condominio autonomo dei box e decreto ingiuntivo.

Una recentissima ordinanza della Corte di legittimità (Cass.civ. sez. VI-2 17 ottobre 2017 n. 24431 rel. Scarpa)  affronta un tema consolidato in giurisprudenza (ovvero le vicende ed eccezioni che possono essere fatte valere in sede di opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto dal condominio per le quote scadute), con riferimento alla peculiare situazione in cui i box costituiscano ente condominiale autonomo rispetto all’edificio che li sovrasta.

I fatti ed il processo di merito – la vicenda inizia con un giudizio di opposizione dinanzi al giudice di pace, proseguito dinanzi al Tribunale quale giudice di appello: “Il giudizio era iniziato con ricorso per decreto ingiuntivo relativo a spese condominiali dovute dalla condomina MFB per C 924,00, approvate in sede di bilanci per gli esercizi 2008 e 2009 con delibere del 4 febbraio 2008 e del 10 febbraio 2009, e relative alla proprietà dei box nn. 1, 2, 3, 7 e 8 del complesso.

Il Tribunale di Roma nella sentenza impugnata ha posto in evidenza come nell’atto di acquisto dei box di proprietà B del 4 ottobre 2007, prodotto in atti, la gestione delle parti comuni dei medesimi box fosse oggetto di autonoma regolamentazione rispetto a quella del sovrastante edificio di via S. A M n. 70, Roma (come da regolamento dell’Il luglio 2007, che l’acquirente aveva dichiarato di accettare).

Il Tribunale superava perciò la resistenza della B., che contestava la distinta legittimazione attiva a riscuotere i contributi del Condominio Box via V 83-85. Parimenti, il giudice dell’appello negava la rilevanza pregiudiziale del giudizio pendente tra MFB e la E R s.r.I., incidente su tre dei box di proprietà B.”

La Corte di legittimità rigetta il ricorso, in quanto manifestamente infondato, con ampia e puntuale motivazione, che non si discosta da principi generali consolidati.

nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo concernente il pagamento di contributi per spese, il condominio soddisfa l’onere probatorio su esso gravante con la produzione del verbale dell’assemblea condominiale in cui sono state approvate le spese, nonché dei relativi documenti (Cass. Sez. 2, 29 agosto 1994, n. 7569). Nello stesso giudizio di opposizione, il condomino opponente non può far valere questioni attinenti alla annullabilità della delibera condominiale di approvazione dello stato di ripartizione.

Tale delibera costituisce, infatti, titolo sufficiente del credito del condominio e legittima non solo la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condominio a pagare le somme nel processo oppositorio a cognizione piena ed esauriente, il cui ambito è, dunque, ristretto alla verifica della (perdurante) esistenza della deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del relativo onere (Cass. Sez. U., 18 dicembre 2009, n. 26629; Cass. Sez. 2, 23/02/2017, n. 4672).

Tanto meno può essere oggetto dell’opposizione a decreto ingiuntivo inerente il pagamento di spese condominiali, emesso sulla base di delibera assembleare di approvazione del relativo stato di ripartizione, la questione dell’autonoma esistenza del condominio intimante e della sua appartenenza ad esso del condomino opponente, il quale neppure abbia provveduto all’impugnazione della medesima delibera assembleare posta a sostegno della ingiunzione.

D’altro canto, ove si intenda controvertere sull’esistenza, o meno, in ordine ad una serie di unità immobiliari integranti porzioni di un complesso edilizio, di un condominio unico e distinto dal sovrastante complesso immobiliare, e, quindi, sulla riconducibilità di talune delle strutture della costruzione di cui si tratta alle parti comuni dell’edificio condominiale di cui all’art. 1117 c.c., con conseguente ripartizione delle spese tra i proprietari delle varie unità, è necessaria la partecipazione di tutti costoro a ciascuna delle fasi del giudizio, in una situazione di litisconsorzio necessario.

L’infondatezza del ricorso è, dunque, ancor più palese ove si consideri che non potesse comunque essere oggetto del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo ex art. 63, comma 1, disp. att. c.c., l’agitata questione dell’accertamento dell’inesistenza di un “condominio autonomo” con riferimento alle distinte unità immobiliare realizzate nel piano interrato e destinate ad autorimesse, trattandosi di domanda da rivolgersi non nei confronti dell’amministratore, e che avrebbe, piuttosto, imposto il litisconsorzio necessario di tutti quei singoli condomini (Cass. Sez. 2, 18/04/2003, n. 6328; Cass. Sez. 2, 01/04/1999, n. 3119).

