opposizione a decreto ingiuntivo: quando l’acconto non basta ad evitare le spese di lite

Accade con frequenza che – nelle more della richiesta di decreto ingiuntivo da parte del creditore- il debitore versi alcuni acconti.

A fronte di tali pagamenti si discute  se siano dovute le spese del decreto, se sia legittima l’opposizione, se il decreto possa ancora essere usato come titolo e chi debba pagare le spese della eventuale fase di opposizione.

Nel caso di specie, affrontato dal Tribunale di Massa con sentenza 23.2.2017,   il Condominio – eseguiti in suo favore lavori straordinari in appalto – non aveva provveduto al saldo del prezzo dovuto, limitandosi a versare un modesto acconto di mille euro a fronte di circa  dodicimila ancora pretesi dall’appaltatore.

Il pagamento era avvenuto dopo l’emissione ma prima della notifica del decreto, il Condominio ha proposto opposizione al solo scopo di non far divenire esecutivo un titolo per somme supeirori a quelle effettivamente ancora dovute.

Osserva il Tribunale che “L’opposizione promossa risultata infondata e come tale deve esser rigettata, seppure il decreto – per i fatti parzialmente estintivi successivamente intervenuti – debba comunque essere revocato (Cass. SS.UU. 7448/1993).
Va osservato che le somme dovute dal Condominio alla opposta erano effettivamente quelle richieste in via monitoria, e ciò sia al momento del deposito del ricorso (16.5.2016) che al momento della emissione del provvedimento di ingiunzione (17.5.2016), essendo intervenuto il versamento del primo acconto solo in data 26.5.2016.”

Il Giudice di merito richiama una consolidata giurisprudenza della Cassazionela fondatezza (o meno) dei motivi dell’opposizione al decreto ingiuntivo deve essere valutata con riferimento non alla data di proposizione del ricorso, ma a quelle della emissione del decreto medesimo: e che è poi, anche, la data rispetto alla quale deve valutarsi la fondatezza in fatto ed in diritto della decisione giudiziale adottata. E ciò in aderenza a principi di diritto enunciati più volte in “subiecta materia” dalla giurisprudenza (uniforme, costante e consolidata) di questa Corte (cfr. ad es. tra le più recenti: Cass. 18.10.1983 n. 6121; Cass. 8.6.1985 n. 3482) …” Cassazione civile, sez. lav., 11/04/1990,  n. 3054

Ai fini dunque delle spese “Ne consegue che ove il pagamento avvenga in data successiva alla emissione del decreto, come nel caso di specie, la necessità della opposizione ai fini di non far divenire esecutivo il titolo non è affatto necessaria, ben potendosi eventualmente far valere gli intervenuti e successivi pagamenti in sede esecutiva, ove il creditore si determinasse ad azionare il titolo senza tenerne conto: “D’altronde è noto che il decreto ingiuntivo deve essere necessariamente revocato nel giudizio di opposizione esclusivamente quando risulti la fondatezza anche solo parziale dell’opposizione stessa con riferimento alla data di emissione del decreto. Quando invece il debito si estingua per un adempimento successivo alla suddetta data e debba quindi escludersi l’indicata fondatezza, anche se il provvedimento viene ugualmente revocato, devono comunque porsi a carico dell’ingiunto le spese del procedimento. Ove in quest’altra seconda ipotesi il decreto ingiuntivo non venga revocato, ovviamente resta salva l’opponibilità dell’avvenuto pagamento se il creditore, ancorché soddisfatto, si avvalga del provvedimento non revocato come titolo esecutivo (Cass. 7526/2007).”

Il debitore dunque che, con troppa solerzia, promuova opposizione a fronte di un modesto pagamento – avvenuto dopo l’emissione del decreto – rischia di vedersi condannato anche alle spese di detta fase.

Non sono dovuti, come invece aveva richiesto l’appaltatore, gli interessi di mora previsti dal D. lgs 231/ 2002: “infondata si rivela la richiesta di parte opposta di riconoscimento degli interessi moratori ex d.lgs 231/2002, trattandosi di disposizione che a mente dell’art. 2 di tale testo normativo si applica unicamente ai rapporti fra imprenditori (o liberi professionisti) e fra costoro e la pubblica amministrazione, mentre è inapplicabile al Condominio, che va ascritto al genus del consumatore (Trib. Roma 19 settembre 2011 n. 17887); non risulta invece che l’opposto abbia dedotto la sussistenza di patti relativi a interessi in misura superiore a quella legale o abbia dimostrato l’esistenza del danno ex art. 1224 II comma cod.civ.”

© massimo ginesi 27 febbraio 2017

Trasformazione di cantina in garage da parte del singolo: è consentita se non lede statica e decoro dell’edificio.

Un condomino procede alla trasformazione della propria cantina in autorimessa e, a tale scopo, trasforma anche una finestra che si apre sul muro perimetrale in varco di accesso al  garage appena creato.

La vicenda giunge alla Suprema Corte, che con recente sentenza (Cass.Civ. II sez.  21 febbraio 2017, n. 4437 Rel. Giusti), ha occasione di riaffermare principi ormai consolidati.

Due condomini non avevano gradito  l’intervento sul muro perimetrale e avevano fatto ricorso al Tribunale di Catania: “Premesso di essere condomini dello stabile sito in (omissis) , gli attori deducevano: che lo S. aveva provveduto alla trasformazione in autorimessa di un vano di sua proprietà, sito al piano terra dell’edificio condominiale; che tale innovazione era stata eseguita mediante l’allargamento di una finestra prospiciente la via (…), trasformata in porta carraia di accesso al garage; che le opere eseguite avevano determinato il parziale abbattimento del muro condominiale, pregiudicando la stabilità e la sicurezza dell’edificio e ledendo il decoro architettonico dello stabile. Lamentavano, inoltre, l’illegittima appropriazione, da parte dello S. , di parte del muro perimetrale. Esponendo di aver promosso ricorso ex art. 1172 cod. civ., accolto in sede di reclamo, chiedevano la condanna del convenuto a ripristinare la situazione preesistente, nonché al risarcimento dei danni subiti.”

