mediazione ed opposizione a decreto ingiuntivo: una tesi innovativa.

La afferma il Tribunale di Pavia che, con ordinanza 9 marzo 2017, ha stabilito – dissentendo dall’orientamento della cassazione – che, in caso di opposizione a decreto ingiuntivo in cui sia stata negata la provvisoria esecutorietà, il giudice può disporre la mediazione stabilendo che sia l’opposto a dover dare formale inizio al procedimento e che – ove ciò non avvenga – verrà dichiarata l’improcedibilità della opposizione e revocato il decreto.

Con lo stesso provvedimento il Tribunale lombardo ha anche ordinato che al procedimento di mediazione partecipi un terzo che non è parte del processo, ma dalla cui posizione può dipendere l’esito positivo della mediazione e che il mediatore debba verbalizzare al primo incontro le ragioni che impediscono la prosecuzione della mediazione.

“Considerato che la mediazione è una procedura informale che consente, con l’accordo delle parti, di chiamare in mediazione anche soggetti diversi da quelli coinvolti nel giudizio, specie se con la loro partecipazione a quella procedura essi possono oggettivamente aiutare le parti processuali nella ricerca di una soluzione amichevole della causa in corso e, nel contempo, prevenire la formazione di ulteriore contenzioso giudiziario, rispetto al quale la definizione giudiziale della presente opposizione sarebbe l’antecedente logico;

Valutato preliminarmente che la parte onerata dell’avvio della procedura di mediazione, come stabilito da Cass. 24629/15, sarebbe normalmente l’opponente e che il mancato avvio della mediazione determinerebbe la sanzione della conferma del decreto, ex art. 653, co. 1, cpc;

Ritenuto tuttavia che, da un lato, con ordinanza del 17.09.2015 non era concessa la provvisoria esecuzione del decreto di consegna della documentazione fideiussoria, emesso in sede monitoria e, dall’altro, che residua al magistrato la discrezionalità, da applicare nel caso di specie, di ritenere più opportuno porre l’onere dell’avvio in capo al convenuto opposto, dissentendo motivatamente da quanto stabilito dalla citata Cass 24629/15, che non aveva mai preso in considerazione la pur rilevante distinzione tra decreti ingiuntivi ai quali è concessa la provvisoria esecuzione (che da una prima valutazione possono apparire fondati) e decreti ai quali tale provvisoria esecuzione è stata negata (che da una prima valutazione possono invece apparire infondati), come appunto verificatosi nella specie;

Ritenuto infine che per imprescindibili motivi di organizzazione del ruolo, l’udienza di precisazione conclusioni, già programmata per il 9.03.2017 deve necessariamente essere rinviata al 2018;

Ciò premesso, visto l’art. 5, co. 2, D.Lgs. 28/2010, dispone Che le parti partecipino a una procedura di mediazione, invitando la parte più diligente ad avviare la procedura ma ponendo l’onere formale dell’avvio in capo al convenuto opposto, avvisandolo che in difetto la sua domanda di merito sarà dichiarata improcedibile e il decreto sarà revocato;

Viste le particolarità del presente giudizio, si invita la parte che avvia la procedura di mediazione a convocare avanti al mediatore sia la controparte processuale che il terzo, debitore principale, dal quale dipende, secondo le prospettazioni della banca opponente, l’impossibilità giuridica di produrre la documentazione chiesta dall’opposto con l’ingiunzione di pagamento;

Ritenuto che il regolare ed effettivo svolgimento della mediazione sarà condizione di procedibilità del giudizio, si avvisa che non sarà considerata soddisfatta la condizione con un mero incontro preliminare tra i difensori delle parti e il mediatore, essendo all’uopo necessaria la personale presenza delle parti o di loro procuratori ad negotia, muniti del potere di concludere l’accordo;

Si invitano le parti, ove una di esse dichiarasse la propria impossibilità di partecipare o di proseguire nella mediazione oltre il primo incontro, e ove in tale eventualità non fosse disposto un rinvio per consentirle di partecipare, a chiedere che il mediatore verbalizzi quali ostacoli oggettivi impediscono la partecipazione al primo incontro o si frappongono alla prosecuzione della mediazione oltre il primo incontro. Tale verbalizzazione non sarà considerata in violazione della riservatezza, riportando elementi valutabili ai fini delle decisione, ex art. 116, co. 2, cpc.”

© massimo ginesi 31 marzo 2017

Le spese personali imputate ai singoli condomini (ed altre storie…).

 

Una recente sentenza del Tribunale di Massa (13 marzo 2017 n. 207) affronta numerose questioni in tema di impugnativa di delibera, oltre alla preliminare eccezione di mancato esperimento della mediazione.

In realtà solo uno dei motivi addotti si rivela fondato ma, per la particolarità dei rilievi, può essere di interesse esaminare il contenuto dell’intero provvedimento.

LA MEDIAZIONE – il Condominio convenuto eccepisce in via preliminare il mancato esperimento della mediazione, poiché – a suo dire – il procedimento non ha mai avuto inizio essendosi  è fermato all’incontro preliminare, ove il mediatore ha dato atto della mancata disponibilità delle parti: osserva il Tribunale “L’eccezione non appare fondata: richiamato quanto già evidenziato nell’ordinanza 24.5.2016, va sottolineato che l’obbligo previsto dal D.lgs 28/2010 e succ. mod. non può ritenersi cogente a tal punto da obbligare le parti a prestare consenso obbligato ad una soluzione conciliativa.

La più recente giurisprudenza di merito, (Trib. Pavia 20.1.2017) ha evidenziato parametri rigidi nella valutazione della condotta delle parti che si sottraggano o non presenzino personalmente al primo incontro, impostazione che può essere condivisibile attesa la natura e la ratio dell’istituto, che deve arrivare a sollecitare quei distretti emotivi e paragiudiziari che potrebbero evolvere a favore di una definizione pregiudiziale della lite.

Nel caso di specie, tuttavia, tutte le parti e i relativi difensori risultano aver partecipato al primo incontro di mediazione del 16.12.2015, come da verbale prodotto, al quale tutti costoro – senza che si evidenzi una responsabilità precisa in tal senso – hanno dichiarato di non voler procedere a mediazione.

Per come deve essere strutturato il primo incontro ai sensi dell’art. 8 I comma D.lgs 28/2010 (Durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento) e dunque per gli obblighi di avvertimento e sondaggio della disponibilità delle parti che sono posti in capo la mediatore, si deve ritenere che – all’esito di tale incontro – nessuna delle parti in causa abbia intravvisto margini utili di trattativa.