Il Tribunale di Roma, con argomentazione a rilevanza decisoria che la ricorrente non confuta, ha aggiunto che avesse effetto vincolante per la B. la volontà negoziale dalla stessa manifestata nell’atto di acquisto del 4 ottobre 2007 di adesione alla gestione autonoma delle parti comuni dei box.

Non sussiste, infine, omessa pronuncia in ordine al dedotto rilievo pregiudiziale delle altre cause pendenti, avendo sul punto la sentenza impugnata espressamente motivato alle pagine 6 e 7. Basterà qui aggiungere che, per consolidate interpretazioni di questa Corte : 1) il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per il pagamento di oneri condominiali non si intende legato da nesso di pregiudizialità, tale da giustificare la sospensione del procedimento di opposizione ex art. 295 c.p.c., nemmeno con la controversia avente ad oggetto l’impugnazione della delibera assembleare posta a sostegno della ingiunzione stessa (da ultimo, Cass. Sez. 2 , 23/02/2017, n. 4672); 2) ai fini della sospensione necessaria del giudizio ai sensi dell’art. 295 c.p.c., occorrono l’identità delle parti in entrambi i processi e l’obiettiva esistenza di un rapporto di pregiudizialità giuridica, non essendo sufficiente che tra le due controversie sussista una mera pregiudizialità logica (Cass. Sez. 2, 16/03/2007, n. 6159); 3) il provvedimento di riunione previsto dall’art. 274 c.p.c., relativo a cause diverse ma connesse (riunione facoltativa), ovvero dettato da motivi di economia processuale, essendo strumentale e preparatorio rispetto alla futura definizione della controversia, è rimesso al potere discrezionale del giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità.”

© massimo ginesi 18 ottobre 2017

costituzione del condominio e diritto di uso esclusivo delle parti comuni.

Una lunga ed interessante sentenza della suprema corte (Cass.Civ. II sez. 16 ottobre 2017 n. 24301) affronta l’ipotesi in cui l’originario unico proprietario del fabbricato condominiale, nel cedere la prima unità a terzi e, dunque, nel dar luogo alla nascita del condominio, disponga in ordine all’uso esclusivo di talune parti comuni a favore di alcuni condomini.

La Corte riconosce pacíficamente come legittima tale facoltà, che può essere esercitata anche semplicemente tramite una disposizione in un regolamento contrattuale richiamato nel primo atto di cessione che da luogo alla costituzione del condominio e provvede, con interessante disamina, a delineare i confini ed i contenuti del diritto d’uso così costituito.

Afferma il giudice di legittimità, respingendo una tesi dei ricorrenti,  che il diritto d’uso così costituito non va ricondotto nè alla ipotesi del diritto reale d’uso previsto dall’art. 1021 cod.civ. né viola il principio del numero chiuso dei diritti reali, poiché la situazione caratteristica che si determina in condominio – laddove venga attribuito l’uso esclusivo di una parte comune ad un singolo – trova radice normativa nella stessa disciplina condominiale e segnatamente negli artt. 1126 e 1122 cod.civ.

La sentenza per l’articolata e interessante motivazione, richiede lettura integrale

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© massimo ginesi 17 ottobre 2017

il criterio della prevenzione non si applica alle costruzioni in aderenza

Lo ha stabilito Cassazione, sez. II Civile, ord. 12 ottobre 2017, n. 23986, cassando un pronuncia della corte di appello di Firenze che condannava un soggetto alla demolizione di una scala costruita in aderenza al fabbricato del vicino, edificato sul confine e costruito preventivamente.

Osserva la Corte di legittimità che “tale statuizione è giuridicamente errata laddove pretende di applicare alla costruzione in aderenza un principio elaborato da questa Corte in materia di costruzione in prevenzione;
che, infatti, il precedente di legittimità invocato a pag. 7 della sentenza gravata (Cass. 6926/01, secondo la quale il diritto di prevenzione riconosciuto a chi per primo edifica si esaurisce con il completamento della costruzione e non può, quindi, giovare automaticamente per un successivo manufatto, ancorché accessorio al primo) riguarda, appunto, l’edificazione in prevenzione a distanza dal confine inferiore alla metà della distanza di tre metri prevista tra costruzioni dall’873 c.c. e non si occupa dell’edificazione in aderenza;
che, per contro, non vi sono ragioni per negare la possibilità di costruire un manufatto in aderenza ad un fabbricato realizzato dal vicino sul confine per il solo fatto che tale manufatto costituisca addizione di un fabbricato preesistente (non importa se realizzato prima o dopo quello del vicino: per l’affermazione della possibilità di mutare in ogni tempo la soluzione costruttiva – a distanza legale, in aderenza o in appoggio – purché la situazione lo consenta e la soluzione originaria sia legittima, cfr. Cass. 11488/15)”

© massimo ginesi 16 ottobre 2017

appalto: recesso unilaterale e risoluzione per inadempimento.