Il Tribunale ritiene fondata la richiesta con riferimento alla lesione del decoro architettonico e accoglie la domanda degli attori, ma la sentenza è completamente ribaltata in appello: merita leggere compiutamente le argomentazioni del Giudice di secondo grado, poiché costituiscono ormai un orientamento stabile che tuttavia, ancora con troppa frequenza appare ignorato dai condomini.

 “Con sentenza depositata il 16 maggio 2013, la Corte d’appello di Catania, in accoglimento dell’appello proposto dallo S. , in parziale riforma della sentenza impugnata, ha rigettato la domanda formulata dai G. di condanna del convenuto ad eliminare le opere abusivamente realizzate obbligandolo a ripristinare la situazione preesistente all’effettuazione delle opere stesse, e li ha condannati a rifondere allo S. le spese di entrambi i gradi del giudizio.
La Corte territoriale ha rilevato che, pur ampliata l’originaria finestra (della larghezza di ml. 1,80) in passo carraio (della larghezza di ml. 2,80), leggermente più ampio rispetto al portone recante civico 193, e pur apparentemente modificata la sequenza “finestra-portone-finestra”, non sussiste alcuna significativa alterazione del decoro architettonico. La Corte territoriale ha evidenziato che la nuova apertura è stata munita di una porta con caratteristiche del tutto simili al vicino portone (con bugne, riquadri e colore del tutto simili) che, all’evidenza, richiama sotto il profilo estetico; che nessun deprezzamento può ritenersi sussistente, con riferimento all’intero fabbricato e alle singole unità immobiliari, avuto riguardo all’aspetto architettonico complessivo dello stabile (edificato nel 1947, e dotato di non particolare pregio) e al contesto nel quale esso è inserito (presenza di altri palazzi costruiti in aderenza, secondo lo stile di quello oggetto di causa, sede stradale di ordinarie dimensioni, zona estremamente appetibile per la strategica posizione centrale nella città di Catania), sicché non è dato notare in maniera significativa l’alterazione eseguita, e comunque essa non provoca un risultato esteticamente sgradevole, apparendo anzi immutato lo stile architettonico della facciata.
Infine, la Corte di Catania ha rilevato come tale alterazione si accompagni ad una utilità estremamente rilevante per lo S. , costituita dalla possibilità di usufruire di un garage in una zona trafficatissima, caratterizzata notoriamente da enormi difficoltà di parcheggio.”

Da sottolineare come una modesta modificazione delle linee complessive del prospetto sia ammissibile, laddove da ciò derivi  una rilevante utilità per chi ha posto in essere l’intervento, a fronte della modestissima compressione del diritto degli altri condomini (criterio che la Suprema Corte ha spesso espresso in tema di installazione di ascensore da parte del singolo, ove l’occupazione dell’androne e della tromba delle scale comuni è compensata dall’utilità che l’impianto apporta al singolo e – in prospettiva ex art. 1121 cod.civ. – all’intero fabbricato).

I condomini non si danno per vinti e ricorrono in cassazione, per veder accertata l’illegittimità dell’intervento sulla facciata. LA Corte, con motivazione puntuale, che costituisce ottima sintesi dei prinpci in tema di uso della cosa comune ai sensi dell’art. 1102 cod.civ. ritiene il motivo di doglianza infondato:

Secondo la giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, Cass., Sez. II, 25 settembre 1991, n. 10008; Cass., Sez. II, 26 gennaio 1987, n. 703; Cass., Sez. II, 27 ottobre 2003, n. 16097; Cass., Sez. VI-2, 14 novembre 2014, n. 24295), in tema di condominio, il principio della comproprietà dell’intero muro perimetrale comune di un edificio legittima il singolo condomino ad apportare ad esso (anche se muro maestro) tutte le modificazioni che gli consentano di trarre, dal bene in comunione, una peculiare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini (e, quindi, a procedere anche all’apertura, nel muro, di un varco di accesso ai locali di sua proprietà esclusiva), a condizione di non impedire agli altri condomini la prosecuzione dell’esercizio dell’uso del muro – ovvero la facoltà di utilizzarlo in modo e misura analoghi – e di non alterarne la normale destinazione e sempre che tali modificazioni non pregiudichino la stabilità ed il decoro architettonico del fabbricato condominiale.

Si è anche precisato (Cass., Sez. II, 29 aprile 1994, n. 4155; Cass., Sez. II, 26 marzo 2002, n. 4314) che l’apertura di varchi e l’installazione di porte o cancellate in un muro ricadente fra le parti comuni dell’edificio condominiale, eseguite da uno dei condomini per creare un nuovo ingresso all’unità immobiliare di sua proprietà esclusiva, non integrano, di massima, abuso della cosa comune suscettibile di ledere i diritti degli altri condomini, non comportando per costoro una qualche impossibilità di far parimenti uso del muro stesso ai sensi dell’art. 1102, primo comma cod. civ., e rimanendo irrilevante la circostanza che tale utilizzazione del muro si correli non già alla necessità di ovviare ad una interclusione dell’unità immobiliare al cui servizio il detto accesso è stato creato, ma all’intento di conseguire una più comoda fruizione di tale unità immobiliare da parte del suo proprietario. Negli edifici in condominio, i proprietari esclusivi delle singole unità immobiliari possono utilizzare i muri comuni, nelle parti ad esse corrispondenti, sempre che l’esercizio di tale facoltà, disciplinata dagli artt. 1102 e 1122 cod. civ., non pregiudichi la stabilità e il decoro architettonico del fabbricato.
A tale principio si è correttamente attenuta la Corte di merito.
Invero, la Corte di Catania – nel giungere alla conclusione che l’allargamento dell’apertura da parte dello S. al fine di trasformare la finestra in accesso carraio ha semplicemente comportato un uso più intenso della cosa comune, come tale consentito dall’art. 1102 cod. civ., senza con questo alterare il rapporto di equilibrio con gli altri comproprietari – ha per un verso rilevato che lo S. era l’unico fra i condomini a poter usufruire, per le proprie esigenze, del varco in questione, siccome proprietario esclusivo dell’unità immobiliare comunicante con l’esterno; per l’altro ha sottolineato che il realizzato allargamento ha lasciato immutato lo stile architettonico della facciata, non comportando alcuna significativa alterazione del relativo decoro, e ciò considerando in concreto le linee e le strutture che connotano il fabbricato stesso.
La Corte territoriale ha compiuto un congruo accertamento di fatto nel quadro dei principi dettati da questa Corte regolatrice.”