Non può pertanto ragionevolmente ritenersi necessaria alcuna ulteriore attività per ritenere avverata la condizione di procedibilità, a meno di non ritenere sussistente un potere coercitivo dell’istituto che oltrepasserebbe di gran lunga il confine della barriera costituzionale prevista dall’art. 24 Cost., nei cui confronti lo sbarramento posto dal D.Lgs 2872010 già appare di non assoluta solidità”

LA DELIBERA CHE APPROVA SPESE PERSONALI E’ NULLA – Agli attori è stato imputato, a consuntivo, un significativo esborso per spese personali, che gli stessi contestano, rilevando al contempo che non compete alla assemblea deliberare sul punto. Il Condominio ha opposto che si trattava di esborsi personali, dovuti a seguito della inerzia degli attori nel fornire i dati per la compilazione del registro di anagrafe condominiale  ex art. 1130 cod.civ.

Osserva il Tribunale “La censura è fondata poiché, aldilà della fondatezza o congruità delle somme richieste ad oggi non documentata, esula dai poteri della assemblea procedere alla approvazione ed imputazioni di spese individuali che non attengano alla gestione comune. Ove si tratti di spese postali relative a incombenze di interesse comune (ad esempio i costi delle raccomandate relative alla convocazioni di assemblea), le stesse dovranno essere ripartite per millesimi e dovranno trovare riscontro contabile nel rendiconto e nella relativa ripartizione e non solo in quest’ultima, cosicché sia garantita la facoltà di verifica che gli strumenti oggi previsti dall’art. 1130 bis cod.civ. sono destinati a fornire al singolo… 

...nel documento denominato rendiconto – sopra evidenziato – le spese personali per € 883,13 (così come indicate nel conguaglio 2014/2013) sono espressamente richiamate e non vi è dubbio che tale rendiconto sia stato oggetto di espressione della volontà assembleare.

Volontà che ha dunque superato il perimetro delle attribuzioni dell’organo collegiale delineato dall’art. 1135 cod.civ., circostanza che rende nulla la delibera unicamente su tale specifico punto, posto che il vizio lamentato – anche ex art. 1419 cod.civ. – non appare suscettibile di estendere il suo effetto alla approvazione del consuntivo relativo alla amministrazione delle cose comuni.

In ordine alla nullità di statuzioni di questo tipo, la giurisprudenza appare stabilmente orientata: “L’assemblea aveva esercitato un potere che non le spettava ex art. 1135 c.c., non rientrando tra le prerogative assembleari quelle di addossare ai condomini, in violazione dell’art. 1123 c.c., fantomatiche spese di natura personale, posto che l’assemblea non è dotata di “autodichia”, cioè non può farsi giustizia da sé.
Tali deliberati, infatti, esulavano dalle attribuzioni dell’assemblea, che non aveva il potere di imputare al singolo condòmino una determinata spesa, al di fuori di quelle inerenti la gestione, manutenzione e conservazione dei beni comuni condominiali e solo per la quota di sua spettanza, senza che la stessa fosse accettata e riconosciuta espressamente dalla condomina… (Cass. civ., Sez. II, 30/04/2013, n. 10196; Cass. civ. Sez. II, 21/05/2012, n. 8010; Cass. civ., Sez. II, 22/07/1999, n. 7890;Trib. Milano, Sez. XIII, 6/5/2004 n. 5717)”.


OBBLIGO DI RENDICONTO ED ACCESSO AI DOCUMENTI CONDOMINIALI – Gli attori si dolgono anche che l’amministratore non abbia prontamente riscontrato la loro richiesta di ottenere copia di alcuni documenti contabili, ritenendo che ciò costituisca violazione dell’obbligo di rendiconto. Osserva il Giudice di merito che “Gli attori paiono equivocare sull’obbligo di rendiconto ed il diritto di accesso del condomino alla documentazione contabile, attività che, seppur entrambe pertinenti al tema della gestione condominiale, non sono coincidenti né sovrapponibili.

L’obbligo di rendiconto è assolto dall’amministratore mediante la predisposizione dei documenti previsti dall’art. 1130 bis cod.civ. e il rispetto dei termini di cui all’art. 1130 n. 10 cod.civ., obblighi che peraltro configurano una violazione dei doveri che può dar luogo a revoca dell’amministratore ai sensi dell’art. 1129 cod.civ. ma che – in astratto – non configura necessariamente un vizio della delibera.

Nel caso di specie la documentazione contabile predisposta dall’amministratore … appare idonea – per natura e modalità – ad integrare sia i requisiti di cui all’art. 1130 bis cod.civ. sia a consentire al condomino quei poteri di controllo che la Suprema Corte ha più volte ritenuto siano soddisfatti anche con modalità e formalità che ne consentano un sostanziale esercizio (Cassazione civile n.8877 del 28/04/2005, Cass. 28 gennaio 2004, n. 1544 ); così si deve ritenere che agli attori sia stato pienamente reso il conto, atteso che essi stessi riconoscono di aver ricevuto la convocazione con allegata la documentazione (tanto è vero che si sono attivati per richiedere copia dei documenti giustificativi, come inequivocabilmente risulta dalla pec doc. 10 di parte attrice).

Altra ipotesi è invece la facoltà del singolo di accesso alla documentazione contabile, nel lasso di tempo antecedente alla assemblea, sì da poter esprimere un voto adeguatamente informato, circostanza che la giurisprudenza ha ritenuto poter costituire vizio della delibera ove tale facoltà sia gravemente compromessa o addirittura negata (Cassazione civile, sez. II, 21/09/2011,  n. 19210).

Va ancora osservato che la facoltà di accesso – oggi espressamente prevista dall’art. 1129 II comma cod.civ. – consente la visione presso lo studio dell’amministratore dei registri condominiali e della documentazione allegata, così come concorrente e complementare facoltà è consentita ex artt. 1130 bis II comma cod.civ. e 1129 VII comma cod.civ.

Tale facoltà non risulta sia stata esercitata dagli attori, che hanno invece azionato l’ulteriore e diverso diritto di richiedere copia, che tuttavia – aldilà dei costi e dei tempi necessari – è attività che non può essere posta quale requisito pregiudiziale alla partecipazione informata alla assemblea.

E’ il condomino che, nei modi e tempi necessari alla verifica e preliminarmente alla adunanza, può recarsi presso lo studio dell’amministratore e visionare la documentazione che richiede, tenuto conto che gli accessi e , ancor più il rilascio di copie, devono contemperarsi con l’attività professionale dell’amministrare (CAss. SS.UU. 4806/2005) , non divenire un aggravio o peggio una emulazione.

Peraltro – anche ove fosse stata provata l’impossibilità ad accedere alla documentazione condominiale – tale mancanza, ove si traduca in impossibilità di partecipazione informata alla delibazione, potrebbe costituire vizio solo per periodi antecedenti alla assemblea.

