conclusioni del CTU, che il restringimento del passaggio destinato all’esercizio     della servitù  da  m.  4,15  a  m. 2,50, cagionato dall’ingombro dovuto alla costruzione dell’impianto di ascensore, conserva comunque il diritto reale dei proprietari  del fondo dominante in dimensioni che non compromettono significativamente l’esercizio dello stesso.

Allo stesso tempo, l’impianto di ascensore realizzato dal Condominio S R appaga le esigenze          di accessibilità  del     fabbricato,   pur necessitando dell’installazione  di  un  servoscala  al     piano intermedio per il collegamento con il pianerottolo di ingresso delle singole abitazioni.

Questa Corte ha altresì precisato come la meritevolezza di un  intervento innovativo consistente nell’installazione di un ascensore allo scopo di eliminare le barriere architettoniche vada valutata in termini di  idoneità dello  stesso  quantomeno ad attenuare e non necessariamente ad eliminare – le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell’abitazione (Cass. Sez. 6-2, 09/03/2017, n.  6129);     sicché   nessuna inconciliabilità o implausibilità affligge le argomentazioni adoperate dalla Corte d’Appello nel valutare la piena funzionalità dell’impianto di ascensore in concreto allestito dal Condominio SR, pur necessitante di un servo scala per il collegamento con i pianerottoli.

Poiché, infine, la  sentenza  impugnata,  rigettando  la  domanda di R, G, R A e S A, ha escluso che il Condominio S R avesse violato il  divieto sancito  dal  capoverso  dell’art  1067 cod.civ. , in quanto l’opera realizzata sul fondo servente non ha ingenerato alcuna permanente riduzione dell’esercizio della servitù di passaggio, la pronuncia resa dalla Corte d’Appello di Torino non ha comportato affatto una modifica dell’originaria servitù convenzionale costituita  con  atto  del  4  gennaio  1966, né pertanto occorreva una apposita domanda giudiziale del Condominio, o una convenzione scritta, ex art. 1350,  n. 4, e.e.,  le quali, invero, si impongono soltanto per i mutamenti  di esercizio che implicano variazioni nel contenuto della servitù medesima”

© massimo ginesi 7 giugno 2018 

 

regolamento locale e principio della prevenzione in tema di distanze.

Ove il regolamento locale preveda una distanza minima dal confine non si applica il principio della prevenzione, anche laddove sul fondo vicino non esistono ancora fabbricati.

E’ quanto afferma Cass.Civ. sez.II 4 giugno 2018, n. 14294 in una ordinanza  che analizza una complessa situazione fra confinanti e che può essere utile leggere per esteso.

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“Questa Corte ha affermato che “le disposizioni dell’art. 41-quinquies della legge urbanistica 17 agosto 1942 n. 1150 (nel testo fissato dall’art. 17 della legge 6 agosto 1967 n. 765), nonché dell’art. 9 del decreto del ministro dei lavori pubblici del 2 aprile 1968 n. 1444, nella parte in cui, per fabbricati ubicati in zone territoriali omogenee, pongono inderogabili distanze minime dal confine (in modo vincolante anche per i Comuni, in sede di formazione degli strumenti urbanistici), hanno carattere integrativo delle norme del codice civile sulle distanze legali, ai sensi ed agli effetti dell’art. 872 cod. civ., e rendono inapplicabile il principio della prevenzione di cui all’art. 875 cod. civ., non invocabile rispetto a distacchi assoluti, fissati con riferimento al confine” (Cass. n. 145 del 2006; cfr. Cass. sez. un. n. 10318 del 2016, secondo cui, nel caso opposto, un regolamento locale che si limiti a stabilire una distanza tra le costruzioni superiore a quella prevista dal codice civile, senza imporre un distacco minimo delle costruzioni dal confine, non incide sul principio della prevenzione, come disciplinato dal codice civile, e non preclude, quindi, al preveniente la possibilità di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le costruzioni, né prevenuto la corrispondente facoltà di costruire in appoggio o in aderenza, in presenza dei presupposti previsti dagli artt. 874, 875 e 877 cod. civ.).”

© massimo ginesi 5 giugno 2018 

 

risponde di appropriazione indebita aggravata l’amministratore che scappa con la cassa.