Anche i timori circa la statica risultano infondati: “I ricorrenti finiscono con il sollecitare un diverso esame delle risultanze di causa e un differente apprezzamento di merito, il che fuoriesce dai limiti del sindacato devoluto alla Corte di cassazione.
Essi muovono dal presupposto che nella specie vi sia stato “l’abbattimento di un muro portante” dell’edificio, ma non considerano che nella specie si è avuta soltanto una riduzione del “maschio murario” (pilatro) in corrispondenza dell’allargamento della precedente apertura.
E prospettano l’esistenza di un pregiudizio attuale alla stabilità e alla sicurezza del fabbricato, ma non tengono conto della circostanza che già il Tribunale di Catania, definendo il primo grado di giudizio con la sentenza n. 4671 del 2009, ha affermato che il pregiudizio sismico – pur inizialmente sussistente per effetto dell’intervento effettuato dallo S. – era stato eliminato a seguito dell’effettuazione, da parte dello stesso convenuto, delle opere disposte in sede di reclamo cautelare; né dal testo del ricorso si ricava come la questione dell’attualità del rischio per la stabilità del fabbricato (pur dopo che lo S. aveva realizzato, ottemperando all’ordinanza resa in rese di reclamo cautelare, tutti gli interventi diretti all’eliminazione del pregiudizio sismico) sia stata riproposta dai G. in appello.”

osserva infine la Corte che “nel giudizio di merito promosso una volta esaurito il procedimento cautelare, il Tribunale di Catania ha escluso il denunciato pregiudizio attuale alla stabilità dell’edificio, avendo dato atto della eliminazione della situazione di pericolo a seguito della effettuazione delle opere disposte in sede cautelare. Va ribadito che dal testo del ricorso per cassazione non risulta come – una volta che lo S. ha provveduto, mediante l’esecuzione degli opportuni interventi, a rimuovere l’originaria situazione di non conformità alle prescrizioni della normativa antisismica – la questione del pregiudizio attuale alla stabilità sia stata riproposta in appello dai G. “

LA vicenda ha anche avuto un risvolto non lieve sotto il profilo delle spese poiché la Corte ha  rilevato che, seppur il Tribunale di Catania avesse in sede cautelare riconosciuto al sussistenza di pregiudizio statico e dettato i rimedi  per ovviarvi, il condomino che stava procedendo aveva adempiuto a quanto previsto dal giudice mentre le fasi successive di merito lo avevano visto vittorioso;  l’esito complessivo della controversia non vedeva dunque un soccombente principale: per tale ragione il giudice di legittimità ha disposto integrale compensazione delle spese di tutti gradi di giudizio.

Quando litigare a lungo davvero non ha un senso…

© massimo ginesi 25 febbraio 2017 

condominio parziale e risarcimento danni: una sentenza assai particolare

Una bambina cade nel vano di corsa di un ascensore condominiale e riporta lesioni gravissime. La causa di risarcimento viene promossa contro il condominio, sebbene quell’ascensore serva solo una delle quattro scale che lo compongono: l’intero condominio viene condannato a pagare un risarcimento di diverse centinaia di migliaia di euro.

L’Amministratore del condominio ha resistito in giudizio senza mai dar conto della situazione di parzialità, sicché la condanna viene emessa nei confronti del condominio B. in persona dell’amministratore pro tempore.

I condomini che fanno parte delle altre scale, non servite dall’impianto e che dunque non ne sono proprietari, propongono opposizione di terzo, ritenendosi tali  rispetto alla pronuncia.

La vicenda approda in Cassazione, con esiti che meritano lettura.

Da un lato si richiama ancora una volta il concetto di ente di gestione, già assai criticato dalle sezioni unite 9148/2008, mentre dall’altro si suggerisce una rilevanza anche esterna della  norma di cui all’art. 1123 III comma cod.civ., che tuttavia doveva essere fatta valere dai condomini non proprietari dell’impianto – secondo il giudice di legittimità – tramite intervento nel giudizio e con gli ordinari mezzi di impugnazione: i  condomini estranei al condominio parziale dell’ascensore non sono comunque terzi rispetto al Condominio unitariamente inteso, ma sono semplicemente soggetti che – eventualmente – non sono tenuti a quella spesa.

Cass.Civ. II sez. 21 febbraio 2017 n. 4436 rel. Giusti: “ Rileva il collegio che, per costante giurisprudenza, la  legittimazione ad impugnare la sentenza con l’opposizione di terzo ordinaria (art. 404 I comma c.p.c.) presuppone in capo all’opponente la titolarità di un diritto autonomo, la cui tutela sia incompatibile con la situazione giuridica risultante dalla sentenza pronunciata fra altre parti (Cass. 6179/2009, CAss. 8888/2010). Va inoltre ribadito che il giudicato formatosi all’esito di un processo in cui sia stato parte l’amministratore di un condominio, fa stato anche nei confronti dei singoli condomini, pure se non intervenuti in giudizio, atteso che il condominio è ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini (Cass. 12343/2002, 12911/2012). 

Deve pertanto essere esclusa in capo ai condomini istanti la legittimazione all’opposizione ordinaria ex articolo 404 c.p.c., non essendo essi terzi rispetto alla situazione giuridica affermata  con la sentenza passata in giudicato, la quale ha riconosciuto la responsabilità del condominio di via X al pagamento in favore di Y delle somme ad essa a dovute a titolo di risarcimento dei danni per le gravissime lesioni subite  per essere precipitata nel vano di cosa dell’ascensore condominiale”

I condomini opponenti sono parti originarie rispetto alla lite  conclusa con la sentenza impugnata con l’opposizione di terzo (cass. 10717/2011): infatti è stato citato in giudizio il condominio nella sua interezza ed unitarietà e si è costituito il relativo amministratore senza sollevare eccezioni in relazione alla carenza di legittimazione passiva di una parte dei condomini (i condomini appartenenti alle scale a, B e C), i quali non hanno ritenuto di intervenire in giudizio per eccepire la mancanza di ogni responsabilità a loro carico.