La mancata possibilità di accesso che gli attori lamentano attribuendola a indisponibilità dell’amministratore nei mesi successivi alla delibera impugnata (peraltro con richieste inviate dagli attori in prossimità delle festività natalizie e prontamente riscontrate dall’amministratore – compatibilmente con il periodo feriale – cui i B. non hanno più dato corso) in nessun caso potrà riverberarsi quale vizio su deliberati antecendenti, limitandosi ad assumere eventuale rilevanza ai diversi fini della domanda di revoca della amministratore, estranea al presente giudizio.

SPESE ASCENSORE, FONDI TERRANEI E TABELLE MILLESIMALI – “gli attori lamentano vizio della delibera poiché risulterebbero ripartite le spese di ascensore con esclusione dei fondi terranei, in violazione dell’art. 1124 cod.civ. Poiché tale assetto è contenuto nelle tabelle millesimali in uso nel condominio, costoro assumono anche che la delibera sia nulla poiché comporta deroga ai criteri legali di riparto, decisione che può essere assunta solo mediante convenzione

Va osservato che l’assemblea oggetto della odierna impugnazione si è limitata ad applicare le tabelle in uso nel condominio che, in effetti, escludono i fondi terranei dalle spese di ascensore. Tali tabelle peraltro, aldilà della capziosa obiezione che non siano firmate da alcuno, sono state prodotte in giudizio e risultano per espressa affermazione del convenuto – non espressamente contestata ex art 115 c.p.c. – in uso da anni.

Peraltro che tale tabella sia in uso da diversi esercizi deriva anche dal fatto che l’obiezione circa la loro origine e utilizzo sia stata mossa dagli attori solo in sede di impugnazione ma Non sia stata contestata – ad esempio – alla ricezione della convocazione con allegati i riparti.

Giova per inciso osservare che le tabelle prodotte dal condominio coincidono esattamente, nei valori, con quelle adottate nella ripartizione del consuntivo.

Va infine osservato che è nulla la delibera che scientemente e consapevolmente deroga ai criteri legali di ripartizione, intendendo discostarvisi (Cassazione Civile, sez. II, sentenza 19/03/2010 n° 6714).

Non risulta invece che la delibera impugnata contenga alcuna statuizione in tal senso, limitandosi ad approvare un rendiconto ripartito secondo i millesimi in uso nel condominio.

Era dunque onere degli attori, semmai, procedere ai sensi dell’art. 69 disp att. Cod.civ., ove ritengano che la tabella suddetta sia afflitta da errore e richieda revisione, domanda che non pare sia stata avanzata in questo giudizio”

 

LE SPESE PER L’ESERCIZIO DELL’ASCENSORE SONO ORDINARIEPriva di pregio anche la doglianza circa l’asserita straordinarietà delle spese relative a due interventi della ditta O. per complessive 593,68, dovute a “pronto intervento porta cabina” e “per corsa prolungata oltre il piano di controllo”, trattandosi pacificamente di spese connesse al mero “esercizio” e alla “manutenzione ordinaria” (Cassazione Civile, Sez. II, 23.12.2011, n. 28679)”

LA MANCATA INDICAZIONE DELL’IMPORTO DEL CONSUNTIVO NEL VERBALE DI ASSEMBLEAgli attori si dolgono ancora della nullità/annullabilità della delibera poiché sarebbe stati omessi gli elementi essenziali del consuntivo, approvato genericamente come “consuntivo 2014/2015” senza riportane l’importo o altri elementi qualificanti, sicchè agli attori non sarebbe consentito accertare – in quanto assenti – quale documento sia stato approvato. LA doglianza è priva di fondamento, poiché l’oggetto della delibera deve necessariamente essere correlato con i documenti inviati in uno con la convocazione, sicchè il richiamo generico al consuntivo 2014/2015 deve ritenersi riferito a quello già a mani dei condomini.

Né gli attori hanno dedotto che ne sia stato approvato altro, tanto è vero che gli stessi hanno poi proceduto al pagamento delle somme indicate, senza alcuna conseguenza o inconveniente.”

LA MANCATA APPROVAZIONE DELLA RIPARTIZIONE NON COMPORTA VIZIO DELLA DELIBERA – Gli attori lamentano che la delibera sia nulla o annullabile poiché non contiene espressa menzione della approvazione anche della ripartizione. Si è già detto sub 1 che la dicitura relativa alla generica approvazione del rendiconto – inteso come aggregato di tutti i documenti inviati dall’amministratore all’atto della convocazione – possa far ragionevolmente ritenere che la delibera si estenda anche alle ripartizioni allegate ai consuntivi e preventivi.

La circostanza, già evidenziata al punto precedente, che gli attori abbiano poi pagato quanto portato dai riparti induce a ritenere che questi atti fossero comunque pervenuti agli stessi sin dalla convocazione (circostanza che gli attori non hanno mai disconosciuto)

Va tuttavia osservato che la delibera che approvi il consuntivo ma non la sua ripartizione è ben lungi dall’essere viziata rimanendo, al più, incompleta, sì che le saranno preclusi determinati effetti quali quelli previsti dall’art. 63 disp. att. cod.civ. senza che tale mancanza possa riflettersi sulla sua validità, né sotto il profilo della nullità né della annullabilità, che possono essere ravvisate unicamente nei casi delineati da Cass. SS.UU. 4806/2005).”

RENDICONTO ED ESTRATTO CONTO NON DEVONO (E NON POSSONO) COINCIDERE  “Lamentano ancora gli attori che alcuni movimenti che risultano dagli estratti bancari non risulterebbero espressamente riportati nel rendiconto, circostanza che a loro dire comporterebbe ulteriore motivo di nullità.

La tesi è priva di fondamento: si è già evidenziata più sopra la giurisprudenza che, da tempo immemore indica in misura semplificata le forme del rendiconto, che si ritengono adeguate laddove consentano al condomino di comprendere la natura e l’origine delle somme che gli vengono richieste.

La stessa giurisprudenza ha da tempo evidenziato che il condominio non richiede forme rigorose nella tenuta delle scritture e che la sua contabilità sia comunque connessa ad un esercizio di competenza: Cassazione n. 10815 del 16 Agosto 2000, estensore Corona aveva precisato che “la Corte non deve risolvere la questione di diritto se l’amministratore debba rispondere della gestione sulla base del criterio di competenza o di cassa, ma è pur vero che l’amministratore dura in carico un anno, per cui la gestione viene rapportata alla competenza annuale” (pur non mancando pronunce successive che richiamano il criterio di cassa, cass. 9 maggio 2011, n. 10153).

Aldilà del criterio applicabile al condominio – plausibilmente governato da un criterio misto – va rilevato che nessuna norma e nessuna pronuncia, neanche dopo l’entrata in vigore della L. 220/2012, prevede una perfetta coincidenza fra movimentazioni contabili e rendiconto, attenendo le une ad un rapporto di conto corrente che vede necessariamente uno sviluppo in parte autonomo rispetto ai dati di esercizio su base annuale.”

