furto tramite ponteggio: il condominio non è responsabile ex at. 2051 cod.civ.

La Cassazione (Cassazione civile, sez. III, 20/06/2017,  n. 15176) ridimensiona la responsabilità del Condominio in caso di furto nell’appartamento di un condomino agevolato dalla esistenza di un ponteggio installato per l’esecuzione di opere nel fabbricato.

Il Condominio può essere ritenuto responsabile ai sensi dell’art. 2043 cod.civ., in concorso con l’appaltatore, ma non quale custode ai sensi dell’art. 2051 cod.civ. m con ovvi riflessi di alleggerimento in ordine alla sua responsabilità, quanto meno sotto il profilo probatorio.

ai fini della sussistenza della responsabilità di cui all’art. 2051 c.c., sono necessari due presupposti: a) una relazione diretta tra la cosa e l’evento dannoso, intesa nel senso che la prima, per il suo intrinseco dinamismo o per l’insorgere in essa di un evento dannoso, abbia prodotto direttamente il secondo, e non sia stata invece solo lo strumento mediante il quale l’uomo abbia causato il danno con la sua azione od omissione; b) un effettivo potere fisico del soggetto sulla cosa, comportante a carico del predetto l’obbligo di vigilare la cosa medesima e di mantenerne il controllo, in modo da impedire che essa produca danni a terzi (cfr. espressamente in tal senso: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 520 del 22/01/1980, Rv. 403906 – 01; nel medesimo senso; Sez. 3, Sentenza n. 3722 del 21/10/1976, Rv. 382419 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 3994 del 28/08/1978, Rv. 393591 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 1682 del 15/02/2000, Rv. 533878 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 11275 del 27/05/2005, Rv. 581920 – 01; cfr. altresì Sez. 3, Sentenza n. 26901 del 19/12/2014, Rv. 633783 – 01 e, per certi aspetti, Sez. 3, Sentenza n. 2660 del 05/02/2013, Rv. 625158 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 6306 del 13/03/2013, Rv. 625465 – 01; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 21212 del 20/10/2015, Rv. 637445 – 01; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 5910 del 11/03/2011, Rv. 617369 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 8005 del 01/04/2010, Rv. 612274 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 28811 del 05/12/2008, Rv. 605943 – 01).

E’ quindi da escludere, in linea di principio, che – in caso di furto reso possibile dall’omessa adozione delle necessarie misure di sicurezza in relazione all’impalcatura di proprietà e/o installata, come nella specie, dall’appaltatore per effettuare lavori nello stabile condominiale – possa automaticamente affermarsi sussistere a carico del condominiocommittente, ai sensi dell’art. 2051 c.c., una responsabilità oggettiva o presunta, “da custodia” della struttura, della quale quest’ultimo ha semplicemente consentito l’installazione, laddove si riconosca a carico dello stesso appaltatore (proprietario e/o quanto meno diretto installatore e utilizzatore della predetta struttura) esclusivamente una responsabilità ordinaria per colpa, ai sensi dell’art. 2043 c.c..

In una siffatta ipotesi, la responsabilità del condominio committente può essere affermata esclusivamente ai sensi dell’art. 2043 c.c., in concorso con quella dell’appaltatore, per omissione degli obblighi di vigilanza sull’attività di quest’ultimo.

Ed in tale ottica costituisce questione di fatto stabilire in quali limiti ed in quali termini lo stesso condominio disponga, nella vicenda concreta, di tali poteri di vigilanza, ed eventualmente anche in che termini ed in che limiti sia comunque esigibile, secondo l’ordinaria diligenza che, nell’affidamento a terzi di lavori in appalto da svolgersi sulle parti comuni dell’edificio, esso si riservi in ogni caso siffatti poteri, a tutela dei condomini e dei terzi ai quali dai lavori stessi possano derivare eventuali pregiudizi.