I condomini opponenti avrebbero dovuto intervenire nel giudizio in cui la difesa è stata assunta dall’amministratore o anche avvalersi, in via autonoma, dei mezzi di impugnazione dell’appello o del ricorso per cassazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunciata nei confronti del condominio rappresentato dall’amministratore (cass. 10717/2011 cit, Cass. 16562/2015)”

© massimo ginesi 24 febbraio 2017 

 

per l’azione di nullità del regolamento contrattuale non vi è legittimazione passiva dell’amministratore

Il regolamento di natura contrattuale è una convenzione intercorsa fra più soggetti, nei cui unici confronti – e non dell’amministratore del condominio – va introdotta l’azione per farne dichiarare la nullità.

Quel tipo di regolamento, proprio per la sua natura contrattuale, è idoneo anche ad identificare le parti comuni ai partecipanti al condominio, anche in deroga all’art. 1117 cod.civ., sicché anche un corpo di fabbrica esterno al condominio – che abbia in comune con questo solo un cortile – ben potrà essere soggetto alle spese per la manutenzione delle parti comuni, anche ove quelle non siano strumentali all’uso di quella unità, se così  sia previsto da quel tipo di regolamento.

Sono i due principi espressi da Cass.Civ. II sez. 21 febbraio 2017 n. 4432 rel. Scarpa: un regolamento di condominio cosiddetto contrattuale, quali ne siano il meccanismo di produzione ed il momento della sua efficacia, si configura, dal punto di vista strutturale, come un contratto plurilaterale, avente cioè pluralità di parti e scopo comune; ne consegue che l’azione di nullità del regolamento medesimo è esperibile non nei confronti del condominio (e quindi dell’amministratore), carente di legittimazione in ordine ad una siffatta domanda, ma da uno o più condomini nei confronti di tutti gli altri, in situazione di litisconsorzio necessario (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12850 del 21/05/2008).”

“la costituzione di un condominio, che comprenda eventualmente anche soggetti i quali non fossero già comproprietari dei beni che lo stesso art. 1117 c.c. attribuisce automaticamente per la loro accessorietà alle proprietà esclusive, è comunque possibile per effetto del consenso unanime di quelli, ovvero quale conseguenza dell’espressione di autonomia privata, che determini ex contractu l’insorgenza del diritto di comproprietà, e quindi anche la proporzionale assunzione degli obblighi e degli oneri ad esso correlate. Perciò, con il regolamento di condominio di fonte e contenuto contrattuale ben può essere attribuita la comproprietà delle cose, incluse tra quelle elencate nell’art. 1117 cod. civ., a coloro cui appartengono alcune determinate unità immobiliari, indipendentemente dalla sussistenza di fatto del rapporto di strumentalità che determina la costituzione ex lege del condominio edilizio (arg. da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1366 del 10/02/1994; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15794 del 11/11/2002)”.

© massimo ginesi 24 febbraio 2017 

art. 1135 cod.civ., appalto in condominio : anche le variazioni vanno approvate dalla assemblea

Una articolata sentenza della Cassazione fa il punto sul complesso tema dell’appalto e dei relativi poteri assembleari previsti  dall’art. 1135 cod.civ.

Cass.Civ. II sez. 21 febbraio 2017 . n. 4430 (rel. Scarpa): la causa nasce nel 2004 con una impugnazione di delibera con cui gli attori chiedono al Tribunale di Lanciano  di dichiarare invalida “la deliberazione dell’assemblea condominiale del 9 dicembre 2003, che aveva approvato il rendiconto dall’1.11.2002 al 31.10.2003 e la relativa ripartizione, comprensivi di un importo dei lavori di manutenzione della fogna per un importo di C 13.840,63, oltre I.V.A., maggiore di quello preventivato e pattuito con l’appaltatrice B.D. SRL, pari ad C 7.790,89. Gli attori avevano chiesto di dichiarare invalida la deliberazione dell’assemblea, per motivi inerenti alle carenze dell’ordine del giorno, al merito dei lavori effettivamente eseguiti dall’impresa ed alla ripartizione delle spese, effettuata sulla base di 986,42 millesimi anziché 1000 millesimi”

Osserva la corte, in primo luogo, che l’approvazione dell’appalto è materia di pertinenza dell’assemblea ai sensi dell’art. 1135 cod.civ. “E’ pacifico che occorra l’autorizzazione dell’assemblea (o, comunque, l’approvazione mediante sua successiva ratifica), ai sensi dell’art. 1135, comma 1, n. 4, c.c., e con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, comma 4, c.c., per l’approvazione di un appalto relativo a riparazioni straordinarie dell’edificio condominiale (si veda indicativamente Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10865 del 25/05/2016).”

La decisione passa poi ad esaminare il contenuto della delibera di approvazione di contratto di appalto e il potere del sindacato del giudice, che non potrà mai estendersi al merito:  “Il contenutLa delibera assembleare in ordine alla manutenzione straordinaria deve determinare l’oggetto del contratto di appalto da stipulare con l’impresa prescelta, ovvero le opere da compiersi ed il prezzo dei lavori, non necessariamente specificando tutti i particolari dell’opera, ma comunque fissandone gli elementi costruttivi fondamentali, nella loro consistenza qualitativa e quantitativa.

Sono, peraltro, ammissibili successive integrazioni della delibera di approvazione dei lavori, pure inizialmente indeterminata, sulla base di accertamenti tecnici da compiersi. In ogni caso, l’autorizzazione assembleare di un’opera può reputarsi comprensiva di ogni altro lavoro intrinsecamente connesso nel preventivo approvato (arg. da Cass., Sez. 2, Sentenza n. 5889 del 20/04/2001). I condomini non possono, però, sollecitare il sindacato dell’autorità giudiziaria sulla delibera di approvazione dei lavori straordinari, censurando l’utilità dei lavori, l’adeguatezza tecnica dell’intervento manutentivo stabilito, o la scelta di un preventivo di spesa meno vantaggioso di quello contenuto in altra offerta. Il controllo del giudice sulle delibere delle assemblee condominiali è limitato al riscontro della legittimità, in base alle norme di legge o del regolamento condominiale, e giunge fino alla soglia dell’eccesso di potere, mentre non può mai estendersi alla valutazione del merito ed alla verifica delle modalità di esercizio del potere discrezionale spettante all’assemblea”.