Il recesso è facoltà prevista dall’art. 1671 cod.civ. “Il committente può recedere dal contratto, anche se è stata iniziata l’esecuzione dell’opera o la prestazione del servizio, purché tenga indenne l’appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno”.

La risoluzione è invece prevista dall’art. 1453 cod.civ.: “Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno.
La risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento; ma non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione.
Dalla data della domanda di risoluzione l’inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione.”

La Suprema Corte in una recente pronuncia (Cass.civ. sez. II Ord. 9 ottobre 2017, n. 23558) ne delinea i risvolti  applicativi: ” il recesso ad nutum non presuppone necessariamente uno stato di regolare svolgimento del rapporto ma al contrario, stante l’ampiezza di formulazione della norma di cui all’art. 1671 c.c., può essere esercitato per qualsiasi ragione che induca il committente a porre fine al rapporto, da un canto non essendo configurabile un diritto dell’appaltatore a proseguire nell’esecuzione dell’opera (avendo egli diritto solo all’indennizzo previsto dalla norma) e, d’altro canto, rispondendo il compimento dell’opera esclusivamente all’interesse del committente.”

La Corte distingue chiaramente l’ipotesi del mero recesso unilaterale con la risoluzione dovuta ad una adempimento dell’appaltatore ex art. 1453 cod.civ.

!Ne consegue che il recesso può essere giustificato anche dalla sfiducia verso l’appaltatore per fatti d’inadempimento e, poichè il contratto si scioglie esclusivamente per effetto dell’unilaterale iniziativa del recedente, non è necessaria alcuna indagine sull’importanza dell’inadempimento, viceversa dovuta quando il committente richiede anche il risarcimento del danno per inadempimento già verificatosi al momento del recesso (Cass. n. 2130/17, Cass. n. 11642/03, Cass. 10400/08, 17294/06 ex multis).

Essendo il recesso espressione dell’esercizio del diritto potestativo del committente, logico corollario è che l’obbligo di pagamento all’appaltatore dell’indennizzo ex art. 1671 c.c., costituisce effetto automatico della decisione di scioglimento dal vincolo adottata unilateralmente dal convenuto.

Se l’appaltatore è inadempiente, la sua eventuale condanna al risarcimento del danno può vanificare il suo diritto all’indennizzo ma, nel caso in esame, tale diritto al risarcimento del danno è stato escluso con pronunzia non impugnata sul punto per cui il diritto all’indennizzo ex art. 1671 c.c. non può essere messo in discussione.”

© massimo ginesi 13 ottobre 2017

 

art. 1134 cod.civ., costituzione del condominio e condominio minimo.

La Suprema Corte (Cass.Civ. VI sez. ord. 10 ottobre 2017, n. 23740 rel. Scarpa)  torna sul tema delle spese anticipate dal singolo, rilevando come debba applicarsi l’art. 1134 cod.civ.  laddove sussista una realtà edilizia che vede la coesistenza di almeno due condomini, a prescindere da qualunque atto formale di costituzione del condominio.

La  vicenda prende le mosse da una sentenza del Tribunale di Roma in veste di giudice di appello: “Il Tribunale di Roma, in riforma della decisione di primo grado resa dal Giudice di Pace di Roma in data 21 maggio 2014, ha rigettato la domanda avanzata dalla stessa Cassa di Previdenza Aziendale per il Personale del Monte dei Paschi di Siena nei confronti di U.C. , volta al pagamento della somma di Euro 3.000,00, oltre accessori, a titolo di ripetizione della quota di partecipazione agli oneri condominiali dell’edificio di via (omissis) .

Il Tribunale ha evidenziato come la Cassa di Previdenza avesse dedotto di agire non quale amministratore del condominio, né in base a delibera dell’assemblea, quanto piuttosto in base ad un contratto che la chiamava ad anticipare le spese occorrenti per la conservazione delle parti comuni prima della costituzione degli organi di gestione.

Tuttavia, afferma la sentenza impugnata, alcuna clausola di tale contenuto esisteva né nel contratto di vendita né nel regolamento di condominio prodotti; e neppure, prosegue il Tribunale, sussistevano le condizioni di urgenza di cui all’art. 1134 c.c. Per di più, la Cassa di Previdenza non avrebbe neppure documentato le spese indicate come anticipate.”