Nella specie, i giudici di merito, sulla base dell’esame delle circostanze di fatto rilevanti e della prudente valutazione del materiale istruttorio, ed in virtù di adeguata motivazione, da una parte hanno in concreto escluso la sussistenza di un concreto potere di fatto, da parte del condominio, in relazione all’impalcatura montata dall’appaltatore, così negando in radice il presupposto del rapporto di custodia con la struttura che avrebbe agevolato il danno, e dall’altra parte hanno altresì accertato che non era stato dedotto, ancor prima che provato, un difetto di vigilanza sull’impresa da parte del condominio.”

© massimo ginesi 30 giugno 2017 

utilizzo del lastrico solare comune da parte del singolo condomino

La Cassazione ( Cass.civ. sez.VI 28 giugno 2017 n. 16260 rel. Scarpa) fornisce una lettura ampia e orientata al principio di solidarietà dell’art. 1102 cod.civ.

Una condomina trasforma la propria finestra in porta finestra per accedere al lastrico comune, che dota di ringhiera e occupa con alcuni arredi da giardino.

Il Condominio si duole che tale iniziativa costituisca illecito utilizzo del bene comune in quanto idoneo a sottrarlo al pari uso degli altri condomini e come tale costituirebbe violazione del  disposto dell’art. 1102 cod.civ.

Questa corte ha più volte affermato come l’uso della cosa comune da parte di ciascun condomino è sottoposto, secondo il disposto dell’articolo 1102 c.c., a due fondamentali limitazioni, consistenti nel divieto di alterare la destinazione della cosa comune e nell’obbligo di consentire un uso paritetico gli altri condomini.

Simmetricamente, la norma in parola,  intesa, altresì, ad assicurare al singolo partecipante, quanto all’esercizio concreto del suo diritto, le maggiori possibilità di godimento della cosa, legittima quest’ultimo entro i limiti ora ricordati a servirsi di essa anche per fini esclusivamente ai propri, traendone ogni utilità, non potendosi intendere la nozione di uso paritetico in termini di assoluta identità di utilizzazione della res, poiché una lettura in tal senso della norma de qua, in una dimensione spaziale o temporale, comporterebbe sostanziale divieto, per ciascun qua il domino, di fare, della cosa comune, qualsiasi uso particolare a proprio vantaggio.

I rapporti condominiali, invero, sono informati al principio di solidarietà il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione. Ne consegue che qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non possono fare un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, dal momento che, in una materia in cui è prevista la massima espansione dell’uso, il limite al godimento di ciascuno dei condomini è data dagli interessi altrui, i quali, pertanto, costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possono volere accrescere il pari uso cui hanno diritto.

…i giudici del merito non hanno considerato che il più ampio uso del bene comune, da parte del singolo condomino, non configura ex se una lesione o menomazione dei diritti degli altri partecipanti, ove, ad esempio esso trovi giustificazione  nella conformazione strutturale del fabbricato (giacché, come sosteneva la stessa appellante, trattasi di lastrico solare al quale sia possibile accedere da uno solo degli appartamenti di proprietà esclusiva)”

il giudice di legittimità  cassa con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Roma che dovrà accertare in concreto se la misura dell’utilizzo posta in essere dalla condomina sia idoneo a pregiudicare la funzione di copertura del lastrico o abbia sottratto in maniera irrimediabile la porzione ad ogni possibile futuro utilizzo dei condomini.

© massimo ginesi 29 giugno 2017

il condominio è sempre consumatore

Lo ha affermato il Tribunale di Massa con sentenza 26 giugno 2017 n. 552, in una controversia ove il condominio – cui era stata notificato decreto ingiuntivo da parte di un fornitore – nel proporre opposizione eccepisce l’incompetenza territoriale del giudice, rilevando che – ove il condominio sia composto unicamente da operatori commerciali – non possa applicarsi il c.d. foro del consumatore.

Il Tribunale respinge l’eccezione, sull’assunto che al condominio – quale che sia la natura dei soggetti che lo compongono – deve sempre essere riconosciuta natura privatistica.

Va preliminarmente rilevato come risulti infondata come risulti infondata territoriale sollevata dall ’op ponente sull’assunto che al condominio non si debba riconoscere la qualifica di consumatore e non sarebbe dunque  applicabile il relativoforo disciplinato dal D.lgs 206/2005.  