Poiché peraltro gli attori lamentano l’impossibilità della verifica, da cui deriverebbe a loro dire – con un salto logico non del tutto comprensibile – vizio della delibera di approvazione, va osservato che il sistema approntato dall’art. 1130 bis cod.civ. e le facoltà di controllo in capo al condomino, previste da detta norma e dagli artt. 1129 e 1130 cod.civ., consentono al singolo, in ogni momento, di effettuare una verifica comparata,   specie con l’istituzione del registro di contabilità che impone l’annotazione di ogni movimento entra trenta giorni. Tale verifica può essere volta ad accertare la compatibilità e congruenza di ogni atto dell’amministratore, di talchè la documentazione da cui eventualmente desumere vizi nella gestione annuale non può essere limitata alla mera comparazione di consuntivo ed estratto conto, documenti che – di per sé – non richiedono assoluta e perfetta simmetria e congruenza.”

SEGRETARIO E PRESIDENTE DELL’ASSEMBLEA NON SONO ORGANI INDISPENSABILI E  LA LORO MANCATA NOMINA NON PREGIUDICA LA VALIDITA’ DELLA DELIBERA “Deducono infine gli attori che il verbale sarebbe affetto da nullità (da estendere alla delibera cui si riferisce) poiché non sono indicate le maggioranze con cui sono stati eletti presidente e segretario e che la calligrafia con cui è redatto il verbale sembrerebbe di persona diversa da colui che è indicato come segretario.

Entrambe le censure sono infondate; nessuna norma prevede espressamente la necessità di nomina di Presidente e Segretario della assemblea di condominio, che dunque ben potrebbero ragionevolmente non essere nominati senza che tale circostanza possa in alcun modo esplicare riflessi sulla validità della delibera: “La nomina del presidente e del segretario dell’assemblea di condominio non è prescritta da alcuna norma a pena di nullità, essendo sufficiente, per la validità delle deliberazioni, la maggioranza richiesta dalla legge. Pertanto, la mancata nomina di un presidente e di un segretario o l’eventuale irregolarità relativa ad essa non comportano invalidità delle delibere assembleari. (CAss. 5709/1987; Izzo in Giust. civ., fasc.4, 2010, pag. 893).

LA CALLIGRAFIA DEL VERBALE – Ancor meno pregio riveste la questione della calligrafia del verbale: nessuna norma sovrintende a tale adempimento, nessuna norma – tantomeno – prevede sanzioni in tal senso, essendo semmai unicamente richiesto che il verbale rispecchi il contenuto delle delibere e degli accadimenti assembleari, circostanza che non pare posta in discussione.

Peraltro principi di senso comune implicano che il Segretario  ben possa valersi di un ausiliario nella scrittura (o semplicemente scrivere il testo ad un computer portatile) senza che l’assenza di nesso calligrafico fra lo scritto e la sua persona possa avere alcuna influenza sulla validità dell’atto.”

© massimo ginesi 30 marzo 2017

 

la disciplina sull’abbattimento delle barriere architettoniche prevale sul regolamento contrattuale.

La Corte di Cassazione, con recentissima sentenza (Cass. civ. II sez. 28 marzo 2017 n. 7938),  riafferma la valenza sociale delle norme in tema di barriere architettoniche e la prevalenza della relativa disciplina sulla autonomia privata.

La riconducibilità della normativa sui disabili alla funzione sociale della proprietà (art. 42 Cost.) è stata più volte espressa dalla giurisprudenza anche costituzionale (Corte Costituzionale 29 aprile – 10 maggio 1999 – n. 167).

La circostanza che, per l’applicazione di quei principi, non sia necessaria l’effettiva presenza di un soggetto disabile fra i condomini rappresenta altresì costante orientamento della giurisprudenza di merito e legittimità fin dalle prime applicazioni della L. 13/1989.

L’odierna pronuncia contiene un principio di diritto di sicuro rilievo ed interesse, ma per le ampie e approfondite considerazioni sul tema merita lettura integrale: “In materia di eliminazioni di barriera architettoniche la legge 13/1989 costituisce espressione di un principio di solidarietà sociale e persegue finalità di carattere pubblicistico volte a favorire, nell’interesse generale, l’accessibilità agli edifici, sì che la soprelevazione del preesistente impianto di ascensore e il conseguente ampliamento della scala padronale, non possono essere esclusi unicamente in forza di una disposizione del regolamento condominiale che subordini l’esecuzione di qualunque opera che  interessi le strutture portanti, modifichi impianti generali o comunque alteri l’aspetto architettonico dell’edificio, all’autorizzazione del condominio.

Tale disposizione del regolamento condominiale risulta infatti recessiva rispetto alla esecuzione di opere indispensabili ai fini di un effettiva abitabilità dell’immobile, dovendo in tal caso verificarsi che dette opere, se effettuate a spese del condomino interessato, rispettino i limiti previsti dall’articolo 1102 codice civile.

Nel compiere tale verifica il giudice di merito dovrà tenere conto del principio di solidarietà condominiale, secondo il quale la coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato implica di per sé contemperamento di vari interessi, tra i quali deve includersi  anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle barriere architettoniche, oggetto di un diritto fondamentale, che prescinde dall’effettiva utilizzazione  da parte di costoro degli edifici interessati.”

© massimo ginesi 29 marzo 2017

quando il cortile sottostà al regime della comunione

Se al momento in cui sorge il condominio l’originario unico proprietario dell’edificio si riserva la proprietà dell’area esterna, questa non diventa condominiale ai sensi dell’art. 1117 cod.civ.

Ove successivamente costui alieni a più soggetti quell’area, costoro ne godranno in forza del regime di comunione e non di condominio, ivi compresa la presunzione di uguaglianza delle quote.

Lo ha stabilito Corte di Cassazione, sez. VI Civile  24 marzo 2017, n. 7743,  Rel. Scarpa: “Secondo le emergenze documentali di giudizio invocate dalla stessa ricorrente, il Condominio (omissis) , deve intendersi sorto con l’atto di frazionamento dell’iniziale unica proprietà di V.S.I. mediante alienazione, per atto del 27 luglio 1973, dell’unità immobiliare al secondo piano a S.M. e D.P.L. . Originatasi a tale data la situazione di condominio edilizio, dallo stesso momento doveva intendersi operante la presunzione legale ex art. 1117 c.c. di comunione “pro indiviso” di tutte quelle parti del complesso che, per ubicazione e struttura, fossero – in tale momento costitutivo del condominio – destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze generali e fondamentali del condominio stesso (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26766 del 18/12/2014). Va detto che il cortile fa parte delle cose comuni di cui all’art. 1117 c.c., per tale intendendosi qualsiasi area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serve a dare luce e aria agli ambienti circostanti, ma anche comprensivo dei vari spazi liberi disposti esternamente alle facciate degli edifici – quali gli spazi verdi, le zone di rispetto, le intercapedini, i parcheggi – sebbene non menzionati espressamente nell’art. 1117 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7889 del 09/06/2000).