Il ricorso in cassazione vede un unico motivo di doglianza: “La ricorrente assume che il Tribunale avrebbe sbagliato a ritenere applicabile l’art. 1134 c.c., essendo piuttosto applicabile nella specie l’art. 1110 c.c., in quanto ancora nessun condominio si era concretamente formato nell’edificio di via (omissis) , e non era perciò applicabile la disciplina condominiale. Quanto all’art. 1110 c.c., a dire della ricorrente emergerebbero i requisiti della necessità delle spese e della trascuranza degli altri proprietari.”

La corte di legittimità respinge il ricorso attenendosi ad elementi di interpretazione  consolidati:

il provvedimento impugnato ha deciso la questione di diritto in ordine all’applicabilità dell’art. 1134 c.c. in modo conforme alla giurisprudenza di questa Corte, e l’esame del motivo non offre elementi per mutare l’orientamento della stessa, con conseguente inammissibilità ai sensi dell’art. 360-bis, n. 1), c.p.c. (Cass. Sez. U, 21/03/2017, n. 7155).
La censura propende per l’applicazione, nel caso di specie, dell’art. 1110 c.c., piuttosto che dell’art. 1134 c.c., non essendosi ancora “concretamente formato” alcun condominio nell’edificio di via (omissis) . Questa Corte ha però costantemente spiegato come non occorra, ai fini della costituzione del condominio, una manifestazione di volontà dei partecipanti diretta a produrre l’effetto dell’applicazione degli artt. 1117 e seguenti del codice civile.

La situazione di condominio edilizio si ha per costituita nel momento stesso in cui l’originario unico proprietario opera il frazionamento della proprietà di un edificio, trasferendo una o alcune unità immobiliari ad altri soggetti, e così determinando la presunzione legale di cui all’art. 1117 c.c. con riguardo alle parti del fabbricato che, per ubicazione e struttura, siano – in tale momento costitutivo del condominio – destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze generali (cfr., tra le tante, Cass. Sez. 2, 18/12/2014, n. 26766).

Costituitosi, pertanto, da tale momento ex facto il condominio, si applica la relativa disciplina codicistica, ivi compreso l’art. 1134 c.c. il quale, a differenza dell’art. 1110 c.c., che opera in materia di comunione ordinaria, regola il rimborso delle spese di gestione delle parti comuni sostenute dal partecipante non alla mera trascuranza degli altri comunisti, quanto al diverso e più stringente presupposto dell’urgenza, intendendo la legge trattare nel condominio con maggior rigore la possibilità che il singolo possa interferire nell’amministrazione dei beni in comproprietà.

Ne discende che, instaurandosi il condominio sul fondamento della relazione di accessorietà tra i beni comuni e le proprietà individuali, situazione che si riscontra anche nel caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti, la spesa autonomamente sostenuta da uno di essi è rimborsabile solo nel caso in cui abbia i requisiti dell’urgenza, ai sensi dell’art. 1134 c.c. (così Cass. Sez. U, 31/01/2006, n. 2046; Cass. Sez. 2, 12/10/2011, n. 21015).

Tale requisito dell’urgenza (neppure prospettato dalla ricorrente a sostegno della sua pretesa) condiziona il diritto al rimborso del condomino gestore, e si spiega come dimostrazione che le spese anticipate dal singolo fossero indispensabili per evitare un possibile nocumento a sé, a terzi od alla cosa comune, e dovessero essere eseguite senza ritardo e senza possibilità di avvertire tempestivamente l’amministratore o gli altri condomini (da ultimo, Cass. Sez. 6 2, 08/06/2017, n. 14326).”

© massimo ginesi 12 ottobre 2017

art. 1134 cod.civ.: rimborso solo per spese urgenti e non per trascuratezza degli altri condomini.

 

La Suprema Corte conferma un orientamento consolidato: il condomino che agisca per vedersi rimborsare dagli altri partecipanti al condominio le somme anticipate nell’interesse comune deve dimostrare l’urgenza e indifferibilità dell’intervento, non essendo sufficiente a giustificare il suo agire la semplice trascuratezza del condominio nella gestione delle parti comuni.

Ove non adempia a tale prova, non avrà diritto ad alcun rimborso.