La tesi risulta non accoglibile, atteso che la qualifica di consumatore è ricondotta  dalla giurisprudenza al condominio in quanto tale (da ultimo  Cassazione civile, sez. VI, 22/05/2015,  n. 10679), sull’assunto che “Al contratto concluso con un professionista da un amministratore di condominio, ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti, si applica la disciplina di tutela del consumatore, agendo l’amministratore stesso come mandatario con rappresentanza dei singoli condomini, i quali devono essere considerati consumatori, in quanto persone fisiche operanti per scopi estranei ad attività imprenditoriale o professionale”.

Pur non apparendo condivisibile il percorso logico che ancora oggi conduce la giurisprudenza di legittimità – sulla scorta di Cass. SS.UU. 914872008 – a ritenere che il contratto concluso dall’amministratore produca effetti direttamente in capo ai singoli condomini in virtù del rapporto di mandato, dovendosi viceversa ritenere che tale pattuzione vincoli il condominio in quanto tale all’unica e totale prestazione ivi dedotta (a mente di Cass. 9 8630/1996), salvo poi la possibilità per il creditore di attuarla esecutivamente in via parziaria nei confronti dei singoli ex art. 63 Ii comma disp. Att. C.c., paiono comunque condivisibili gli approdi circa la qualifica di consumatore da riconoscere al soggetto condominio.

Emerge dalla stessa giurisprudenza delle sezioni unite citata dall’opponente (Cassazione civile, sez. un., 18/09/2014,  n. 19663) che al condominio in quanto tale debba riconoscersi una soggettività autonoma, seppur imperfetta ed attenuata, rispetto ai suoi componenti e che lo stesso persegua scopi che non sono del tutto coincidenti con quelli dei singoli che lo compongono; affermano infatti le sezioni unite che il principio della necessaria concorrenza di legittimazione processuale fra amministratore e singoli – da sempre affermato dalla giurisprudenza per determinate controversie – “non trova applicazione relativamente alle controversie aventi ad oggetto non i diritti su di un servizio comune, bensì la gestione di esso, ed intese, dunque, a soddisfare esigenze soltanto collettive della comunità condominiale, o l’esazione delle somme dovute in relazione a tale gestione da ciascun condomino, nelle quali non vi è correlazione immediata con l’interesse esclusivo d’uno o più partecipante

Ne deriva che al condominio, quale centro di imputazione di interessi dotato di autonomia soggettiva  non perfetta (si rientrerebbe altrimenti nella categoria delle persone giuridiche, cui il codice del consumo non può applicarsi) si debbano riconoscere scopi  e funzioni secondo i parametri delineati dagli artt. 1117/1139 c.c., volti alla fruizione, gestione e manutenzione del bene immobile in cui il condominio è posto; a tali funzioni teleologicamente orientate – proprio per la non immediata correlazione fra i la natura/funzione del condominio e gli interessi esclusivi di uno o più partecipanti così come evidenziato dalle sezioni unite, deve essere riconosciuta una caratteristica ontologicamente privatistica, che sfugge alla natura imprenditoriale e agli scopi per cui agiscono i singoli che lo compongono.

Appare ragionevole ritenere che il condomino, nel momento in cui agisce come tale, ovvero per la gestione dei beni comuni e strumentali a proprietà solitarie, agisca comunque quale soggetto privatistico che persegue fini estranei alla natura imprenditoriale dei suoi componenti; fini che sono semplicemente volti alla fruizione e conservazione delle parti comuni di un fabbricato, in cui la destinazione funzionale delle singole unità che lo compongono non può essere necessariamente identitaria anche della connotazione soggettiva di consumatore.

Si dovrebbe altrimenti ritenere che il soggetto condominio possa repentinamente cambiare identità al solo mutare della destinazione di qualche unità, né si riuscirebbe a fornire la tutela prevista dal d.lgs 206/2005 a quei fabbricati misti composti da immobili con diversa destinazione, atteso che alla luce delle sezioni unite del 2014 si deve comunque aver riguardo al centro di imputazione collettivo e non già ai singoli individui che lo compongono.