Ove intervengano significative varianti nel corso della esecuzione dell’opera, queste dovranno formare oggetto di ulteriore specifica approvazione assembleare: Quanto detto in ordine all’approvazione delle modalità costruttive ed al prezzo vale, ovviamente, anche per le varianti dell’opera di manutenzione straordinaria appaltata dal condominio, dovendo parimenti le variazioni alle originarie modalità convenute essere autorizzate dall’assemblea del condominio, sempre ex artt. 1135, comma 1, n. 4, e 1136, comma 4, c.c. E’ tuttavia certamente consentito all’assemblea di approvare successivamente le varianti delle opere di manutenzione straordinarie appaltate, comportanti un aumento delle spese medesime, disponendone il rimborso, trattandosi di delibera riconducibile fra le attribuzioni conferitele dall’art. 1135 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6896 del 04/06/1992; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10865 del 25/05/2016, in motivazione). L’assemblea può, infatti ratificare le spese straordinarie erogate dall’amministratore senza preventiva autorizzazione, anche se prive dei connotati di indifferibilità ed urgenza, e, di conseguenza, approvarle, surrogando in tal modo la mancanza di una preventiva di delibera di esecuzione (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18192 del 10/08/2009; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2864 del 07/02/2008).”

Detta ratifica  ben potrà avvenire anche durante l’approvazione del rendiconto annuale, ove l’ordine del giorno sia sufficientemente esteso da poter comprendere tutti gli esborsi dell’esercizio (seppure, plausibilmente, la delibera sullo specifico punto sia da adottare con le diverse maggioranze richieste dalla materia straordinaria):  “Quanto detto in ordine all’approvazione delle modalità costruttive ed al prezzo vale, ovviamente, anche per le varianti dell’opera di manutenzione straordinaria appaltata dal condominio, dovendo parimenti le variazioni alle originarie modalità convenute essere autorizzate dall’assemblea del condominio, sempre ex artt. 1135, comma 1, n. 4, e 1136, comma 4, c.c. E’ tuttavia certamente consentito all’assemblea di approvare successivamente le varianti delle opere di manutenzione straordinarie appaltate, comportanti un aumento delle spese medesime, disponendone il rimborso, trattandosi di delibera riconducibile fra le attribuzioni conferitele dall’art. 1135 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6896 del 04/06/1992; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10865 del 25/05/2016, in motivazione). L’assemblea può, infatti ratificare le spese straordinarie erogate dall’amministratore senza preventiva autorizzazione, anche se prive dei connotati di indifferibilità ed urgenza, e, di conseguenza, approvarle, surrogando in tal modo la mancanza di una preventiva di delibera di esecuzione (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18192 del 10/08/2009; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2864 del 07/02/2008).”

Da quella delibera sorge l’obbligo dei condomini di versare le proprie quote e non dalla stipulazione del contratto con l’appaltatore e, per le stesse ragioni,  non può darsi azione diretta del singolo condomino verso l’appaltatore: “Ritenuta la deliberazione dell’assemblea 9 dicembre 2003 utile ratifica dell’obbligo di spesa per i lavori di manutenzione della fogna nell’importo di C 13.840,63, oltre I.V.A., dovuto all’appaltatrice B. D. SRL, è da essa (salvi gli effetti invalidanti dell’impugnazione ex art. 1137 c.c.), e non dal rapporto contrattuale con l’appaltatrice, che discende l’obbligo dei singoli condomini di partecipare agli esborsi derivanti dall’esecuzione delle opere. Ponendosi il condominio (e non ciascun condomino) come committente nei confronti dell’appaltatrice (giacché unitario è l’interesse sottostante alla posizione dei singoli partecipanti al condominio, espresso nell’atto collegiale), la tutela del singolo condomino, riguardo agli effetti pregiudizievoli derivanti dalle obbligazioni assunte nei confronti della stessa appaltatrice, può concepirsi soltanto nell’ambito dell’impugnazione della deliberazione dell’assemblea di approvazione, e non sotto il profilo dei rimedi contrattuali.

E’ perciò sostanzialmente corretto quanto deciso dalla Corte d’Appello dell’Aquila, dichiarando inammissibile la pretesa dei condomini D.D.V. e M. P. di agire in via diretta verso l’appaltatrice per accertare il minor compenso spettante a quest’ultima.”

Il ricorso al Giudice di legittimità trova invece fondamento sulla ripartizione millesimale errata, che comporta rinvio al giudice di merito: “D.D.V. e M. P. avevano impugnato con specifico motivo la sentenza del Tribunale di Lanciano anche riproponendo la domanda di annullamento della deliberazione dell’assemblea condominiale del 9 dicembre 2003, perché il riparto era stato effettuato sulla base di 986,42 millesimi anziché 1000 millesimi, in quanto domanda su cui il primo giudice non aveva deciso. Su tale motivo di appello la Corte di L’Aquila ha omesso di pronunciarsi. Si impone pertanto la cassazione con rinvio della sentenza impugnata, richiedendo la decisione nel merito accertamenti di fatto in ordine alla sussistenza nella deliberazione di ripartizione della spesa del valore delle unità immobiliari, espresso in millesimi, ragguagliato a quello dell’intero edificio.”

L’impugnazione risulta fondata anche per quel che attiene al tema delle spese, sullo spinoso problema della compensazione, soluzione con troppa frequenza adottata dai Tribunali (e su cui gli ultimi interventi legislativi hanno opportunamente posto qualche limite applicativo): “La Corte di L’Aquila ha altresì omesso di pronunciare sul motivo di impugnazione attinente all’omessa compensazione ed all’entità della liquidazione delle spese di primo grado operata in favore dei convenuti. Il giudice di appello, in presenza di una censura che investe la pronunzia del giudice di primo grado sulle spese, specificamente indicando giusti motivi di compensazione o un’eccessiva liquidazione di esse, ha il dovere di apprezzare, anche nel contesto di ogni altro elemento, la consistenza ed importanza dei fatti dedotti e di precisare, così, la ragione per la quale egli ritenga di condividere la decisione di primo grado (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 9758 del 10/05/2005).”

© massimo ginesi 23 febbraio 2017

1125 cod.civ.: cosa è comune? la lettura della Cassazione.