Lo ha affermato Cass.civ. sez. II 5 ottobre 2017, n. 23244: in conformità a quanto questa Corte ha già statuito, in cause sovrapponibili alla presente (cfr. Cass. 20151/2013, nonché più di recente Cass. 9177/2017).
Il Tribunale ha sì ritenuto che, trattandosi di un condominio, il rimborso delle spese per la conservazione e la manutenzione delle parti comuni, anticipate da uno dei condomini, trova la sua disciplina nell’art. 1134 c.c., in base al quale il diritto è riconosciuto soltanto per le spese urgenti e non in base al mero dato della trascuratezza degli altri comunisti, ma ha poi – con falsa applicazione di legge che si riflette nella contraddittorietà della motivazione – ravvisato l’urgenza in una situazione di fatto in cui tale urgenza delle spese (intesa, secondo lo stesso Tribunale che si richiama alla pronuncia delle sezioni unite n. 2046/2006, come l’erogazione che non può essere differita senza danno o pericolo) non è ravvisabile (il Tribunale richiama infatti la diffusa inerzia degli altri titolari di immobili compressi nel complesso e la “difficoltà di procurarsi tempestivamente il consenso e la necessaria cooperazione degli altri condomini”, in relazione all’”adeguamento di tutti gli impianti e servizi comuni alle normative di igiene e sicurezza pubblica disciplinanti l’attività alberghiera” e, comunque, al mantenimento degli spazi comuni”

© massimo ginesi 11 ottobre 2017 

 

il condomino apparente è una chimera, anche per il terzo creditore.

La Suprema Corte (Cass.civ. sez. VI ord.  9 ottobre 2017 n. 23621 rel. Scarpa) affronta un tema peculiare,   cogliendo l’occasione per una interessante disamina del sorgere dell’obbligazione condominiale e della sua natura, temi che in diverse recenti sentenze stanno acquisendo una interpretazione organica e di grande interesse per l’operatore del diritto.

Il caso nasce da una opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto dall’appaltatore,  terzo creditore del condominio,  nei confronti di colui che riteneva condomino e che si è, invece, rivelato essere l’amministratore della società di capitali effettiva proprietaria del bene.

Assai singolarmente la Corte di appello di Salerno ha ritenuto che il principio del condomino apparente, spazzato dalle aule di giustizia dalla Cassazione ormai una ventina di anni fa – sulla considerazione che la proprietà immobiliare è soggetta a pubblicità erga omnes e debba  dunque obbligatoriamente essere accertata  da chi agisce – fosse invece applicabile al terzo, “poiché  l’apparenza della qualità di condomino (manifestata dalla partecipazione alle assemblee condominiali senza mai manifestare tale qualità) rileva nei confronti di soggetti terzi, i quali non possono farsi carico di accertare la proprietà dell’immobile”.

Il giudice di legittimità, su ricorso dell’ingiunto, ripercorre con interessante motivazione sia la genesi dell’obbligazione, che presuppone necessariamente la qualità di condomino, sia l’obbligo, per chiunque, di accertare l’effettiva titolarità del bene, non potendo affatto invocarsi l’apparenza del diritto in simili contesti.

“Questa Corte ha più volte affermato che in materia condominiale, quanto meno con riferimento alle azioni promosse dall’amministratore per la riscossione delle spese condominiali di competenza delle singole unità immobiliari di proprietà esclusiva, sono passivamente legittimati soltanto i rispettivi proprietari effettivi di dette unità, e non anche coloro che possano apparire tali, a nulla rilevando la reiterazione continuativa di comportamenti propri del condomino, né sussistendo esigenze di tutela dell’affidamento di un terzo di buona fede nella relazione tra condominio e condomino (Cass. Sez. U, 08/04/2002, n. 5035; Cass. Sez. 2, 03/08/2007, n. 17039; Cass. Sez. 2, 25/01/2007, n. 1627).”

Con riguardo alla bizzarra affermazione della Corte d’Appello di Salerno, la Cassazione rileva che “Questo argomentare non tiene conto che la costruzione giurisprudenziale del principio della diretta riferibilità ai singoli condomini della responsabilità per l’adempimento delle obbligazioni contratte verso i terzi dall’amministratore del condominio per conto del condominio, tale da legittimare l’azione del creditore verso ciascun partecipante, poggia comunque sul collegamento tra il debito del condomino e la res, in quanto è comunque la contitolarità delle parti comuni che ne costituisce il fondamento.

D’altro canto, la stessa conclusione raggiunta in giurisprudenza, per cui la responsabilità dei condomini è retta dal criterio della parziarietà, nel senso che le obbligazioni assunte nell’interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote, è stata costruita spiegando che l’amministratore possa vincolare i singoli comunque “nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote” (Cass. Sez. U, 08/04/2008, n. 9148).

E’ pacifico che occorra l’autorizzazione dell’assemblea (o, comunque, l’approvazione mediante sua successiva ratifica), ai sensi dell’art. 1135, comma 1, n. 4, c.c., e con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, comma 4, c.c., per l’approvazione di un appalto relativo a riparazioni straordinarie dell’edificio condominiale.