Tuttavia, dal titolo del 27 luglio 1973 risultava, in contrario, una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente alla venditrice V.S.I. la proprietà dello scoperto. La negazione della condominialità dell’area scoperta risale, quindi, irreversibilmente al momento costitutivo del condominio stesso.

Ne consegue che, nel caso in esame: 1) essendo sorto “ipso iure et facto” il condominio (omissis) al momento dell’atto del 27 luglio 1973, quando l’originaria unica proprietaria V.S.I. ebbe ad alienare a terzi la prima unità immobiliare suscettibile di utilizzazione autonoma e separata; 2) ed essendosi la medesima venditrice, in quello stesso momento, riservata la qualità di proprietaria esclusiva dell’area scoperta; 3) V.S.I. ha poi disposto della stessa area scoperta come proprietaria unica di detto bene con la compravendita del 17 marzo 1981, la quale comprendeva nella comproprietà ceduta a S.G. anche lo scoperto.

Non avendo tale atto costitutivo della comproprietà sull’area scoperta determinato la quota spettante a ciascuno dei due comproprietari sulla cosa comune, opera in questa ipotesi la presunzione di pari entità delle quote dei partecipanti alla comunione, fissata dall’art. 1101, comma 1, c.c..”

© massimo ginesi 28 marzo 2017

quando l’appartamento fa parte di due condominii diversi

E’ il caso affrontato da Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 23 marzo 2017 n. 7605, Relatore Scarpa.

I fatti “La Corte d’Appello di Roma, sulla scorta delle richiamate risultanze della CTU, ha affermato che una porzione dell’appartamento di LF, ubicato al piano attico dell’edificio di via QN 152, si estende anche sul corpo di fabbrica dell’adiacente edificio condominiale di via delle TC15. In particolare, i solai di calpestio dell’unità immobiliare di proprietà F. costituiscono la copertura del sottostante fabbricato di via TC, per un’estensione di mq 148,26 di area coperta e di mq 42,81 di area scoperta. Il CTU ha quindi evidenziato conclusivamente che tale appartamento sia “parte integrante” di entrambi i condominii.”

Propone ricorso la condomina, ritenendo che la propria unità immobiliare debba essere ricondotta ad un solo fabbricato e propone ricorso incidentale il Condominio, che si duole della compensazione delle spese applicata dal Giudice di merito.

Osserva la Corte che Al fine di stabilire se un appartamento sia compreso in un condominio edilizio, è infatti necessario verificare, con riferimento al momento della nascita del condominio (salvo eventuale titolo negoziale contrario, il cui apprezzamento è comunque affidato alle prerogative del giudice di merito: Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3084 del 03/09/1976), se, con riguardo alla struttura ed alla conformazione di esso, e, dunque, in base ad elementi obiettivamente rilevabili, sussista il presupposto della permanente ed oggettiva destinazione al suo servizio ed al suo godimento dei beni di quell’edificio elencati nell’art. 1117 c.c., restando escluso che sia determinante pure l’esistenza di un collegamento materiale o di una via diretta di accesso tra parti condominiali e singola unità immobiliare.

E’ d’altro canto certamente ammissibile, per quanto si desume dall’art. 61 disp. att. c.c., che, pur in presenza di fabbricati che presentino elementi di congiunzione materiale, allorchè vengano costituiti condominii separati per le parti aventi i connotati di autonomi edifici, uno dei titolari di porzioni esclusive si ritrovi proprietario di un appartamento ricadente in entrambi i condominii (arg. da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2324 del 01/03/1995; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4439 del 07/08/1982).

Il ricorso di L.F., pur deducendo una censura per violazione e falsa applicazione dell’art. 1117 c.c., si sostanzia, in realtà, nella prospettazione di una ricostruzione degli elementi materiali della fattispecie diversa da quella accolta dalla Corte del merito, e dunque invoca un giudizio di mero fatto, del tutto estraneo al sindacato di legittimità.”

 

Quanto alle spese: “La Corte d’Appello di Roma ha compensato le spese processuali di entrambi i gradi di giudizio, ponendo a carico delle parti la metà ciascuno delle spese di CTU, “stante l’opinabilità della questione, che peraltro ha necessitato di accertamenti tecnici”. Il Condominio di via delle TC 15, Roma, denuncia al riguardo la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. per difetto delle “gravi ed eccezionali ragioni” ex art. 92, comma 2, c.p.c.

Tuttavia, nei giudizi, quale quello in esame, instaurati anteriormente all’entrata in vigore della legge 18 giugno 2009, n. 69, la compensazione delle spese può essere disposta – ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c., nel testo anteriore alle modifiche apportate dall’art. 45, comma 11, di detta legge – per “giusti motivi esplicitamente indicati dal giudice nella motivazione della sentenza”, e non per “gravi ed eccezionali ragioni esplicitamente indicate nella motivazione”. Nella vigenza di tale formulazione dell’art. 92, comma 2, c.p.c., la scelta di compensare le spese processuali rimane riservata al prudente, ma comunque motivato, apprezzamento del giudice di merito, la cui statuizione può essere censurata in sede di legittimità soltanto quando siano illogiche o contraddittorie le ragioni poste alla base della motivazione, ipotesi nella specie certamente non sussistente.”

© massimo ginesi 24 marzo  2017

art. 63 disp.att. cod.civ. : il computo del periodo per il quale acquirente e venditore rispondono solidalmente

Una recentissima pronuncia (Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 22 marzo 2017, n. 7395, Relatore Scarpa) affronta un tema inedito.

L’art. 63 Iv comma disp.att. cod.civ. prevede che  “Chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato solidalmente con questo al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente.”.

Accade con grande frequenza che sorga contenzioso su quali importi  debbano essere ascritti – in via solidale – a colui che diventa proprietario di una unità immobiliare in condominio, poiché l’individuazione di spesa riferibile all’anno precedente è espressione che può dar luogo ad interpretazioni contrastanti.

La vicenda giunta all’esame della  Suprema Corte attiene a spese relative a lavori di manutenzione straordinaria della facciata, in ordine alle quali il collegio rileva che “Dovendosi individuare, ai fini dell’applicazione dell’art. 63, comma 2, disp. att. c.c. (nella formulazione ante L. 220/2012, n.d.r.) al caso in esame, quando sia insorto l’obbligo di partecipazione a spese condominiali per l’esecuzione di lavori di straordinaria amministrazione sulle parti comuni (ristrutturazione della facciata dell’edificio condominiale)”, deve farsi riferimento alla data di approvazione della delibera assembleare che ha disposto l’esecuzione di tale intervento (30 giugno 2008), avendo la stessa delibera valore costitutivo della relativa obbligazione (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 24654 del 03/12/2010).