Un caso decisamente singolare quello affrontato da Cass. civ. II sez. 14 febbraio 2017 n. 3893.

Un condomino procede alla ristrutturazione del proprio appartamento e sostituisce la vecchia soletta, costituita da travi in legno, che rimanevano a vista nella unità sottostante.

La nuova soletta,  in laterocemento, viene posta al livello del limite inferiore dei preesistenti travi in legno ed il condomino del piano inferiore si duole che gli sia stato sottratto lo spazio vuoto fra i travi.

Sembrerebbe una delle tante questioni capziose che quotidianamente assediano le aule di giustizia ed invece la doglianza è fondata.

come questa Corte ha già affermato, il solaio esistente fra i piani sovrapposti di un edificio è oggetto di comunione fra i rispettivi proprietari per la parte strutturale che, incorporata ai muri perimetrali, assolve alla duplice funzione di sostegno del piano superiore e di copertura di quello inferiore, mentre gli spazi pieni o vuoti che accedono al soffitto od al pavimento, e non sono essenziali all’indicata struttura rimangono esclusi dalla comunione e sono utilizzabili rispettivamente da ciascun proprietario nell’esercizio del suo pieno ed esclusivo diritto dominicale (Cass. 2868/1978).
Deve dunque escludersi che la comunione si estenda oltre che alle travi, aventi funzione di sostegno del solaio e che, pacificamente, fanno parte di detta struttura portante (Cass., 13606/2000), allo spazio esistente tra le stesse, integrante volumetria di esclusiva utilizzazione da parte del proprietario del piano sottostante. Ed invero, come dal solaio deve essere distinto il pavimento che poggia su di esso, che appartiene esclusivamente al proprietario dell’abitazione sovrastante e che può essere, quindi, da questo liberamente rimosso o sostituito secondo la sua utilità e convenienza (Cass. 7464/1994), cosi pure dev’essere distinto il volume esistente tra le travi, che costituisce il soffitto dell’appartamento sottostante ed è dunque liberamente utilizzabile dal proprietario di questo”

Ne deriva che la sostituzione della soletta così effettuata risulta illegittima e fonte di danno per il condomino sottostante: “dall’accertata riduzione della cubatura utilizzabile nell’appartamento sottostante a quello in cui sono stati eseguiti i lavori di sostituzione del solaio, discende ex se (quale danno conseguenza), l’esistenza di un danno per la riduzione del godimento del bene quale conseguenza del restringimento della cubatura, nonchè per riduzione del valore commerciale del locale (Cass. 3178/1991), indipendentemente dal fatto che, prima dell’abbassamento del soffitto, detto locale possedesse o meno l’altezza minima sufficiente ai fini dell’abitabilità.
Risulta inoltre, avuto riguardo alla determinazione della misura dell’abbassamento del soffitto del ricorrente in conseguenza dei lavori effettuati sul solaio, che la sentenza impugnata abbia omesso di prendere specificamente in esame le risultanze della ctu, al fine di determinare, sulla base dei relativi rilievi, l’altezza iniziale del soffitto del ricorrente. In accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata va dunque cassata, con rinvio, anche per la regolazione delle spese del presente giudizio, alla Corte di appello di Campobasso, in diversa composizione, che farà applicazione del seguente principio di diritto:
“nel caso di solaio sostenuto da travi che fanno parte della struttura portante del solaio stesso, la comunione tra i proprietari dei rispettivi appartamenti non si estende allo spazio esistente tra le travi che costituisce volumetria di esclusiva utilizzazione da parte del proprietario del piano sottostante.
Di conseguenza, la ristrutturazione del solaio che comprometta l’utilizzo di detto spazio (e l’abbassamento sino all’intradosso delle travi) determina un pregiudizio in capo al proprietario del vano sottostante che è ex se risarcibile”

La sentenza contiene anche un altro principio interessante: ove il CTu compia qualche attività in violazione del contraddittorio fra le parti, tali condotte non comportano automaticamente nullità ove non abbiano avuto riflessi determinati nella stesura finale della relazione: “sulla validità della relazione del consulente tecnico d’ufficio non incide l’eventuale nullità di alcune rilevazioni od accertamenti compiuti dal consulente medesimo, per violazione del principio del contraddittorio e conseguente pregiudizio del diritto di difesa delle parti, ove tali rilevazioni od accertamenti non abbiano spiegato alcun effetto sul contenuto della consulenza e sulle relative conclusioni finali (Cass. 4981/1977).”

© massimo ginesi 21 febbraio 2017 

nelle cause su materie ex art. 1130 cod.civ. l’amministratore impugna senza necessità di delibera.

Cass. civ. II sez. 16 febbraio 2017 n. 4183. La Corte si trova ad affrontare un caso decisamente interessante, ovvero l’individuazione del criterio di riparto delle spese da adottare per gli esborsi relativi ad una terrazza che in parte svolge funzione di copertura (terrazza a livello)  ed in parte costituisce  terrazza aggettante.

I rari precedenti giurisprudenziali si sono orientati sulla funzione preminente fra le due, che determinerebbe  il criterio applicabile.

Putroppo però la vicenda processuale non consente una statuzione su tale principio, poichè la corte riconosce applicabile la disciplina convenzionale dettata nel regolamento.

Nel pervenire a tali concluioni è però chiamata a statuire su una eccezione di inammissibilità dell’impugnativa per non aver il condominio, a detta del ricorrente, espressamente deliberato sul punto ed avendo l’amministratore agito in via autonoma.

La corte chiarisce che “in base al disposto degli artt. 1130 e 1131 codice civile, l’amministratore del condominio è legittimato ad agire in giudizio per l’esecuzione di una deliberazione assembleare o per resistere alla impugnazione della delibera stessa da parte del condomino senza necessità di una specifica autorizzazione assembleare, trattandosi di una controversia che rientra nelle sue normali attribuzioni, con la conseguenza che in tali casi egli neppure deve premunirsi di alcuna autorizzazione dell’assembela per proporre le impugnazioni nel caso di soccombenza del condominio (cass. 15.5.1998 n. 4900, CAss. 20.4.2005 n. 8286). A questa conclusione non è di ostacolo il principio, enunciato dalle Sezioni Unite (sentenza 6 agosto 2010 n. 18331) , secondo cui l’amministratore del condominio, potendo essere convenuto nei giudizi relativi alle parti comuni ma essendo tenuto a dare senza indugio notizia alla assemblea della citazione e del provvedimento che esorbiti dai suoi poteri, ai sensi dell’art. 1131 commi 2 e 3, ben può costituirsi in giudizio e impugnare sentenza sfavorevole senza la preventiva autorizzaizone dell’assembela, ma deve, in tale ipotesi, ottenere la necessaria ratifica del suo operato da parte della assemblea stessa, per evitare pronuncia di inammissibilità dell’atto di costituzione ovvero di impugnazione.