E’ poi dalla deliberazione dell’assemblea, e non dal rapporto contrattuale con l’appaltatore, che discende l’obbligo dei singoli condomini di partecipare agli esborsi derivanti dall’esecuzione delle opere, ponendosi il condominio (e non ciascun condomino) come committente nei confronti dell’appaltatore stesso.

Anche, dunque, la vicenda obbligatoria che si imputa pro quota al singolo partecipante è geneticamente correlata al diritto reale condominiale (si vedano, indicativamente, i commi 1 e 2 dell’art. 63 disp. att. c.c., come modificato dalla legge n. 220/2012, pur non applicabile nella specie ratione temporis), ed è quindi quanto meno indirettamente collegata alla situazione resa pubblica nei libri fondiari.

Ai fini dell’invocabilità dell’apparentia iuris a garanzia dell’affidamento maturato dal terzo creditore del condominio, non può quindi negarsi, come fatto dalla Corte d’Appello di Salerno, la sussistenza di un legame con il dato pubblicitario emergente dalla trascrizione nei registri immobiliari, trattandosi di trarre conseguenze ai fini dell’adempimento di un’obbligazione pecuniaria comunque connessa con la titolarità di un diritto reale di proprietà.

D’altro canto, è decisivo osservare come nel nostro ordinamento il principio dell’apparenza del diritto (art. 1189 c.c.) trova applicazione quando sussistono uno stato di fatto difforme dalla situazione di diritto ed un errore scusabile del terzo in buona fede circa la corrispondenza del primo alla realtà giuridica, assumendo comunque rilievo giuridico l’apparenza ai soli fini della individuazione del titolare di un diritto soggettivo, ma non anche per fondare una pretesa di adempimento nei confronti di un soggetto non debitore, atteso che l’affidamento del terzo può legittimare una richiesta di risarcimento danni per il subito pregiudizio, e non invece trasformare in debitore un soggetto che non rivesta tale qualità (cfr. Cass. Sez. U, 01/07/1997, n. 5896; Cass. Sez. 1, 10/11/1997, n. 11041; Cass. Sez. 1, 10/11/1997, n. 11040).”

© massimo ginesi 10 ottobre 2017

Invio avviso di convocazione e giacenza: la Cassazione fuga i dubbi e distingue dall’invio del verbale.

Il problema relativo al momento in cui deve ritenersi perfezionato l’avviso previsto dall’art. 66 disp.att. cod.civ. sembra non trovare soluzione stabile nella giurisprudenza della Suprema Corte.

Per molti anni si è ritenuto che, ove l’invio avvenisse a mezzo posta e il destinatario fosse assente, la consegna dovesse ritenersi perfezionata mediante la consegna dell’avviso di giacenza, atto idoneo a far ritenere che la convocazione fosse pervenuta nella sfera di disponibilità del destinatario; affermava  Cass.civ. sez. II 21 gennaio 2014 n. 1188   “l’idoneità, ai fini della decorrenza del termine in questione, del rilascio dell’avviso di giacenza in data 4 aprile 2013 in coerenza con l’orientamento di questa S.C., secondo il quale le lettere raccomandate si presumono conosciute, nel caso di mancata consegna per assenza del destinatario e di altra persona abilitata a riceverla, dal momento del rilascio del relativo avviso di giacenza presso l’ufficio postale (Cass. 24 aprile 2003 n. 6527; Cass. 1 aprile 1997 n. 2847), nella specie effettuato il 4 aprile 2003”.

Di recente la Suprema Corte sembrava aver invertito la tendenza, poiché nel dicembre 2016 aveva affermato principio del tutto diverso, seppur con riguardo all’aio del verbale di assemblea agli assenti, adempimento che tuttavia tocca il tema della difesa dei diritti, afferendo alla possibilità di proporre impugnazione ex art 1137 cod.civ. nel termine di 3 giorni dalla ricezione: in tal caso era stata affermato che la comunicazione doveva intendersi perfezionata decorsi dieci  giorni di giacenza.

Oggi invece Cass.civ. sez. II  6 ottobre 2017 n. 23396 ritorna  a proporre la lettura tradizionale riguardo all’invio dell’avviso di convocazione: “in tema di condominio, con riguardo all’avviso di convocazione dell’assemblea, ai sensi dell’art. 66 disp. Att. Cod. civ. posto che detto avviso deve qualificarsi quale atto di natura privata […] al fine di ritenere fornita la prova della decorrenza del termine dilatorio di cinque giorni antecedenti l’adunanza di prima convocazione, condizionante la validità delle deliberazioni, è sufficiente e necessario che il condominio (sottoposto al relativo onere) in applicazione della presunzione dell’art. 1335 cod. civ. richiamato, dimostri la data di pervenimento dell’avviso all’indirizzo del destinatario, salva la possibilità per questi di provare di essere stato senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia”.