Appare dunque più lineare e conforme allo spirito della legge, della interpretazione di legittimità sulla natura del condominio e a quella di tutela del consumatore ritenere che l’interesse condominiale – quale che sia la natura dei condomini – sfugge alla loro natura imprenditoriale, per rimanere circoscritto alla sola caratterizzazione privatistica che gli profilano gli artt. 1117/1139 c.c.

Ne deriva che, correttamente, il decreto ingiuntivo sia stato richiesto al Giudice del luogo ove il convenuto consumatore ha sede.”

© massimo ginesi 28 giugno 2017 

il vizio di convocazione può essere fatto valere solo dall’interessato.

La suprema corte (Cass.civ. sez. VI 22 giugno 2017 15550 rel. Scarpa)  riafferma un principio consolidato, con una motivazione di pregio, che consente un ottimo inquadramento della materia.

Legittimato ad impugnare la delibera per vizio di convocazione è solo il condomino che assuma di non essere stato ritualmente convocato, atteso che tale fatto da luogo ad annullabilità e non a nullità.

La sentenza riafferma anche atro principio noto: la domanda volta all’accertamento di un autonomo condominio relativo ai box va posta nei conforti dei condomini interessati – comportando litisconsorzio necessario – e non dell’amministratore.

Ora, è noto come l’art. 66, comma 3, disp. att. c.c., a seguito della riformulazione operatane dalla legge n. 220/2012 (nella specie, non applicabile ratione temporis) precisa che, in caso di avviso omesso, tardivo o incompleto degli aventi diritto, la deliberazione adottata è annullabile, ma su istanza (soltanto) dei dissenzienti o assenti perché non ritualmente convocati.

La Riforma del 2012 ha così tratto le necessarie conseguenze sotto il profilo processuale dalla sistemazione della fattispecie dell’omessa convocazione nell’ambito dei rimedi sostanziali operata da Cass. Sez. U, Sentenza n. 4806 del 07/03/2005.

Una volta condiviso il principio per cui la mancata comunicazione a taluno dei condomini dell’avviso di convocazione dell’assemblea condominiale, in quanto vizio procedimentale, comporti non la nullità, ma l’annullabilità della delibera condominiale, è inevitabile concludere che la legittimazione a domandare il relativo annullamento spetti, ai sensi degli artt. 1441 e 1324 c.c., unicamente al singolo avente diritto pretermesso.

L’interesse del condomino che faccia valere un vizio di annullabilità, e non di nullità, di una deliberazione dell’assemblea, non può, infatti, ridursi al mero interesse alla rimozione dell’atto, ovvero ad un’astratta pretesa di sua assoluta conformità al modello legale, ma deve essere espressione di una sua posizione qualificata, diretta ad eliminare la situazione di obiettiva incertezza che quella delibera genera quanto all’esistenza dei diritti e degli obblighi da essa derivanti: la delibera assembleare è annullabile sulla base del giudizio riservato al soggetto privato portatore di quella particolare esigenza di funzionalità dell’atto collegiale tutelata con la predisposta invalidità, esigenza che si muove al di fuori del complessivo rapporto atto-ordinamento.

Da tali premesse, a confutazione delle doglianze contenute nel ricorso, richiamando l’orientamento già proprio di questa Corte, deve affermarsi che: “il condomino regolarmente convocato non può impugnare la delibera per difetto di convocazione di altro condomino, trattandosi di vizio che inerisce all’altrui sfera giuridica, come conferma l’interpretazione evolutiva fondata sull’art. 66, comma 3, disp. att. c.c., modificato dall’art. 20 della legge 11 dicembre 2012, n. 220” (Cass. Sez. 2, 23/11/2016, n. 23903; Cass. Sez. 2, 18/04/2014, n. 9082; Cass. Sez. 2, 13/05/2014, n. 10338).