L’ambito applicativo del dictum delle Sezioni Unite – con la regola, da esse esplicitata, della necessità dell’autorizzazione assembleare, sia pure in sede di successiva ratifica – si riferisce, espressamente, a quesi giudizi che esorbitano dai poteri dell’amministratore ai sensi dell’art. 1131 commi 2 e 3 cod.civ. Ma non è questo il caso, posto che eseguire le deliberazioni dell’assemblea e difiendere le stesse dalle impugnative giudiziali del singolo condomino rientra nelle attribuzioni proprie dell’amminsitratore.

Il Collegio ricorda che esiste qualche pronuncia di segno contrario anche successiva alle Sezioni Unite del 2010, ma se ne allontana allineandosi ai principi espressi dalla adunanza plenaria .

“Il collegio è invece  dell’avviso che, nella propria sfera di competenza (ordinarie o incrementate dalla assemblea), l’amministratore è munito di poteri di rappresentanza processuale ad agire e resistere senza necessità di alcuna autorizzazione. Sarebbe, infatti, veramente defatigatorio, nell’ottica di un assurdo “iperassembelarismo”, che l’amministratore fosse costretto a convocare ogni volta i condomini al fine di ottenere il nulla osta, ad esempio, per agire o resistere al monitorio sul pagamento degli oneri condominiali, o al giudizio per far osservare il regolamento, o all’impugnativa di una statuizione assembleare, oppure al fine di sperare nella ratifica riguardo ad un procedimento cautelare volto a conservare le parti comuni dello stabile (v. in termini Cass. 23.1.2014 n. 1451). “

© massimo ginesi 20 febbraio 2017

 

art. 1122 cod.civ. : l’azione è imprescrittibile e va proposta nei confronti di tutti i comproprietari

Un condomino costruisce delle pensiline sul proprio terrazzo, propone un’azione di impugnativa di una delibera e il Condominio, in via riconvenzionale, richiede al Tribunale che ordini la rimozione delle pensiline che assume essere lesive del decoro del fabbricato.

La domanda in via riconvenzionale ha successo (non l’impugnativa proposta in via principale) e il Tribunale di Trani, sez. dist. di Andria, nel lontano 2005, ordina la rimozione delle pensiline ritenute pregiudizievoli per il decoro e lesive dell’art. 7 del regolamento e dell’art. 1120 cod.civ.

La Corte di Appello di Bari, nel 2012, rigetta l’impugnativa proposta dal condomino, che ricorre in cassazione lamentando – fra i vari motivi – un difetto di integrità del contraddittorio.

Il motivo di natura processuale risulta  fondato, tuttavia  la motivazione del Giudice di legittimità ( Cass.civ. sez. II  17 febbraio 2017 n. 4193, rel. Scarpa) appare puntuale e di grande interesse anche sotto i profili sostanziali.

Sono occorsi 13 anni di giudizio per arrivare al giudizio di cassazione ove, rilevato un vizio nella rituale costituzione del contraddittorio, viene disposto  rinvio al giudice di primo grado.

1 “L’azione a tutela del decoro architettonico dell’edificio in condominio, nella specie riconducibile, per quanto emerge dagli atti, all’articolo 1122 codice civile, trattandosi di opere realizzate da un condomino nella porzione di proprietà esclusiva (e non, quindi, all’articolo 1120 codice civile, che attiene all’innovazione delle parti comuni) ha natura reale, costituendo estrinsecazione di facoltà insita nel diritto di proprietà, ed è perciò imprescrittibile, in applicazione del principio per cui “in facultativis non datur praescriptio (cfr Cass. II sez. 7727/ 2000, CAss. II sez. 1455/1981).

Quando, tuttavia, l’azione diretta alla riduzione in pristino ex articolo 1122 codice civile riguarda un immobile comune a più persone, sussiste causa inscindibile per ragioni sostanziali, comportante litisconsorzio necessario tra tutti comproprietari medesimi, incidendo la condanna sull’abbattimento sull’esistenza dell’oggetto della comproprietà spettante a persone estranee al processo (CAss. II sez  5333/2000).

La mancata citazione di uno dei litisconsorti  necessari costituisce vizio rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, e perciò anche nel giudizio di legittimità, se risultante dagli atti e non preclusa dal giudicato sulla questione. Avendo, peraltro, il ricorrente eccepito la non integrità del contraddittorio per la prima volta in cassazione (mediante denuncia di vizio che, costituendo error in procedendo, il quale importa per legge la nullità della sentenza il procedimento, si traduce motivo di ricorso a norma del numero 4 dell’articolo 36o c.p.c., come fatto con la prima censura) lo stesso ha indicato in AL la comproprietaria che doveva partecipare al giudizio quale litisconsorte  necessaria, ed ha altresì adempiuto all’onere di individuare gli atti del processo di merito dai quali può trarsi la prova dei presupposti di fatto che giustificano la sua eccezione.”

La corte dunque cassa con rinvio al giudice di primo grado affinché venga nuovamente celebrato il processo con il contraddittorio integro.

massimo ginesi © 17 febbraio 2017 

in assenza di rendiconto e di corretta tenuta della contabilità l’amministratore non ha diritto a compenso

Un principio importante, del tutto in linea con la disciplina del mandato, quello stabilito da Cass. civ.  II sez. 14 febbraio 2017, n. 3892.

Davanti al Giudice di legittimità è censurata una statuizione della Corte di appello di Roma: “La Corte, per quanto qui ancora interessa, avuto riguardo alla reiezione della domanda, avanzata dal ricorrente in qualità di amministratore del condominio su menzionato, di pagamento del proprio compenso, ha affermato che dalla espletata ctu era risultata la mancanza di un giornale di contabilità che avesse registrato cronologicamente le operazioni riguardanti il condominio, consentendo in modo puntuale la verifica dei documenti giustificativi, onde non era possibile ricostruire l’andamento delle uscite e dei pagamenti effettuati, per fatto imputabile all’amministratore, tra i cui doveri rientrava quello di corretta tenuta della contabilità.”