 

Cass. pen. sez. II 11/05/2018,  n. 21011 ripercorre i profili di rilevanza penale della condotta dell’amministratore che si appropria di somme dei condomini.

Oggetto di ricorso è la sentenza con la quale “  la Corte di Appello di Milano il 3/4/2017 ha confermato il giudizio di penale responsabilità espresso dal Tribunale di Monza il 22/6/2016, all’esito di giudizio abbreviato, nei confronti dello stesso C. in ordine a dodici ipotesi di appropriazioni indebite continuate ed aggravate commesse ai danni di condomini dei quali era amministratore, con la conseguente condanna alla pena di anni due e mesi sei di reclusione ed Euro 1100,00 di multa, oltre al risarcimento dei danni ed alla rifusione delle spese processuali in favore delle costituite parti civili.”

sul momento di consumazione del reato e la relativa prescrizione: “il delitto di appropriazione indebita è reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa, nel momento in cui l’agente compie un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria, con la conseguenza che il momento in cui la persona offesa viene a conoscenza del comportamento illecito è irrilevante ai fini della individuazione della data di consumazione del reato e di inizio della decorrenza del termine di prescrizione (Sez. 2, n. 17901 del 10/04/2014, Rv. 259715; Sez. 5, n. 1670 del 08/07/2014, Rv. 261731).

Alla luce di tali principi, ancor prima che il C. si rendesse irreperibile, deve ritenersi evidente che lo stesso si è appropriato delle somme dei diversi condomini amministrati ogni anno, quando era tenuto a rendere il conto della gestione ed a restituire le somme detenute per conto di ogni condominio, ed ometteva invece tale restituzione con la volontà di far proprie le somme dovute.

Conseguentemente, giacchè in virtù dei diversi atti interruttivi deve considerarsi il termine massimo della prescrizione, determinato in anni sette e mesi sei di reclusione dal combinato disposto degli artt. 157 e 161 c.p.p., va riconosciuta l’estinzione per prescrizione dei fatti di appropriazione indebita antecedenti al 6/8/2010.”

quanto alla gravità della condotta: “La sentenza impugnata, infatti, ha adeguatamente valorizzato, sia per negare le invocate attenuanti generiche che, più in generale, per la determinazione del trattamento sanzionatorio, significativi indici di gravità dei fatti, sotto il profilo soggettivo che oggettivo,n trattandosi di fatti commessi arrecando danni, in molti casi anche rilevanti, ad una pluralità di Condomini ed abusando dell’attività professionale in favore degli stessi.

La mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche è giustificata, pertanto, da motivazione esente da manifesta illogicità, che è conseguentemente insindacabile in cassazione (Cass., Sez. 6, n. 42688 del 24/9/2008, Rv. 242419), anche considerato il principio affermato da questa Corte secondo cui non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 2, n. 3609 del 18/1/2011, Rv. 249163; Sez. 6, n. 34364 del 16/6/2010, Rv. 248244), così come è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, Rv. 259142).”

va rilevato infine che l’art. 10  D.Lgs. 10 aprile 2018 n. 36 ha abrogato il terzo comma dell’art. 646 cod.pen., di talchè oggi l’appropriazione indebita diviene reato perseguibile a querela anche nelle forme aggravate.

© massimo ginesi 5 giugno 2018

 

rifacimento lastrico solare: la custodia durante i lavori e la responsabilità del condominio.

 

La Cassazione (Cass.Civ. sez.II ord. 14/05/2018 n. 11671) ribadisce un principio più volte affermato: l’esecuzione di un appalto che ha ad oggetto interventi su parti comuni – salvo che all’appaltatore non sia stata affidata la custodia esclusiva del cantiere – non elimina la concorrente responsabilità ex art. 2051 cod.civ. del condominio.

I fatti: “P., R., PA. e M.S. nonchè C.R., quali proprietari, il primo in via esclusiva, dell’immobile sito in …, e tutti, in comunione tra loro, dell’immobile sito nel medesimo stabile, int. , a seguito di infiltrazioni di acqua nei predetti cespiti provenienti dal lastrico di copertura, convennero in giudizio, innanzi al Tribunale di Genova, il CONDOMINIO… nonchè l’IMPRESA E., in persona del legale rappresentante p.t, quale appaltatrice dei lavori di manutenzione del lastrico, al fine di sentirli condannare, in solido tra loro, al ristoro dei danni in conseguenza patiti”

Il Tribunale di Genova condanna al risarcimento il solo appaltatore, sentenza riformata dalla Corte d’appello ligure, che individua quale tenuto al risarcimento – in via solidale – anche il condominio.