Il procuratore generale Alberto Celeste – raffinato studioso del diritto condominiale – aveva motivatamente richiesto l’invio alle Sezioni Unite, poiché astrattamente la pronuncia pare porsi in contrasto con la lettura resa a dicembre 2016; la Corte tuttavia ritiene che non sussista identità di ratio fra l’invio dell’avviso e quello del verbale, con una pronuncia articolata che merita lettura integrale e che – seppur condivisibile sotto il profilo di tutela del diritto di difesa  – non fuga del tutto le perplessità sotto il profilo formale, posto che sia l’avviso di convocazione che il verbale di assemblea rimangono comunque atti privati, a quali il sistema normativo sulla comunicazione degli atti ricettivi dovrebbe trovare  applicazione  in maniera uniforme.

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© massimo ginesi 9 ottobre 2017

una interessante pronuncia sul divieto di adibire immobili ad uso turistico contenuto nel regolamento.

Il regolamento condominiale, che non abbia natura contrattuale ma venga approvato a  maggioranza ai sensi dell’art. 1138 cod.civ. non può contenere – per un ormai granitico orientamento giurisprudenziale – clausole che incidano sul diritto dominicale dei singoli condomini.

Uno dei classici divieti, che cadono sotto la censura giudiziaria, è quello che impedisce di destinare le abitazioni ad uso turistico-alberghiero.

Cass.Civ. II sez. 28 settembre 2017 n. 22711 affronta un caso davvero peculiare: il Tribunale di Messina e poi la Corte di appello di Messina respingevano la domanda di alcuni condomini, lamentavano che il Tribunale con latra e precedente sentenza avesse dichiarato nulla la clausola regolamentare introdotta con delibera nel regolamento condominiale con il quale “era stato introdotto il divieto di destinare i locali di proprietà dei singoli condomini ad uso diverso da quello abitativo, di darli in affitto o subaffitto sotto forma di pensione o albergo.”

Ebbene questi condomini lamentavano che fra la data di adozione della delibera e la pronuncia del Tribunale con cui tale divieto era stato dichiarato illegittimo erano stati danneggiati economicamente per non aver potuto utilizzare i propri immobili per gli affitti stagionali a causa del divieto introdotto dal condominio e pertanto chiedevano al condominio risarcimento in tal senso.

Le corti di merito hanno ritenuto che non fosse provato tale danno, poiché “la disposizione regolarmente annullata introduceva il divieto di destinare il locale ad uso diverso dalla privata abitazione, attesa la destinazione degli immobili al luogo di riposo e di villeggiatura e, come correttamente rilevato dal giudice di primo grado, detto disposizione, benché annullata dal Tribunale di Messina perché lesiva delle prerogative dei singoli condomini ed illegittimamente invasiva delle facoltà connessi al diritto di proprietà individuale, tuttavia, non precludeva la possibilità di locare i vani ad uso abitativo anche per brevissimi periodi.

Il divieto riguardava esclusivamente l’affitto degli immobili sotto forma di pensione o albergo, mentre erano consentite tutte quelle utilizzazioni compatibili con la natura del luogo, ivi comprese le locazione ad uso abitativo anche per brevi periodi.

Tali locazioni rappresentavano la forma usuale di sfruttamento degli immobili degli appellanti, come emerso dalle disposizioni dei testi e dalle stesse dichiarazioni rese nel corso dell’interrogatorio, dalle quali risultava che gli immobili in questione, fino all’approvazione del regolamento condominiale, erano affittati per brevi periodi dai clienti dello stabilimento balneare gestito dagli stessi A.”

Secondo i giudici di merito la clausola che vieta la destinazione alberghiera è dunque nulla, ma non perla due l’utilizzo delle brevi locazioni stagionali (ad esempio bed&breakfast) che vanno ricondotte all’utilizzo abitativo. 

La vicenda approda in cassazione, su ricorso dei condomini che si ritengono danneggiati, impugnazione che viene respinta, con un interessante motivazione sulla rilevanza del giudicato portato dalla sentenza che ha dichiarato nulla la clausola regolamentare.