Afferma la Cassazione: “non è controversa la mancanza di una contabilità regolare che registrasse cronologicamente le operazioni riguardanti la vita del condominio e che quindi consentisse la verifica dei documenti e dunque la giustificazione delle entrate ed uscite della gestione dell’ente condominiale, né risulta che sia mai stata adottata, negli anni in contestazione, la delibera di approvazione del rendiconto dell’amministratore da parte dell’assemblea dei condomini ex art. 1130 c.c..
La contabilità presentata dall’amministratore del condominio, seppure non dev’essere redatta con forme rigorose, analoghe a quelle prescritte per i bilanci delle società, deve però essere idonea a rendere intellegibili ai condomini le voci di entrata e di uscita, con le relative quote di ripartizione, e cioè tale da fornire la prova, attraverso i corrispondenti documenti giustificativi dell’entità e causale degli esborsi fatti, e di tutti gli elementi di fatto che consentono di individuare e vagliare le modalità con cui l’incarico è stato eseguito, nonché di stabilire se l’operato di chi rende il conto sia uniformato a criteri di buona amministrazione (Cass. 9099/2000 e 1405/2007).
In assenza di tale adempimento, il credito dell’amministratore non può ritenersi provato.

Nell’ipotesi di mandato oneroso, infatti, il diritto del mandatario al compenso ed al rimborso delle anticipazioni e spese sostenute è condizionato alla presentazione al mandante del rendiconto del proprio operato, che deve necessariamente comprendere la specificazione dei dati contabili delle entrate, delle uscite e del saldo finale (Cass. 3596/1990).
Ed invero, solo la deliberazione dell’assemblea di condominio che procede all’approvazione del rendiconto consuntivo emesso dall’amministratore ha valore di riconoscimento di debito in relazione alle poste passive specificamente indicate (Cass. 10153/2011), così come dalla delibera dell’assemblea condominiale di approvazione del rendiconto devono risultare le somme anticipate dall’amministratore nell’interesse del condominio (Cass. 1286/1997) non potendo in caso contrario ritenersi provato il relativo credito.
Attesa dunque la situazione di mancanza di una contabilità regolare e della stessa predisposizione ed approvazione del rendiconto annuale di gestione dell’amministratore, la ricostruzione ex post da parte del Ctu, sulla base di una verifica documentale a campione, non appare idonea a fondare la prova del credito del ricorrente, che può essere desunta in modo attendibile dalla sola determinazione dell’ammontare complessivo dei versamenti effettuati dai condomini e dalle uscite per spese condominiali, con relativi documenti giustificativi.

Non è inoltre pertinente il riferimento del ricorrente al principio secondo il quale, in sede di responsabilità contrattuale, il creditore deve soltanto provare la fonte dell’obbligazione, limitandosi ad allegare l’inadempimento della controparte, atteso che in materia di condominio, sulla base della disposizione dell’art. 1130 c.c., il credito dell’amministratore, come del resto ogni posta passiva, deve risultare dal rendiconto (redatto secondo il principio della specificità delle partite ex artt. 263 e 264 cpc) approvato dall’assemblea, sulla base di una regolare tenuta della contabilità, sì da rendere intellegibili ai condomini le voci di entrata e di spesa e di valutare in modo consapevole l’operato dell’amministratore.”

Attenzione dunque che il mancato adempimento di quanto previsto dagli art. 1129, 1130 e 1130 bis cod.civ. non solo può dar luogo a responsabilità nei confronti del condominio, con conseguente revoca per gravi irregolarità, ma può  pregiudicare anche il diritto a percepire il compenso (non solo sotto il profilo dell’inadempimento del mandatario ma anche solo sotto il profilo della prova, come afferma la sentenza in commento).

© massimo ginesi 16 febbraio 2017

il vincolo pertinenziale è un legame funzionale e non fisico

La Cassazione (Cass. Civ. II sez. 15 febbraio 2017 n. 3991) riafferma un principio consolidato in tema di beni accessori: il vincolo pertinenziale non presuppone necessariamente contiguità fisica ma funzionale.

LA vicenda nasce a Massa, ove un soggetto che ha acquistato un unità immobiliare chiede di vedersi riconosciuto anche la proprietà di un ripostiglio posizionato nel cortile retrostante – ove era posizionato l’impianto di condizionamento dell’aria a servizio del bene acquistato – e il diritto di passaggio nel cortile retrostante l’immobile per accedere al piccolo ripostiglio, assumendo che lo stesso costituisse pertinenza dell’immobile acquistato o – in via subordinata – per usucapione.

In primo grado il Tribunale di Massa riconosce la proprietà del ripostiglio per intervenuta usucapione mentre la Corte di appello di Genova rigettava l’impugnazione proposta dal venditore, ritenendo che l’immobile costituisse pertinenza dell’immobile compravenduto.

La causa arriva all’esame del giudice di legittimità che conferma la lettura di secondo grado.

Il ricorrente proporne un secco motivo di ricorso, sostenendo che o si deve ritenere che il ripostiglio sia pertinenza e allora dovrebbe costituire un tutt’uno con il corpo principale ovvero ad esso si può accedere solo attraverso il cortile, ed allora non si avrebbe alcuna pertinenza.

Afferma la Corte “Tali affermazioni sono accomunate dal medesimo errore di supporre, senza alcuna base negli artt. 817 e ss cod.civ., che la pertinenza sia tale solo se congiunta materialmente e strutturalmente alla res principalis e raggiungibile unicamente da questa. Al contrario, è noto che il collegamento tra i due beni, quello principale e quello pertinenziale, non è di tipo materiale ma di natura economico-funzionale /cfr. Cass. n. 2278 del 1990, n. 2280 del 1982 e n. 974 del 1975), come del resto dimostra il caso degli instrumenta fundi, vero e proprio archetipo della categoria (v. Cass. n. 1807 del 1965).”

© massimo ginesi 16 febbraio 2017