Questo momento rileva sia per imputare l’obbligo di partecipazione alla spesa nei rapporti interni tra venditore e compratore, se gli stessi non si siano diversamente accordati, sia per accertare l’inclusione del medesimo obbligo nel periodo biennale di responsabilità solidale di entrambi verso il condominio.

L’obbligo del cessionario dell’unità immobiliare, invero, è solidale, ma autonomo, in quanto non propter rem, e, piuttosto, costituito ex novo dalla legge in funzione di rafforzamento dell’aspettativa creditoria dell’organizzazione condominiale; ma il meccanismo del subentro dell’acquirente nei debiti condominiali del suo dante causa opera unicamente nel rapporto tra il condominio ed i soggetti che si succedono nella proprietà della singola porzione immobiliare, e non anche nel rapporto interno tra alienante ed acquirente, proprio per la natura personale (e non reale) delle rispettive obbligazioni.

Sicchè il compratore risponde verso il venditore soltanto per le spese condominiali sorte in epoca successiva al momento in cui egli sia divenuto condomino, mentre ha diritto di rivalersi nei confronti del suo dante causa allorché sia stato chiamato dal condominio a rispondere di obbligazioni nate in epoca anteriore all’acquisto (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1956 del 22/02/2000).

L’anno, cui fa riferimento l’art. 63, comma 2, disp. att. c.c., deve, peraltro, essere di sicuro inteso con riferimento al periodo annuale costituito dall’esercizio della gestione condominiale, non necessariamente, perciò, coincidente con l’anno solare.

La conclusione raggiunta è coerente col principio, elaborato da questa Corte, della cosiddetta “dimensione annuale della gestione condominiale” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7706 del 21/08/1996; ma anche Cass. Sez. 6 – 2, Sentenza n. 21650 del 20/09/2013), annuali essendo la durata dell’incarico dell’amministratore (art. 1129 c.c.), il preventivo delle spese ed il rendiconto (art. 1135, comma 1, n. 2 e 3 c.c.), e trova conferma in via interpretativa anche dal comma 9 dell’art. 1129 c.c., introdotto dalla legge n. 220/2012, ove si fa espresso riferimento alla “chiusura dell’esercizio”.

© massimo ginesi 23 marzo 2017

art. 1132 cod.civ.: il dissenso può essere esercitato solo per le liti deliberate dall’assemblea.

Il Condomino può dissociarsi dalla lite, a norma dell’art. 1132 cod.civ., solo ove l’ iniziativa giudiziale venga deliberata dalla assemblea, poiché solo in tal caso la legge consente una eccezionale deroga al principio maggioritario, che informa il mandato collettivo conferito all’amministratore.

Alle liti promosse direttamente dall’amministratore, nell’ambito delle facoltà allo stesso riconosciute dagli artt. 1130 e 1131 cod.civ., non è applicabile il meccanismo dissociativo previsto dall’art. 1132 cod.civ.

E’ la tesi espressa da Corte di Cassazione, sez. II Civile, 20 marzo 2017, n. 7095: “va osservato che l’amministratore può resistere all’impugnazione della delibera assembleare e può gravare la relativa decisione del giudice, senza necessità di autorizzazione o ratifica dell’assemblea, giacché l’esecuzione e la difesa delle deliberazioni assembleari rientra fra le attribuzioni proprie dello stesso (Cass. n. 1451/14). Pertanto, la difesa in giudizio delle delibere dell’assemblea impugnate da un condomino rientra nelle attribuzioni dell’amministratore, indipendentemente dal loro oggetto, ai sensi dell’art. 1131 c.c..

Per contro, non si versa nell’ipotesi dell’art. 1132, primo comma, c.c.

Com’è noto, tale ultima disposizione, tesa a mitigare gli effetti della regola maggioritaria che informa la vita del condominio, consente al singolo condomino dissenziente di separare la propria responsabilità da quella degli altri condomini in caso di lite giudiziaria, in modo da deviare da sé le conseguenze dannose di un’eventuale soccombenza.

Dunque, ove non sia stata l’assemblea a deliberare la lite attiva o passiva ai sensi del predetto art. 1132 c.c., il condomino dissenziente soggiace alla regola maggioritaria. In tal caso egli può solo ricorrere all’assemblea contro i provvedimenti dell’amministratore, in base all’art. 1133 c.c., ovvero al giudice contro il successivo deliberato dell’assemblea stessa (nei limiti temporali, è da ritenere, previsti dall’art. 1137 c.c., richiamato dall’art. 1133 c.c.).

E in ogni caso il condomino dissenziente può far valere le proprie doglianze sulla gestione dell’amministratore in sede di rendiconto condominiale, la cui approvazione è, però, anch’essa rimessa all’assemblea e non al singolo condomino.

Se ne deve ricavare che questi, al di fuori dei descritti percorsi legali, non ha la facoltà di agire in proprio contro l’amministratore (salvo il ben diverso caso dell’iniziativa di revoca giudiziale ex art. 1129 c.c.) ogni qual volta ritenga la condotta di lui non consona ai propri interessi, perché ciò contrasta con la natura collettiva del mandato ex lege che compete all’amministratore.”

© massimo ginesi 22 marzo 2017

distanze fra costruzioni, giudizio amministrativo e diritti dei privati.

Una articolata e densa pronuncia della Suprema Corte (Corte di Cassazione, sez. II Civile,  16 marzo 2017,n. 6855) fa il punto sulla efficacia delle pronunce emesse dal Giudice amministrativo in ordine alla impugnazione di concessione edilizia nel successivo giudizio fra privati relativo alle distanze fra costruzioni, affrontando anche il problema del rispetto delle distanze fra corpi di fabbrica principali e accessori.

RAPPORTI FRA PRONUNCIA AMMINISTRATIVA E GIUDIZIO CIVILE  “Ed, invero partendo dall’ultima affermazione di parte ricorrente relativa all’efficacia vincolante della pronuncia del giudice amministrativo, e ricordato che si tratta di statuizione emessa in relazione all’impugnativa della concessione edilizia rilasciata in favore dei ricorrenti e concernente il fabbricato oggetto di causa, giova richiamare la giurisprudenza di questa Corte a mente della quale (cfr. Cass. n. 9869/2015) la pronuncia del giudice amministrativo, investito della domanda di annullamento della licenza, concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza dei diritti dei terzi), ha ad oggetto il controllo di legittimità dell’esercizio del potere da parte della P.A. ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico relativo al rapporto fra il privato e la P.A., sicché non ha efficacia di giudicato nelle controversie tra privati, proprietari di fabbricati vicini, aventi ad oggetto la lesione del diritto di proprietà determinata dalla violazione della normativa in tema di distanze legali, che è posta a tutela non solo di interessi generali ma anche della posizione soggettiva del privato.