Osservano i giudici di legittimità che: “secondo la giurisprudenza di questa Corte cui questo collegio intende dare continuità, “La violazione della cosa giudicata, in quanto importa disapplicazione dell’art. 2909 cod. civ., è denunziabile in cassazione, ma il controllo di legittimità deve limitarsi all’accertamento degli estremi legali per la efficienza del giudicato esterno nel processo in corso, senza potersi sindacare l’interpretazione che del giudicato stesso abbia dato il giudice di merito, perché essa rientra nella sfera del libero apprezzamento di quest’ultimo e, quindi, è incensurabile in sede di legittimità, quando l’interpretazione stessa sia immune da errori giuridici o da vizi di logica” Sez. L., Sentenza n. 14297 del 08/06/2017.

Nella specie l’interpretazione del giudicato è congruamente motivata con riferimento al tenore complessivo della clausola annullata – pretermesso nell’esposizione del motivo in esame ma ricavabile dalla lettura della sentenza qui impugnata (fol. 5) – che faceva divieto di “destinare i locali ad uso diverso di privata civile abitazione, attesa la destinazione dell’immobile a luogo di riposo e di villeggiatura e pertanto è fatto divieto di darli in affitto o subaffitto sotto forma di pensione o di albergo”, con ciò mettendosi in relazione il diverso uso intensivo dei locali allorché fossero stati destinati a pensione o albergo rispetto all’uso non abitativo in generale.

Sicché la motivazione della sentenza risulta effettivamente immune da errori giuridici e vizi di logica, essendosi limitata a ritenere che la clausola del regolamento condominiale annullata non si riferisse ad un divieto assoluto di adibire i singoli vani dell’immobile ad uso diverso da quello di privata abitazione, e che, pertanto, fosse consentita la locazione per brevi periodi, come dimostrato anche dal tenore letterale del regolamento condominiale e dal fatto che in istruttoria si era accertato che la clausola era stata modificata proprio per chiarire tale aspetto, e che gli stessi appellanti avevano ammesso che la previsione regolamentare consentiva gli affitti saltuari, cui avevano dovuto ricorrere, conseguendo minori guadagni rispetto a quelli derivanti dall’esercizio della preclusa attività alberghiera.

D’altra parte, deve anche evidenziarsi che il significato dell’espressione utilizzata nella sentenza del tribunale di Messina passata in giudicato di cui il ricorrente lamenta la violazione non è affatto univoco. In tale sentenza si legge, secondo quanto riportato nel ricorso, che l’assemblea del condominio non poteva vietare la destinazione dei locali di proprietà esclusiva ad uso diverso di privata abitazione e, tanto meno, vietare di darli in affitto o subaffitto sotto forma di pensione o di albergo. Ben poteva, pertanto, la Corte d’Appello interpretare tale espressione, come poi effettivamente ha fatto, nel senso che, se in astratto è illegittimo un regolamento condominiale che vieti una particolare destinazione agli immobili di proprietà esclusiva, in concreto tale illegittimità certamente ricomprende quella di vietare l’affitto sotto forma di pensione o di albergo.
Alla luce di ciò deve allora ritenersi coperta da giudicato l’illegittimità della clausola ma non le argomentazioni svolte nella sentenza di annullamento in merito agli altri usi che sarebbero stati comunque consentiti, non costituendo, tale svolgimento logico, un presupposto ineliminabile per sostenere la illegittimità della delibera.

© massimo ginesi 6 ottobre 2017 

la lavascale che vive nel condominio non può rivendicare la retribuzione del portiere.

Lo ha stabilito la Suprema Corte (Cass. sez. lav.  ord. 3 ottobre 2017 n. 23049) a fronte delle richieste di un soggetto che, avendo prestato attività lavorativa come lava scale per molti anni in favore del Condominio, rivendicava il riconoscimento del contratto di portierato e la corresponsione delle relative retribuzioni.

 La donna fondava la propria richiesta sulla circostanza che, nel corso degli anni, era stata presente in condominio in orari diversi da quelli destinati alla pulizia delle scale.

Il Tribunale di Lecco in funzione di giudice del lavoro, e poi la Corte di appello di Milano avevano ritenuto insufficienti tali presupposti, poiché non risultava dimostrato lo svolgimento di funzioni diverse rispetto a quelle indicate nelle lettere di assunzione come lava scale,  mentre la presenza della donna nell’edificio condominiale in orari diversi da quelli lavorativi era assolutamente compatibile con il fatto che il Condominio le aveva concesso di vivere in un appartamento comune, con esonero dalle spese, circostanza che i giudici hanno considerato come manifestazione di disponibilità e vantaggio reciproco ma inidonea – in assenza di prova specifica – a dimostrare, da sola, l’esistenza di un rapporto di portierato.

© massimo ginesi 5 ottobre 2017