L’infondatezza del ricorso è ancor più palese ove si consideri che non potesse comunque essere oggetto del giudizio di impugnazione della deliberazione asssembleare, ai sensi dell’art. 1137 c.c., l’agitata questione dell’accertamento dell’esistenza di un “condominio autonomo” con riferimento alle distinte unità immobiliare realizzate nel piano interrato e destinate ad autorimesse, trattandosi di domanda rivolta nei confronti dell’amministratore, e che avrebbe, piuttosto, imposto il litisconsorzio necessario di tutti quei singoli condomini (Cass. Sez. 2, 18/04/2003, n. 6328; Cass. Sez. 2, 01/04/1999, n. 3119).”

© massimo ginesi 27 giugno 2017 

nel procedimento di revoca dell’amministratore non è necessaria la difesa tecnica

Lo ha stabilito la suprema Corte ( Cass.civ. sez. VI 23 giugno 2017 n. 15706, rel. Scarpa), osservando che .

  • avverso il provvedimento della corte di appello, che statuisce sul reclamo contro il provvedimento di revoca emesso dal Tribunale, è inammissibile il ricorso per cassazione se non sul capo delle spese.
  • Il procedimento di revoca dell’amministratore, che può essere intrapreso su ricorso di ciascun condomino, riveste un carattere eccezionale d’urgenza oltre che sostitutivo della volontà assembleare ed è  ispirato dall’esigenza di assicurare una rapida ed efficace tutela ad una corretta gestione dell’amministrazione condominiale, a fronte del pericolo di grave danno derivante da determinate condotte dell’amministratore. Non è quindi ammessa la partecipazione al giudizio dei condomini e del condominio interessato:  legittimato a contraddire  soltanto l’amministratore, non sussistendo litisconsorzio degli altri condomini.”
  • il giudizio è improntato a rapidità, informalità e ufficiosità, potendo peraltro il provvedimento essere adottato sentito l’amministratore in contraddittorio con il ricorrente (art. 64 comma 1, disp.att. cod.civ.). Il decreto del tribunale di revoca incide, quindi, sul rapporto di mandato fra condomini ed  amministratore, al culmine di un procedimento camerale plurilaterale, nel quale, tuttavia, l’intervento giudiziale è pur sempre diretto all’attività di gestione di interessi. Pertanto il provvedimento del tribunale non riveste alcuna efficacia decisoria e lascia salva al mandatario revocato la facoltà di chiedere la tutela giurisdizionale del diritto provvisoriamente inciso, facendo valere le sue ragioni attraverso un processo a cognizione piena (pur non ponendosi questo come un riesame del decreto)
  • poiché, allora, il giudizio di revoca dell’amministratore di condominio da luogo ad un procedimento camerale plurilaterale tipico nel quale l’intervento del giudice è diretto all’attività di gestione di interessi e non culmina in un provvedimento avente efficacia decisori,a in quanto non incide su situazioni sostanziali di diritti o di status, non è indispensabile il patrocinio di un difensore legalmente esercente ai sensi dell’articolo 82 comma III c.p.c.

Per tali ragioni, conclude la Corte, salvo che la parte non rivesta essa stessa qualifica di difensore legalmente esercente, non può chiedere che il rimborso delle spese vive, senza che possano essergli liquidate competenze professionali.

© massimo ginesi 26 giugno 2017

l’obbligo di spesa per i lavori straordinari sorge con la delibera di approvazione

La Cassazione conferma un orientamento ormai consolidato, circa il momento genetico dell’obbligo del condomino di contribuire alla spesa per l’esecuzione di lavori straordinari.

La decisione attiene a caso che, ragione temporis, non vede l’applicazione dell’art. 63 disp.att. cod.civ. nella formulazione introdotta dalla l. 220/72012, che ha esteso la solidarietà fra venditore ed acquirente sino al momento entro della formale comunicazione dell’atto di vendita all’amministratore.

Aldilà della solidarietà nei confronti del condominio, l’esatta individuazione del momento genetico dell’obbligo è comunque rilevante sia per la scelta delle modalità dell’azione (se in via ordinaria o monitoria, Cass.Civ. II sez. 9 settembre 2008, n. 23345), sia  nei rapporti interni fra i condebitori.