Ed, invero trattasi di una piana applicazione del generale principio affermato da tempo per il quale (cfr. Cass. S.U. n. 13673/2014) le controversie tra proprietari di fabbricati vicini relative all’osservanza di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o rispetto ai confini appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, senza che rilevi l’avvenuto rilascio del titolo abilitativo all’attività costruttiva, la cui legittimità potrà essere valutata “incidenter tantum” dal giudice ordinario attraverso l’esercizio del potere di disapplicazione del provvedimento amministrativo, salvo che la domanda risarcitoria non sia diretta anche nei confronti della P.A. (nella specie, il Comune) per far valere l’illegittimità dell’attività provvedimentale, sussistendo in questo caso la giurisdizione del giudice amministrativo (in termini ex multis Cass. n. 13170/2001; Cass. S.U. n. 333/1999).

L’eventuale accertamento della legittimità del titolo abilitativo della costruzione da parte del giudice amministrativo non preclude una diversa valutazione dell’illegittimità della condotta del privato nella controversia intentata da altro privato a tutela del diritto di proprietà, sicché la decisione gravata, avendo fatto puntuale applicazione dei suesposti principi non appare meritevole di censura.

LA NOZIONE DI FABBRICATO SOTTO IL PROFILO AMMINISTRATIVO E DI COSTRUZIONE SOTTO IL PROFILO CIVILISTICO – Quanto invece alla dedotta erronea applicazione delle previsioni di legge e regolamentari in materia di distanza, il tenore delle norme di cui allo strumento urbanistico locale non consente sulla base della loro formulazione letterale di ritenere che il loro ambito applicativo sia limitato alle sole costruzioni aventi carattere principale.

Il richiamo alla nozione di edifici di nuova costruzione ovvero di fabbricati, in assenza di una puntuale e specifica disciplina dettata per gli edifici aventi carattere cd. accessorio, come riconosciuto da parte degli stessi ricorrenti, non consente di optare per un’interpretazione che ne limiti l’applicazione ai soli edifici aventi carattere principale, posto che anche i manufatti di più contenute dimensioni, quali quelli per i quali si vorrebbe escludere la valutazione ai fini del rispetto delle distanze, appaiono evidentemente riconducibili alla nozione di costruzione di cui all’art. 873 c.c., trattandosi di manufatti stabilmente infissi al suolo che, per solidità, struttura e sporgenza dal terreno, possono creare quelle intercapedini dannose che la legge, stabilendo la distanza minima tra le costruzioni, intende evitare, rispondendo alla tradizionale nozione di costruzione quale recepita dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 5753/2014).

D’altronde proprio la carenza di una specifica disciplina, impone di ritenere come già affermato in passato che (cfr. da ultimo Cass. n. 144/2016) la nozione di costruzione, agli effetti dell’art. 873 c.c., è unica e non può subire deroghe da parte delle norme secondarie, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, in quanto il rinvio ivi contenuto ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una “distanza maggiore”.

Ne discende che, una volta ricondotti gli edifici accessori al novero delle costruzioni in senso civilistico e nell’accezione propria della disciplina in materia di distanze, le previsioni regolamentari che prevedono un distacco tra costruzioni risultano evidentemente applicabili anche a tali manufatti, e che, anche laddove lo strumento urbanistico locale avesse dettato una disciplina difforme, tale deroga dovrebbe reputarsi illegittima, non rientrando nel potere degli enti locali quello di dettare deroghe alla disciplina codicistica in materia di distanze, eccezione fatta per la previsione sopra richiamata, di porre delle distanze maggiori rispetto a quelle di legge.”

LE DISTANZE SI APPLICANO PER EDIFICI SU FONDI DI DIVERSI PROPRITARI E NON FRA EDIFICI POSTI SULLO STESSO FONDO –  Quanto al fabbricato cd. accessorio del C. , di cui non si denunzia la violazione delle norme dal confine, la sentenza ha ritenuto che lo stesso fosse posto in una zona del fondo per la quale le distanze dal confine dell’edificio principale erano ampiamente rispettate e che risultava pertanto in massima parte al di fuori dell’area di distacco quale imposta dallo strumento urbanistico.

Ritiene però la Corte che anche l’eventuale realizzazione in parte del manufatto in oggetto all’interno dell’area di distacco non possa determinare un esito diverso della controversia.
Ed, infatti la previsione di un’area di distacco mira essenzialmente ad assicurare il rispetto delle distanze tra fabbricati edificati su fondi finitimi ed appartenenti a diversi proprietari, non potendosi ravvisare l’illegittimità dal punto di vista privatistico, per costruzioni realizzate eventualmente a distanza inferiore a quella legale o regolamentare sul fondo di un unico proprietario (per un riferimento a tale regola si veda Cass. n. 1918/1973, a mente della quale il principio della prevenzione – in base al quale, fra due proprietari di fondi finitimi, colui che costruisce per primo può o edificare sul confine o a distanza dal confine non inferiore a quella legale oppure a distanza inferiore, costringendo il vicino, che costruisce per secondo, a ristabilire la distanza legale edificando dal confine a distanza maggiore della meta di quella prescritta, a meno che non voglia avanzare la propria fabbrica fino all’altrui costruzione, giovandosi dei rimedi offertigli dall’art. 875 cod. civ. – presuppone un rapporto intersoggettivo, opera tra proprietari di fondi finitimi e non è ipotizzabile come attributo della costruzione con caratteri di realità). D’altronde essendo la proprietà di entrambi i fabbricati, principale ed accessorio, in capo all’attore, i ricorrenti non sono legittimati a dolersi della violazione delle distanze tra le due opere.
Quanto invece alla pretesa violazione della previsione regolamentare che nega la possibilità di costruire nelle zone di distacco, la stessa si riverbera nei soli rapporti con la PA, e determina quindi l’illegittimità dell’opus dal punto di vista amministrativo, ma non incide sulla diversa disciplina in tema di distanze, e sulla possibilità anche per il titolare della costruzione illegittima dal punto di vista amministrativo di pretendere il rispetto delle distanze legali (cfr. Cass. n. 17339/2003; Cass. n. 10850/1998), essendo tale conclusione una piana applicazione del su riferito principio dell’autonomia tra profili pubblicistici dell’attività edificatoria e rapporti interprivatistici.

© massimo ginesi 20 marzo 2017 

condominio e servitù: chi pagala manutenzione?

La questione è affrontata da Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza  15 marzo 2017, n. 6653,  Relatore Scarpa:  fra diversi condominii palermitani esiste un diritto di servitù a favore di alcuni edifici e a carico del fondo di proprietà di altro condominio,  la strada su cui si esercita tale passaggio necessita di manutenzione e sorge fra le parti contrasto su chi debba assumerne gli oneri.