La corte di legittimità, nell’esaminare il ricorso del condominio osserva che “la Corte di appello ha ampiamente e congruamente motivato (cfr. pp. 5-7) in ordine alla (cor)responsabilità del CONDOMINIO per l’omessa adozione, nel periodo oggetto di valutazione (4.8.2000-4.12.2000), di concrete misure di precauzione – concettualmente diverse dal semplice sollecito alla appaltatrice di procedere alla ripresa dei lavori – atte ad evitare il (ri)prodursi dei fenomeni infiltrativi per cui è causa e, tanto, nonostante la pacifica conoscenza, ad opera dell’assemblea (proprio per tale ragione riunitasi in più occasioni), “della grave situazione di degrado degli immobili degli appellanti e della saltuarietà degli interventi dell’impresa E.”;

Tale motivazione vale a richiamare un principio consolidato in tema di appalto: “la Corte territoriale si è attenuta ai pacifici principi applicabili in tema di appalto, per cui, se è vero che  l’autonomia dell’appaltatore comporta che, di regola, egli deve ritenersi unico responsabile dei danni derivati a terzi dall’esecuzione dell’opera, potendo configurarsi una corresponsabilità del committente soltanto in caso di specifica violazione di regole di cautela nascenti ex art. 2043 c.c., ovvero nell’ipotesi di riferibilità dell’evento al committente stesso per culpa in eligendo (per essere stata affidata l’opera ad un’impresa assolutamente inidonea) ovvero quando l’appaltatore, in base a patti contrattuali, sia stato un semplice esecutore degli ordini del committente, agendo quale nudus minister dello stesso (Cass., Sez. 2, 25.1.2016, n. 1234, Rv. 638645-01), cionondimeno: a) il committente può essere chiamato a rispondere dei danni derivanti dalla condizione della cosa di sua proprietà laddove, per sopravvenute circostanze di cui sia venuto a conoscenza – come, ad es., nel caso di abbandono del cantiere o di sospensione dei lavori da parte dell’appaltatore – sorga a carico del medesimo il dovere di apprestare quelle precauzioni che il proprietario della cosa deve adottare per evitare che dal bene derivino pregiudizi a terzi (Cass., Sez. 2, 15.6.2010, n. 14443, in motivazione); b) ove l’appalto non implichi il totale trasferimento all’appaltatore del potere di fatto sull’immobile nel quale deve essere eseguita l’opera appaltata, non viene meno per il committente e detentore del bene il dovere di custodia e di vigilanza e, con esso, la conseguente responsabilità ex art. 2051 c.c. che, essendo di natura oggettiva, sorge in ragione della sola sussistenza del rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha determinato l’evento lesivo (Cass., Sez. 3, 18.7.2011, n. 15734, Rv. 619067-01);

che, a tale ultimo riguardo ed in aggiunta a quanto in precedenza esposto, va comunque osservato che, già in linea astratta, il lastrico svolge, indipendentemente dal regime proprietario ovvero da una sua fruizione diretta, una ineludibile funzione primaria di copertura e protezione delle sottostanti strutture (arg. da Cass., Sez. 6-2, 9.8.2017, n. 19779, Rv. 645340-01 e da Cass., Sez. U., 10.5.2016, n. 9449, Rv. 639821-01): sicchè, quantomeno sotto tale profilo ed indipendentemente dall’avvenuta “consegna” – quale area di cantiere – all’appaltatore, per l’esecuzione di lavori volti alla relativa manutenzione o ristrutturazione, il lastrico deve considerarsi nella persistente disponibilità del condominio, con conseguente permanenza, in capo a quest’ultimo, delle obbligazioni connesse alla sua custodia e delle connesse responsabilità per il relativo inadempimento (arg. Da Cass., Sez. 3, 18.7.2011, n. 15734, Rv. 619067-01, cit.).”

© massimo ginesi 4 giugno 2018