Cass.Civ. II sez. 22 giugno 2017 n. 15547 rel. Scarpa, nell’esaminare le doglianze di un condomino che si riteneva carente di legittimazione passiva in ordine alla domanda del condominio avanzata per il pagamento di quote relative a lavori straordinari, osserva:

Tale motivo si duole, peraltro, della carenza di legittimazione passiva del D’I. rispetto alla pretesa creditoria del Condominio, per aver egli già alienato la sua unità immobiliare al momento della deliberazione assembleare di ripartizione delle spese di manutenzione straordinaria, fatto esaminato e superato nella sentenza impugnata, la quale ha dato correttamente rilievo alla data della deliberazione di approvazione di tali lavori, allorchè il ricorrente era ancora condomino e perciò era obbligato a contribuire agli esborsi.

Trova qui applicazione ratione temporis, attesa l’epoca di insorgenza dell’obbligo di spesa per cui è causa, l’art. 63, comma 2, disp. att. c.c., nella formulazione antecedente alla modificazione operata dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220.

In forza di tale norma, chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato, solidalmente con questo al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente.

Dovendosi individuare, ai fini dell’applicazione dell’art. 63, comma 2, disp. att. c.c., quando sia insorto l’obbligo di partecipazione a spese condominiali per l’esecuzione di lavori di straordinaria amministrazione sulle parti comuni (ristrutturazione della facciata dell’edificio condominiale)”, deve farsi riferimento alla data di approvazione della delibera assembleare che ha disposto l’esecuzione di tale intervento, avendo la stessa delibera valore costitutivo della relativa obbligazione (Cass. Sez 6 — 2, 22 marzo 2017, n. 7395; Cass. Sez. 2, 03/12/2010, n. 24654).

Tale momento rileva anche per imputare l’obbligo di partecipazione alla spesa nei rapporti interni tra venditore e compratore, se gli stessi non si siano diversamente accordati, rimanendo, peraltro, inopponibili al condominio i patti eventualmente intercorsi tra costoro.”

© massimo ginesi 23 giugno 2017 

mediazione: il termine per l’inizio non è perentorio e non ha natura processuale.

Una pronuncia di buon senso della giurisprudenza di merito, che ha ritenuto non perentorio il termine di quindici giorni assegnato dal giudice per l’inizio del procedimento, atteso che una interpretazione rigida della normativa in tema di risoluzione stragiudiziale delle controversie finirebbe per penalizzare il diritto stesso di accesso alla giustizia.

Pertanto, ove la mediazione sia stata esperita, anche dopo tale termine, dovrà ritenersi avverata la condizione di procedibilità.

Lo ha affermato la Corte di Appello di Milano con sentenza del 24 maggio 2017, riformando la sentenza di primo grado che aveva dichiarato improcedibile l’opposizione a decreto ingiuntivo e definitivo il decreto opposto.

Le argomentazioni a sostegno della decisione sono di deciso interesse e qualificano quale unico termine perentorio previsto dal D.lgs 28/2010 quello di sospensione necessaria del processo, pari a tre mesi, per l’esperimento della mediazione.

© massimo ginesi 22 giugno 2017

è obbligo dell’appaltatore verificare l’idoneità del suolo su cui eseguire la costruzione.

Anche se non è espressamente dedotto in contratto, nelle realizzazione di opere edilizie costituisce comunque obbligo dell’appaltatore verificare che il suolo su cui devono essere eseguite le opere sia idoneo alla loro costruzione, in quanto si tratta di cautela necessaria e prodromica alla esecuzione stessa dell’appalto.

Ove ciò non avvenga e ne derivi danno, l’appaltatore ne sarà comunque responsabile, in via solidale con il direttore dei lavori.

Lo afferma Cass.civ. sez. I 20 giugno 2017 n. 15190 in una monumentale pronuncia, in cui afferma che tale obbligo incombe all’appaltare anche in presenza di vizi di progettazione riconducibili al committente.

La sentenza, per ampiezza di argomentazioni, anche processuali, merita lettura integrale.

15190

© massimo ginesi 21 giugno 2017