La vicenda passa all’esame del Tribunale e poi della Corte di Appello di Palermo: “Tale domanda era volta ad ottenere dai Condomini convenuti il rimborso della quota, pari ad Euro 21.172,54, loro spettante, delle spese sostenute (pari ad Euro 31.750,80) per la manutenzione della stradella rientrante nella proprietà del Condominio di via (omissis) ma gravata di servitù di passaggio a vantaggio dei medesimi condomini convenuti, e danneggiata dal continuo transito di mezzi meccanici ad opera dei partecipanti a questi ultimi. La Corte d’Appello di Palermo ha posto in evidenza come, agli effetti dell’art. 1069 c.c., il titolare del fondo servente non ha alcun obbligo di legge ad eseguire sul proprio immobile le opere necessarie per l’esercizio della servitù, e che lo stesso non può, peraltro, servirsi di tale norma per far gravare sul titolare del fondo dominante (che pur ne tragga vantaggio) le spese di manutenzione della sua proprietà. La Corte d’Appello ha pure aggiunto che, nel caso di specie, le opere eseguite dal Condominio di via (omissis) riguardavano un complessivo risanamento dell’edificio condominiale, a causa di suoi difetti costruttivi-progettuali, risanamento che, a dire dell’espletata CTU, avvantaggiava solo in minima parte i Condomini di (omissis)”

La Suprema Corte censura la decisione del giudice siciliano, richiamando un orientamento risalente ma ancora attuale: “ La Corte d’Appello di Palermo ha deciso la questione di diritto ad essa sottoposta in maniera difforme dalla giurisprudenza di questa Corte, espressa in orientamento risalente, ma che comunque va qui confermato, non sussistendo elementi per mutare lo stesso.

Un conto, invero, è affermare, come fanno i giudici di appello, che il proprietario del fondo dominante ha il diritto di eseguire le opere necessarie per conservare la servitù, operando a sue spese, mentre non ha l’obbligo ex lege di eseguire sul fondo servente le opere necessarie per l’esercizio della servitù (così Cass. 22/11/1978, n. 5449).

Altro conto è escludere quel che afferma espressamente il comma 3 dell’art. 1069 c.c., ovvero che, se le opere necessarie per conservare la servitù giovano a entrambi i fondi, servente e dominante, le relative spese debbano essere ripartite in proporzione dei rispettivi vantaggi. Dalle norme di cui all’art. 1069 c.c. si desume, perciò, in via di interpretazione estensiva, per il caso in cui l’esercizio della servitù si attui solo per mezzo del fondo servente, e senza l’ausilio di opere autonome, l’obbligo del proprietario del fondo dominante di contribuire alle spese di manutenzione del fondo servente, in misura proporzionale all’uso (Cass. Sez. 2, 12/01/1976, n. 72, proprio relativa a fattispecie di servitù di passaggio gravante su parti di un edificio condominiale e di obbligo del titolare della servitù di concorrere nelle spese di manutenzione di tali beni condominiali insieme con i partecipanti al condominio, in misura proporzionale all’uso).

Si è pure affermato che l’art. 1069, comma 3, c.c. (allorché stabilisce che, nel caso in cui le opere necessarie alla conservazione della servitù, eseguite dal proprietario del fondo dominante sul fondo servente, giovano anche a quest’ultimo, le relative spese debbano essere sostenute da entrambi i soggetti del rapporto giuridico di servitù in proporzione dei rispettivi vantaggi), non costituisce una norma eccezionale, ma, al contrario, rappresenta l’applicazione di un più generale principio di equità ispirato all’esigenza di evitare indebiti arricchimenti. Pertanto, tale norma è applicabile anche nel caso, da essa non specificamente contemplato, in cui sia stato il proprietario del fondo servente ad eseguire su quest’ultimo, sia pure nel proprio interesse, opere necessarie alla conservazione della servitù (Cass. Sez. 2, 05/07/1975, n. 2637; Cass. 15/02/1982, n. 949).
Il ricorso va pertanto accolto, va cassata la sentenza impugnata e la causa va rinviata ad altra sezione della Corte d’Appello di Palermo, che deciderà uniformandosi al seguente principio di diritto:
“Agli effetti dell’art. 1069, comma 3, c.c., allorché il proprietario del fondo servente abbia eseguito su quest’ultimo, sia pure nel proprio interesse, opere necessarie alla conservazione della servitù, le relative spese devono essere sostenute sia dal proprietario del fondo dominante che da quello del fondo servente in proporzione dei rispettivi vantaggi”.

© massimo ginesi 17 marzo 2017

quando il cronista va oltre la notizia…

Fra le occupazioni quotidiane di chi si occupa professionalmente di diritto, vi è quella di aggiornarsi:  uno dei metodi che il 21° secolo  ha reso  di ordinaria applicazione è la consultazione del web.

Accade che oggi, sulla pagina pubblica di una associazione di settore su un noto social network,  compaia una notizia che – per come formulata – appare di portata deflagrante

Il dettato letterale del comunicato  non lascia dubbi: parrebbe, dall’uso estremamente parsimonioso dei segni di interpunzione, che l’art. 1129 VIII comma  cod.civ. preveda una multa per l’amministratore che ritarda il passaggio di consegne e che il Tribunale di Palermo abbia comminato tale multa con un provvedimento del 2016.

Parrebbe anche che il ritardo nella consegna integri, ipso iure, reato di appropriazione indebita  e che l’amministratore possa costituirsi, in via del tutto autonoma,  parte civile.

Reperita l’ordinanza pronunciata in Trinacria, l’arcano è presto svelato: l’art.1129 VIII comma cod.civ. non è stato affatto emendato con previsioni sanzionatorie né il Tribunale siculo si è improvvisamente trasformato in vigile urbano, comminando multe.

La norma  civilistica prevede sempre che “Alla cessazione dell’incarico l’amministratore è tenuto alla consegna di tutta la documentazione in suo possesso afferente al condominio e ai singoli condomini e ad eseguire le attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni senza diritto ad ulteriori compensi”.

Il Tribunale ha semplicemente applicato, su istanza della parte ricorrente, l’art.614 bis c.p.c. che – lungi dal prevedere  multe – nel 2009 ha introdotto in Italia i c.d. mezzi di coercizione indiretta, previsti dal legislatore per quelle condanne ad obblighi di fare infungibili, già noti nelle legislazioni europee,  e che tutto sono tranne una multa.

Quanto al fatto che il ritardo nella consegna dei documenti “integri anche il reato di appropriazione indebita”, sarà sufficiente ricordare che la condotta a rilevanza penale richiede  – per la sua integrazione – elementi oggettivi e soggettivi ben delineati dall’art. 646 cod.pen. “Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a milletrentadue euro”

un conto è ritardare qualche giorno, un conto è rifiutare la consegna  per trarne un profitto.

Insomma, attenzione al web…

© massimo ginesi 16 marzo 2017